Il Cristianesimo si evolve dagli antichi misteri. I gradi dell’iniziazione egizio-caldaica.

O.O. 187 – Come ritrovare il Cristo – 27.12.1918


 

Per poter studiare l’evoluzione del cristianesimo occorre proprio mostrare come esso si sia sviluppato dai misteri antichi, cosa che ho fatto nel mio libro II cristianesimo come fatto mistico. Non è facile parlare oggi dei misteri antichi: per una certa necessità storica, nell’evoluzione dell’umanità è sopravvenuta un’epoca (che comprende anche il nostro tempo attuale), in cui il mondo dei misteri si è ritirato, e non svolge più il ruolo importante che ebbe quando da esso (oltre che da altre fonti) nacque il cristianesimo. Questa regressione dei misteri ha una sua valida giustificazione che analizzeremo con gli argomenti che verranno svolti in questa e nelle prossime conferenze; vedremo anche in che modo i misteri possano venire rinnovati in modo conforme ai tempi moderni.

 

In tempi antichi (e si tratta qui anzitutto del periodo greco e di quello egizio-caldaico) gli uomini erano attirati dai misteri perché la loro concezione li costringeva alla convinzione che il mondo circostante non fosse il mondo reale: occorreva ricercare vie e mezzi perché l’uomo potesse penetrare nel mondo della realtà vera.

Gli uomini di quei tempi antichi, o per lo meno quelli che si ponevano qualche problema di conoscenza, sentivano profondamente un certo fatto. Essi sapevano che, in qualsiasi modo si cerchi di penetrare con mezzi esteriori nell’essenza del mondo, non si riesce però ad acquistarne la conoscenza.

 

Per valutare tutta l’importanza di tale conoscenza per quei tempi antichi occorre tener presente che allora la grande maggioranza degli uomini possedeva ancora la piena percezione di certi fatti spirituali elementari. Non era come oggi, che la grande maggioranza degli uomini percepisce solo le impressioni trasmesse dai sensi; allora la gente percepiva ancora, per così dire attraverso i fenomeni naturali, una certa sostanzialità spirituale. Percepivano anche certi effetti che andavano al di là di ciò che noi oggi chiamiamo processi naturali. Sebbene quegli uomini parlassero delle manifestazioni di spiriti elementari nella natura, in quei tempi essi erano profondamente persuasi che nessuna percezione del mondo esterno (per quanto chiaroveggente) potesse svelare la vera essenza del mondo: questa doveva essere ricercata per vie particolari. Nell’ambito della concezione greca del mondo, quelle vie particolari furono riassunte efficacemente nel bel motto: « Conosci te stesso! ».

 

Ecco che cosa si può scoprire, se si indaga il vero significato del motto « Conosci te stesso! ».

Si può scoprire che la forza di quelle parole nasce dalla conoscenza del fatto che, per quanto si possa conoscere il mondo esterno, non si riesce a scoprirne l’essenza, e neppure l’essenza dell’uomo. Per esprimerci in modo semplice, si potrebbe dire:quegli uomini erano persuasi che la conoscenza della natura non può chiarire l’essenza dell’uomo.

 

D’altra parte essi erano certi che la natura umana è in rapporto con l’intera natura dell’universo, e che pertanto a chi riesca a penetrare nell’essenza della natura umana si rivela anche qualcosa di essenziale sull’universo.

Mentre dall’osservazione del mondo (così ritenevano) non è possibile ricavare la conoscenza della sua intima essenza, è invece possibile acquistarla fondandosi sulla conoscenza della natura dell’uomo che è una parte di quel mondo.

Quindi: conosci te stesso, per conoscere il mondo!

Questo è l’impulso che sta a fondamento della civiltà greca, e anche della iniziazione egizio-caldaica.

 

Ogni tipo di iniziazione procede per una serie di gradini, come ci si è abituati a chiamarli.

Ora il primo gradino dell’iniziazione egizio-caldaica veniva definito dicendo che l’iniziando doveva passare per « la porta dell’uomo ».

Il passaggio per la porta dell’uomo era dunque il primo gradino.

Vale a dire che l’uomo stesso doveva diventare la porta dell’iniziazione.

 

Bisognava acquistare, alla soglia della conoscenza del mondo, la conoscenza dell’uomo, perché tale conoscenza schiudeva la via all’altra, a quella dell’universo.

Perciò il « Conosci te stesso! » equivale all’ingresso nell’essenza del mondo attraverso la porta dell’uomo.

 

Oggi però non ho intenzione di entrare nei particolari dei diversi gradini dell’iniziazione, ma vorrei piuttosto mettere in evidenza ciò che è essenziale per la comprensione del cristianesimo.

Quello che sto per dire non va dunque considerato come una trattazione esauriente dei gradi dell’iniziazione, bensì come un richiamo a certe caratteristiche particolari dell’iniziazione egizio-caldaica, caratteristiche che ebbero una funzione di preparazione dell’essenza del cristianesimo.

Ciò che l’iniziando doveva imparare a conoscere alla « porta dell’uomo » era dunque la natura stessa dell’essere umano: una cosa che, per quanta pena si fosse data, non avrebbe potuto trovare nel mondo esterno.

 

Nei misteri si sapeva perfettamente che nella natura umana era sopravvissuto qualcosa dei segreti dell’esistenza: qualcosa che poteva essere scoperto con mezzi umani, ma non con l’osservazione del mondo esterno.

Di questo si era sicuri: volgendo lo sguardo al mondo esterno, vi si ritrova certo il mondo della natura terrestre che circonda l’uomo.

Questa però non è altro che una specie di velo, di involucro, purché l’uomo la riconosca come tale.

Perfino ciò che le scienze sanno dirci oggi sulla natura esteriore, quale ci si manifesta, non è in grado di rivelarci la sua essenza.

 

In quei tempi antichi (assai più intensamente di quanto lo si faccia oggi), l’uomo poteva sollevare lo sguardo dalla natura terrestre circostante al mondo degli astri.

In esso scorgeva molte cose che egli sapeva essere connesse con l’uomo, non meno delle piante o degli animali e dei minerali terrestri: un sapere questo che ai nostri giorni è andato perduto.

Si sapeva che l’uomo, oltre che dai regni della natura terrestre, è nato anche dall’universo extraterrestre.

 

Certo però la conoscenza delle connessioni dell’uomo con l’universo extraterrestre poteva nascere solo se si passava per la « porta dell’uomo ».

L’uomo portava in sé i residui di una connessione dalla quale si era sciolto nel passaggio dall’evoluzione lunare a quella terrestre: i residui della sua connessione col cosmo extraterrestre.

Egli veniva dunque guidato alla « porta dell’uomo »: qui egli doveva imparare a conoscere l’uomo stesso, a conoscere entro se stesso quello che altrimenti doveva limitarsi a guardare fuori di sé senza comprenderlo, soprattutto nel mondo stellare.

 

L’uomo imparava a conoscere di non essere soltanto inserito in un corpo terrestre, composto dai regni della natura, ma anche che nel suo essere complessivo era fluito qualcosa di proveniente dall’intero mondo stellare extraterrestre.

• Grazie alla conoscenza di se stesso, egli imparava a conoscere per così dire la natura del cielo stellato.

Apprendeva di essere disceso per gradi, si potrebbe dire di cielo in cielo, prima di essere giunto sulla Terra e di esservisi incarnato in un corpo terrestre.

Alla soglia della « porta dell’uomo » egli doveva risalire quei gradini per i quali era disceso: di solito se ne menzionavano otto.

Durante la sua iniziazione egli doveva in certo modo ripercorrere quei gradini attraverso i quali era disceso, fino a poter nascere in un corpo fisico.

Una conoscenza di questo genere non può venire acquisita (e parlo sempre della conoscenza dei misteri precristiani) senza che ne venga coinvolto l’intero essere dell’uomo.

 

L’uomo moderno non ama farsi un’idea della preparazione che in quei tempi antichi l’iniziando doveva fare, perché oggi quei fatti lo irritano, e sto scegliendo le parole per rendere quei fatti nel modo più preciso.

Oggi si vorrebbe, se possibile, passare anche per l’iniziazione, come se si trattasse di un fatto qualunque, di un’esperienza qualsiasi da aggiungere alle altre.

Come si suol dire oggi, ci si vorrebbe « informare » sul modo di raggiungere certe conoscenze, e soprattutto non si è affatto disposti a passare per tutto ciò che doveva sperimentare nell’antichità chi aspirava all’iniziazione. Non si gradisce affatto l’idea di venire afferrati in tutta la propria essenza umana dalla preparazione all’iniziazione, di diventare un altro uomo.

 

Quegli aspiranti antichi dovevano invece proprio decidersi a diventare uomini diversi.

Le varie descrizioni che si trovano degli antichi misteri ne danno un’idea quanto mai confusa: per lo più esse suscitano l’impressione che le iniziazioni antiche fossero esperienze superficiali e fugaci, un po’ come le cosiddette iniziazioni della moderna massoneria. Le cose però non stanno così. Anche là dove oggi si riproducono le iniziazioni antiche, si tratta solo di imitazioni di esperienze che in tempi antichi erano reali, di imitazioni tutte esteriori che l’uomo moderno può fare senza alcun disturbo, proprio come gli piace.

 

La preparazione essenziale per l’uomo antico era invece quella di dover passare nel modo più intenso per lo stato di estrema paura che sempre colpisce l’uomo, quando viene condotto in piena coscienza di fronte a qualcosa di totalmente ignoto.

L’essenziale nelle iniziazioni antiche era proprio che si doveva sperimentare nel modo più intenso il fatto di trovarsi di fronte a qualcosa che in nessun modo si sarebbe potuto incontrare nella vita ordinaria.

Questa esperienza non può essere fatta con alcuna delle forze animiche di cui ci si serve anche oggi nella vita esteriore.

 

• Con le forze psichiche che l’uomo d’oggi predilige si può mangiare e bere, ci si può muovere nell’ambito sociale al modo oggi in uso, si può fare del commercio e della burocrazia: si può perfino diventare professore e occuparsi di scienze, ma con quelle forze non è possibile conoscere veramente nulla di reale.

L’atteggiamento animico con cui si voleva conoscere in quegli antichi tempi (e parlo sempre di quei tempi) era del tutto diverso, non poteva avere nulla in comune con le forze psichiche utili per la vita esteriore. Si doveva attingere a tutt’altre regioni dell’uomo, sempre presenti in lui, ma che egli ha una paura tremenda di maneggiare.

Con piena intenzionalità nell’iniziando veniva messa in azione quella regione che anche in quei tempi l’uomo comune, profano, evitava con cura e sulla quale oggi si ama farsi illusioni, lasciandola in un limbo confuso.

Per tale ragione si parla esteriormente di una serie di stati di terrore che venivano suscitati negli iniziandi, ma la cosa andrebbe intesa in senso molto più interiore, perché quelle condizioni venivano create per portare l’anima alla conoscenza desiderata, e ciò poteva avvenire solo nella regione della quale l’uomo nella vita ordinaria ha paura.

 

Solo attraverso quel reale stato d’animo, sopportato con coraggio, nel quale si provava soltanto la paura dell’ignoto (unico modo per conseguire la conoscenza), il discepolo poteva essere condotto poi all’altra esperienza di cui ho parlato poco fa: quella della discesa dell’uomo attraverso le regioni dei cieli (o del mondo spirituale), seguita dalla risalita per otto gradini.

Queste tappe vengono oggi imitate, non possono che essere riprodotte esteriormente, secondo le usanze del nostro tempo. Ma nell’antichità l’uomo faceva in realtà quelle esperienze.

Qui ci interessa soprattutto il risultato della presenza dell’iniziando alla « porta dell’uomo ».

 

Una volta raggiunta la comprensione del significato della sua presenza alla « porta dell’uomo », egli cessava di considerarsi (mi si scusi l’espressione!) come l’animale bipede che riassume in sé sulla Terra gli altri regni della natura.

Cominciava invece a considerarsi cittadino dell’universo intero, dei cieli visibili e anche di quelli invisibili.

Cominciava a sentire la propria unità con tutto il cosmo, a sentirsi veramente come un microcosmo: non solo come una piccola Terra, ma come un piccolo mondo.

Sentiva la propria connessione con pianeti e stelle fisse, sentiva cioè di provenire dall’universo.

Si potrebbe dire che egli sentiva che il suo essere non terminava alla punta delle dita o delle orecchie, ma si estendeva oltre questa sua corporeità terrestre, attraverso spazi infiniti, e al di là di quegli spazi ai mondi spirituali.

Questo era il risultato.

 

Non si cerchi di tradurre questo risultato in un concetto troppo astratto, perché non se ne avrebbe gran che.

Non è gran cosa l’affermare che l’uomo è un microcosmo, un piccolo universo, e attenersi solo a questo concetto astratto: in fondo, è solo un’illusione.

Negli antichi misteri l’essenziale era l’esperienza diretta.

Alla « porta dell’uomo » l’iniziando sperimentava realmente di avere un’affinità con Mercurio, con Marte, col Sole, con Giove, con la Luna.

Sperimentava davvero che i geroglifici cosmici che il Sole percorre (in modo apparente, diciamo noi oggi ovviamente), cioè le costellazioni dello zodiaco, hanno qualcosa a che fare con l’esistenza dell’uomo.

Solo in questo sapere concreto, fondato sull’esperienza, consisteva l’essenziale del processo cui mi riferisco.

 

Non è la stessa cosa, se oggi si traducono quei fatti in concetti astratti. Se oggi si traducono le antiche esperienze in concetti (questa stella produce il tale effetto, quell’altra il tal altro) si tratta appunto di concetti astratti. In quei tempi antichi si trattava invece di esperienze dirette, della reale risalita attraverso i diversi gradini per i quali l’uomo discende prima della nascita. Solo a quel punto, quando l’iniziando aveva appreso per esperienza diretta di essere un microcosmo, lo si considerava maturo per salire a un successivo secondo gradino: quello che a quel tempo era propriamente il gradino dell’autoconoscenza. Qui l’uomo poteva fare l’esperienza di quello che egli stesso è.

 

Ciò che poc’anzi ho caratterizzato come l’essenziale (che è poi anche l’essenza del mondo) l’uomo antico poteva dunque trovarlo solo entro l’uomo stesso: per potersi introdurre nell’universo, occorreva passare per la « porta dell’uomo ».

Entro questo secondo grado, tutto ciò che nel primo si era sperimentato come conoscenza si metteva per così dire in movimento.

È difficile dare oggi un’idea di questo mettersi in movimento di certe esperienze.

 

Al secondo gradino non solo si imparava in che modo siamo inseriti nel macrocosmo, ma si diventava partecipi dell’intero moto dell’universo.

In certo senso si percorreva lo zodiaco insieme al Sole, e per effetto di ciò si imparava a conoscere l’intera via che percorre ogni impressione esteriore esercitata sull’uomo.

Quando ci si trova di fronte al mondo esterno con la comune capacità di conoscenza, si conosce infatti soltanto l’inizio di un processo molto esteso. Noi vediamo un colore, ce ne facciamo una rappresentazione, forse la conserviamo nella memoria, ma più avanti di così non andiamo.

 

Questi sono tre gradini: se li si considerasse come qualcosa di compiuto, sarebbe come voler limitare a tre ore l’osservazione del corso del giorno, che ne ha dodici illuminate dal Sole.

Infatti ogni impressione che l’uomo accoglie da fuori, e che al massimo egli segue fino alla rappresentazione ricordata, compie in lui un processo ulteriore attraverso altri nove gradini.

L’uomo diventa per se stesso un che di mobile, viene per così dire percorso interiormente da una ruota vivente e in movimento, simile in qualche modo a come il Sole percorre il suo giro apparente nel cielo.

Così l’uomo imparava a conoscere se stesso, ma imparava a conoscere anche i segreti del macrocosmo.

 

• Se al primo gradino egli apprendeva come era inserito nel mondo,

• al secondo imparava il modo in cui si moveva nel mondo.

 

Se queste non diventavano conoscenze vitali, non si poteva raggiungere quello che negli antichi tempi doveva realmente sperimentare chiunque dovesse essere iniziato al terzo grado. Noi oggi viviamo in un’epoca nella quale vien fatto di negare ovviamente qualsiasi struttura ternaria (nel senso dei misteri), anzi si tende a cancellare del tutto dalla coscienza umana ogni struttura ternaria.

Infatti, che lo ammetta o no, oggi l’uomo è convinto che tutto il mondo sia racchiuso nello spazio e nel tempo.

 

Lo si può constatare anche presso certi pensatori seri. Basta ad esempio pensare come nel secolo diciannovesimo, quando il materialismo teorico raggiunse il suo apice, si concepisse il pensiero della immortalità dell’uomo. Certe persone molto intelligenti, alla metà del secolo scorso e nella sua seconda metà fecero ripetutamente questa affermazione: se davvero al momento della morte l’anima abbandonasse l’uomo, nell’universo non ci sarebbe alla fine più posto, perché esso sarebbe del tutto riempito di anime. Questo venne espresso da persone davvero intelligenti, perché erano profondamente convinte che dopo la morte l’anima umana dovesse essere sistemata in qualche modo che si potesse caratterizzare mediante concetti spaziali.

 

Un altro esempio: c’era una volta (e forse c’è ancora) una Società Teosofica nella quale si insegnavano molte cose sugli elementi costitutivi superiori della natura umana. Non voglio dire che le guide illuminate di quella Società cadessero nell’errore ricordato, ma una gran parte dei loro seguaci aveva un’idea molto spaziale del corpo astrale umano: lo concepivano come una nube molto tenue, ma pur sempre spaziale. Quei seguaci speculavano poi molto, chiedendosi dove mai si trovasse quella nuvola spaziale, quando si separa dall’uomo addormentato. Era ben difficile spiegar loro che quei concetti spaziali sono del tutto inadeguati per lo spirituale.

 

• All’uomo di oggi riesce straordinariamente difficile rendersi conto che a partire da un certo punto del cammino della conoscenza non solo si perviene ad altre parti dello spazio e ad altri tempi, ma si esce addirittura dal tempo e dallo spazio.

 

Il vero soprasensibile ha inizio là dove non soltanto si abbandonano le impressioni dei sensi e i processi temporali, ma si abbandonano lo spazio e il tempo stessi, e si penetra in condizioni di esistenza del tutto diverse da quelle che comprendono tempo e spazio.

Forse chi mi sta ascoltando si chiede in questo momento con qualche perplessità: ma come faccio a uscire dallo spazio e dal tempo col mio pensare? Eppure era proprio essenzialmente questa la vera conquista del passaggio attraverso i due primi gradi.

 

Se nell’epoca del materialismo si avesse ancora avuto una chiara coscienza di questi tre gradini, non si sarebbe diffusa una teoria tanto grottesca quanto quella dello spiritismo, e non alludo qui all’aspetto sperimentale, bensì alla teoria inventata per spiegarlo. Chi va in cerca di spiriti, tentando di portarli nello spazio sotto forma di corpi tenuissimi, non si rende affatto conto che, procedendo in tal modo, agisce già in modo non spirituale: va cioè in cerca di un mondo che non contiene spiriti, ma qualcosa di diverso dagli spiriti. Se lo spiritismo avesse una pallida idea che, per trovare spiriti, occorre uscire dal tempo e dallo spazio, non svilupperebbe l’idea grottesca che si debbano prendere delle disposizioni spaziali, grazie alle quali gli spiriti si manifestano così come si svolgono nel tempo i fenomeni spaziali.

 

Ho dunque menzionato ciò che doveva venire acquisito attraverso i primi due gradi, e fino al terzo:

• la possibilità cioè di uscire dal tempo e dallo spazio.

A ciò si veniva in effetti preparati dal reale passaggio per la cosiddetta « porta dell’uomo » e poi dal secondo gradino.

 

Il terzo grado veniva denominato in un modo che oggi potremmo esprimere così: l’iniziando passava per « la porta della morte ».

• Egli cioè sapeva ora di trovarsi realmente fuori dallo spazio nel quale si svolge la vita corporea dell’uomo tra la nascita e la morte, e anche fuori dal tempo entro il quale la vita trascorre.

• Sapeva di muoversi fuori da tempo e spazio, in quella che potremmo chiamare durata.

• Imparava a conoscere ciò che, pur inserendosi nel mondo sensibile (come ho già ricordato), non vi può venire compreso mediante quanto è presente in questo mondo, poiché contiene in sé già qualcosa di spirituale.

• L’iniziando imparava anche a occuparsi della morte e di tutto quanto la concerne.

Questo era in sostanza il contenuto del terzo gradino.

 

Comunque si considerino i riti dei misteri, diversi nei vari popoli, e comunque essi si presentino, in tutti ci si occupava della morte.

Sempre si dovevano prendere come punto di partenza per il terzo grado certe esperienze della morte fatte già entro la vita corporea: di quella morte che di solito porta l’uomo fuori del proprio corpo, e mi si scusi se uso questa espressione paradossale, ma al momento non ne ho di migliori.

Una tale esperienza era congiunta poi con la possibilità di considerare l’uomo, quale si presenta fra la nascita e la morte, come qualcosa di estraneo all’entità che si conseguiva ora, al terzo gradino. A quel punto si era in grado di dare un senso all’idea di trovarsi fuori del proprio corpo, ma « fuori » aveva allora un significato non più spaziale, bensì sovraspaziale.

Si era dunque capaci di connettere con questa esperienza un concetto veramente sperimentabile.

 

• A quel punto le persone coinvolte abbandonavano la fede nella religione comune del loro popolo; e anzitutto lì, alla « porta della morte», veniva superata la concezione che gli uomini si trovano sulla Terra, gli dèi invece, o Dio, in qualche luogo al di fuori degli uomini. Qui l’uomo sapeva di essere uno col suo dio, non si distingueva più da esso, si sentiva del tutto congiunto col dio. Quel terzo gradino portava all’uomo essenzialmente l’immortalità sperimentata in modo diretto. Era l’immortalità sperimentata, in quanto l’uomo era ora in grado di abbandonare quello che in lui è mortale, era capace di separarsi da ciò che in lui è mortale.

Questo risultato non deve però farci dimenticare l’intera via per pervenirvi.

 

Tutto il cammino consisteva nell’imparare a conoscere se stesso.

• Ora l’uomo non era più dentro se stesso, ma nel mondo esterno:

• aveva portato con sé nel mondo esterno quanto aveva imparato grazie alla penetrazione in se stesso.

 

L’essenziale dell’iniziazione precristiana era che l’uomo penetrava in se stesso

• al fine di trovarvi un quid che potesse poi portare con sé nel mondo esterno:

• solo in questo (grazie al fatto di essersi egli separato da se stesso)

• quel quid gli si sarebbe illuminato nel giusto modo,

• sì da sentirsi congiunto con l’essenza del mondo stesso.

 

• Penetrava in se stesso per poterne uscire.

• Penetrava in se stesso perché solo lì poteva trovare qualcosa dell’essenza del mondo;

• fuori non avrebbe potuto trovarlo, ma poteva invece sperimentarlo realmente.

 

• Passava per la « porta dell’uomo » e per la porta della conoscenza di sé,

• e per la « porta della morte » per poter penetrare nel mondo che certo era fuori di lui.

 

Anche il comune mondo naturale si trova fuori di noi, ma l’uomo sapeva di poter trovare quello che andava cercando, solo se fosse penetrato in se stesso.

 

Dopo avere superato il difficilissimo terzo gradino, si era senz’altro maturi per il quarto.

Solo per aver praticato per un certo tempo la vita sul terzo gradino, si diventava maturi per il quarto, in un modo che sarebbe molto difficile attribuire all’uomo odierno.

Per ragioni semplicemente legate al carattere della nostra epoca, in realtà l’uomo d’oggi non raggiunge una maturità entro il terzo grado.

Egli non riesce a uscire dalle rappresentazioni di spazio e tempo, se non mediante certe forze che però vanno ricercate per vie diverse da quelle seguite nei tempi antichi; ne riparlerò nei prossimi giorni.

 

L’uomo veniva sollevato alla coscienza del quarto gradino mediante ciò che aveva portato nel mondo esterno, traendolo dal suo profondo.

A questo punto egli diventava quello che più tardi fu chiamato un « Cristoforo », un portatore del Cristo.

In fondo, la mèta dell’iniziazione nei misteri era di fare dell’uomo un portatore del Cristo.

 

Naturalmente solo alcuni eletti divenivano « portatori del Cristo ».

Potevano diventarlo solo dopo avere cercato nell’uomo quello che non si poteva trovare in tutto l’universo, trasferendosi poi fuori, recando con sé ciò che avevano cercato, e congiungendosi infine col loro Dio.

Così diventavano portatori del Cristo.

 

• Sapevano di essersi congiunti nella struttura dell’universo con l’entità che più tardi, nel vangelo di Giovanni, viene chiamata il Logos,

• ovvero la Parola, il Verbo: quello dal quale « tutte le cose sono state fatte », e senza il quale « nulla di ciò che è stato fatto è stato fatto ».

 

• In quei tempi antichi il segreto del Cristo era dunque in certo senso separato dall’uomo da un abisso;

• era legato al superamento di quell’abisso da parte dell’uomo.

 

• Mediante la conoscenza di sé

• l’uomo doveva mettersi in condizione di uscire da se stesso

• e di congiungersi col suo Dio, diventando un portatore del suo Dio.

 

Per poter avanzare un poco in questa nostra considerazione, supponiamo che il mistero del Golgota non sia avvenuto sulla Terra, che l’evoluzione sia proceduta fino ai giorni nostri, senza che si sia compiuto il mistero del Golgota. Solo facendo di queste ipotesi si può apprezzare appieno un evento come quello del mistero del Golgota. Supponiamo dunque che esso non sia ancora avvenuto fino ai giorni nostri. Che cosa sarebbe accaduto, per quanto concerne i fenomeni che nei tempi antichi si osservavano nell’uomo per effetto dei misteri?

 

In quel caso l’uomo moderno potrebbe percepire l’antico motto apollineo greco « Conosci te stesso », e sentirsi indotto a seguirlo.

Poiché dopo tutto le tradizioni si sono conservate, egli potrebbe cercare di percorrere le stesse vie iniziatiche prescritte ad esempio dall’iniziazione regale egizio-caldaica, sforzandosi di ascendere i quattro gradini descritti per diventare un « Cristoforo », come si faceva nei tempi precristiani.

Però così si farebbe una certa ben precisa esperienza.

Seguendo l’antico « Conosci te stesso », e sforzandosi di penetrare in se stesso, anche passando per gli stati di terrore che allora si attraversavano, e poi mettendo in movimento ciò che prima si viveva in uno stato di tranquillità, l’uomo moderno potrebbe fare l’esperienza di non trovare affatto in sé l’essenza dell’uomo.

• È questo il fatto importante!

 

• Certo, il motto « Conosci te stesso » vale anche per l’uomo d’oggi,

• ma questa conoscenza di sé non lo porta più alla conoscenza del mondo.

 

• Quel che nell’antica disposizione dell’anima l’uomo riconosceva in sé come collegato con l’essenza del mondo, quel che egli non poteva trovare nel mondo esterno, ma che doveva appunto cercare come autoconoscenza per poi possederlo come conoscenza del mondo, quell’intimo nucleo essenziale umano che egli poteva portare nel mondo esterno per diventare un Cristoforo, oggi l’uomo non lo trova più in sé, non vi è più.

• È importante che lo si tenga ben presente!

 

Con i vani concetti cosiddetti scientifici moderni la gente crede che l’uomo sia quello che sempre è stato: lo è un moderno francese, o un inglese o un tedesco, come lo era l’antico egizio. Ma questa è una vera sciocchezza, per una conoscenza reale.

Infatti se l’antico egizio penetrava nel profondo di se stesso, secondo le regole dell’iniziazione, egli vi trovava qualcosa che l’uomo d’oggi non può trovarvi, perché è scomparso, perché non vi è più.

All’uomo è andato perduto qualcosa che egli poteva trovare ancora nei tempi precristiani, e in parte anche là dove nei primi tempi cristiani sopravviveva l’atteggiamento spirituale greco.

Questo è dunque scomparso dalla natura umana; l’organizzazione umana è oggi differente da quella che era nei tempi antichi.

 

La cosa si può esprimere anche diversamente: nei tempi antichi, se l’uomo penetrava a fondo in se stesso, trovava certo il proprio io, anche se oscuramente senza poterlo afferrare in chiari concetti.

Ciò non contraddice l’affermazione che in un certo senso l’io ebbe origine solo col cristianesimo.

Anche se oscuramente, e non in concetti pienamente coscienti, l‘uomo trovava dunque il suo io.

• Come coscienza attiva l’io nacque solo col cristianesimo, ma l’uomo poteva trovarlo anche prima.

 

Infatti nell’uomo antico, dopo la nascita, permaneva qualcosa del vero, del reale io umano.

All’obiezione: ma come, l’uomo d’oggi non può dunque trovare il proprio io?,

bisogna proprio rispondere: no, non può trovarlo.

 

• Il vero io subisce per così dire un arresto quando si nasce.

• Quello che noi sperimentiamo come nostro io, ne è soltanto un’immagine riflessa dell’io prenatale.

In effetti si sperimenta solo un riflesso dell’io, e soltanto in modo del tutto indiretto noi sperimentiamo qualcosa dell’io reale.

 

Quello di cui trattano gli psicologi è solo un riflesso, un’immagine speculare che sta all’io vero come la nostra immagine nello specchio sta a noi stessi.

L’io reale, che poteva essere trovato nell’epoca dell’antica chiaroveggenza atavica e fino ai primi tempi cristiani, oggi non si trova nell’uomo che osserva la propria entità, in quanto essa è connessa col corpo.

 

• L’uomo sperimenta qualcosa del proprio io solo indirettamente,

• quando entra in relazione con altri uomini e il karma va compiendosi.

 

Quando veniamo a trovarci di fronte a un altro essere umano e si svolge fra lui e noi qualcosa che fa parte del nostro karma, allora penetra in noi parte dell’impulso proveniente dal vero io.

È invece solo un’immagine riflessa quello che di solito chiamiamo il nostro io.

 

Nel nostro quinto periodo di civiltà postatlantico l’uomo si prepara a sperimentare l’io, sotto un aspetto diverso, nel prossimo sesto periodo,

• proprio grazie alla sua attuale esperienza dell’io come mera figura riflessa.

Sperimentare l’io come immagine riflessa è proprio la caratteristica del tempo dell’anima cosciente,

• e serve da preparazione al periodo del sé spirituale, quando l’io verrà sperimentato in modo ancora diverso.

• Solo che lo si sperimenterà diversamente da come lo si vorrebbe oggi!

 

Oggi l’uomo vorrebbe definire il proprio io (che egli sperimenta solo come immagine) in ogni altro modo che non quello in cui esso gli si presenterà nel futuro sesto periodo postatlantico.

In avvenire gli uomini saranno meno inclini a certe infatuazioni mistiche che oggi ancora avvengono, e per le quali credono di trovare il proprio io immergendosi voluttuosamente nella propria interiorità, e giungendo fino a chiamarlo « il divino io ».

Dovranno invece abituarsi a scorgere l’io solo nel mondo esterno.

 

Si verificherà il fatto singolare che ogni altra persona in cui ci imbattiamo e che abbia qualcosa a che fare con noi, avrà col nostro io un rapporto più stretto di ciò che si trova rinchiuso nella nostra pelle.

 

In tal modo l’uomo procede verso un’epoca di socialità, per cui in avvenire potrà dire a se stesso:

• il mio io si trova in tutti quelli che incontro, assai più che qua dentro.

 

• In quanto vivo tra nascita e morte come uomo fisico, io ricevo il mio io da ogni parte, ma non da ciò che si trova racchiuso entro la mia pelle.

 

Questa condizione (che deve apparirci tanto paradossale) va preparandosi oggi indirettamente, se si impara a sentire quanto poco noi ci troviamo davvero entro quell’immagine riflessa che chiamiamo il nostro io.

 

Ho menzionato giorni fa come si possa pervenire alla verità, esaminando obiettivamente la propria biografia e chiedendosi di che cosa si sia debitori a questa o a quella persona nel corso della propria vita.

Si finirà per dissolversi negli influssi provenienti dagli altri, e si troverà ben poco in ciò che si dovrebbe considerare come il proprio io (il quale, come si è detto, non è che un’immagine riflessa).

Ci si potrebbe esprimere paradossalmente dicendo che nei tempi in cui si svolse il mistero del Golgota, l’uomo venne per così dire svuotato al suo interno, divenne una cavità.

 

• È importante imparare a conoscere l’impulso del mistero del Golgota, considerandolo nel suo rapporto col diventare « cavo » dell’uomo.

 

Se si parla della realtà, occorre rendersi conto che in qualche modo ha da essere occupato il posto  che prima l’uomo poteva ancora trovare, mettiamo nei misteri egizio-caldaici.

Quel posto veniva allora ancora in parte occupato dall’io reale che oggi invece si arresta quando l’uomo nasce o almeno nei primissimi anni dell’infanzia, quando se ne ha ancora un barlume.

Quel posto venne occupato dall’impulso di Cristo.

 

 

 

Gli uomini di prima del mistero del Golgota avevano in sé qualcosa che come ho detto poteva essere trovato grazie all’iniziazione (rosso nel disegno).

Dopo il mistero del Golgota, gli uomini non lo avevano più in sé (blu), ne erano per così dire svuotati: il posto vuoto viene preso dall’impulso del Cristo che si immerge negli uomini (lilla).

 

L’impulso-Cristo non va dunque considerato solo come una dottrina, come una teoria, bensì come qualcosa di reale.

Solo chi comprende veramente la possibilità di tale immersione, nel senso dell’iniziazione antica, comprende il significato del mistero del Golgota in modo conforme alla sua intima verità.

Oggi infatti l’uomo non potrebbe diventare, così senz’altro, un « Cristoforo », nel senso dell’antica iniziazione regale egizia.

Lo diventa però senz’altro, in quanto il Cristo si immerge in quella specie di vuoto che vi è in lui.

 

Il grande significato del mistero del Cristo si mostra dunque nella perdita di significato degli antichi princìpi misteriosofici, dei quali ho detto (anche nel mio libro II cristianesimo come fatto mistico) che quanto in passato veniva vissuto nelle profondità dei misteri, e che faceva dell’uomo un « Cristoforo», è stato ormai collocato sul vasto piano della storia universale e si compie come un fatto esteriore. Questo è appunto il « fatto ».

Se ne potrà però dedurre anche che da quei tempi antichi il principio stesso dell’iniziazione ha dovuto subire una trasformazione, perché oggi non è più possibile trovare ciò che gli antichi misteri si proponevano di cercare nell’uomo.

 

La scienza moderna non ha di che andare tanto fiera, se considera l’uomo d’oggi, di qualunque paese sia, alla pari dell’egizio antico, ammesso che sia in grado di conoscerlo.

Dell’uomo essa non prende neppure in considerazione ciò che in lui è essenziale.

Dopo tutto, perfino l’aspetto esteriore si è modificato un poco da quei tempi antichi, ma ciò che è essenziale va descritto come l’abbiamo fatto oggi.

Da tale descrizione risulta però anche la necessità che si modifichi il principio dell’iniziazione.

 

Che cosa dovrebbe cercare l’uomo odierno, se volesse solo seguire all’antica maniera l’antica massima « Conosci te stesso »?

che cosa conseguirebbe, se conoscesse e applicasse a se stesso tutte le descrizioni dei riti e delle procedure dei misteri antichi?

Egli non troverebbe più quello che si trovava in seno ai misteri egizi.

 

Quel che si diventava al quarto grado, egli oggi potrebbe compierlo inconsciamente, ma non potrebbe comprenderlo.

Anche se percorresse tutte le vie e partecipasse a tutte le cerimonie che nel passato conducevano fino al « Cristoforo », egli non potrebbe in questo modo mettersi di fronte al Cristo con comprensione.

Invece l’uomo antico, se iniziato, lo poteva: diventava realmente un « Cristoforo ».

 

Nel corso dell’evoluzione terrestre è in realtà accaduto che l’uomo abbia perduto la possibilità di ricercare in se stesso

l’entità che poi divenne la luce del mondo.

 

Se cercasse nello stesso modo, l’uomo d’oggi scoprirebbe in sé una cavità vuota.

Nel corso degli eventi non è però senza significato neppure la perdita di qualcosa: si diventa diversi da prima.

 

Estendendo ulteriormente l’immagine che ho proposto, adesso l’uomo porta con sé nel mondo quella specie di cavità interiore: cosa che a sua volta conferisce particolari facoltà.

Quanto è vero che certe capacità antiche sono andate perdute, altrettanto vero è pure che proprio per effetto di quella perdita ne sono state acquisite di nuove, ed esse possono essere sviluppate come all’antico modo lo potevano le facoltà antiche.

In altre parole, la via che si percorreva dalla « porta dell’uomo » fino alla « porta della morte » oggi si deve percorrere in modo differente.

Questo è connesso con quanto ho detto: gli Spiriti della personalità assumono un carattere nuovo; con questo è essenzialmente connessa la nuova iniziazione.

 

• In un certo senso nell’evoluzione dell’umanità avvenne una pausa per quanto concerne l’iniziazione.

Soprattutto nel secolo diciannovesimo l’uomo se ne era molto allontanato.

Soltanto verso la fine del secolo scorso si ripresentò di nuovo la possibilità di avvicinarsi alla vera iniziazione vivente.

Essa va preparandosi, ma si svolgerà in modo del tutto diverso da quella antica che ho oggi descritto in una determinata prospettiva, allo scopo di preparare una comprensione più approfondita del cristianesimo.

 

La ricerca di un quid di essenziale nel mondo esteriore, che in passato riusciva del tutto vana,

diventa possibile proprio per effetto di quella specie di svuotamento interiore.

 

Ciò si verificherà sempre più, e già oggi è possibile fino a un certo grado, mediante vie di conoscenza come quelle descritte nel mio libro L’iniziazione .

Oggi è possibile ottenere di penetrare più profondamente nel mondo esteriore con le stesse forze dell’anima, purché le si impieghi nel modo giusto con cui si osserva il mondo esterno.

 

La scienza non lo fa: si accontenta di giungere solo fino alle cosiddette leggi di natura che sono solo astrazioni. Se si prende conoscenza della letteratura corrente, dove ai concetti scientifici viene data una tinta filosofica, si può constatare che in genere chi parla di queste cose, sotto il mantello filosofico o sotto il cappelluccio filosofico non sa quali siano i rapporti fra le leggi naturali e la realtà. Si giunge sì fino alle leggi di natura, ma esse rimangono concetti astratti, idee astratte.

Una personalità come Goethe cercò di andare oltre le leggi naturali; l’aspetto notevole di Goethe e del goetheanismo, così poco compreso, è proprio lo sforzo di andare al di là delle leggi naturali, fino alla configurazione della natura, alle forme. Perciò egli creò proprio una morfologia in senso più alto, una morfologia spirituale.

Egli tentò di attenersi non a ciò che risulta ai sensi, bensì a ciò che va formandosi; a ciò che non risulta ai sensi, ma si nasconde nelle forme.

 

Oggi possiamo quindi veramente parlare di qualcosa di parallelo all’antica « porta dell’uomo », cioè di una « porta delle forme naturali ».

Un lontano precursore di questa visione è Jakob Bòhme; prendendo le mosse dalla caotica mistica medievale, egli parlò a modo suo, in un linguaggio ancora un po’ oscuro, delle sette forme della natura. Ma in Bòhme l’idea non è certo ancora molto chiara, né molto ampia.

L’iniziazione moderna dovrà però accostarsi sempre più alle forme che si evidenziano nelle forme sensibili esteriori, come qualcosa che va oltre ciò che è temporale-spaziale.

 

Ho spesso ricordato un colloquio fra Goethe e Schiller, svoltosi dopo una conferenza del naturalista Batsch. Schiller disse a Goethe che il Batsch aveva sviluppato un modo molto frammentario di considerare il mondo. Certo, non era frammentario come quello proposto dagli scienziati odierni, ma Schiller lo trovava molto arido. Goethe disse che si poteva certo considerare anche una diversa concezione della natura: disegnò con pochi tratti caratteristici la metamorfosi delle piante e la pianta primordiale. Schiller replicò di non riuscire a comprenderlo: disse che quella non era un’esperienza (intendeva una cosa che si trova nel mondo sensibile), ma un’idea; rimaneva cioè nell’astrazione. Goethe replicò: se questa è un’idea, per me va bene; vuol dire che vedo le mie idee con gli occhi!

Egli intendeva dire che quella non era un’idea che ci si forma solo interiormente; ciò che aveva disegnato esisteva per lui realmente, anche se non lo si può vedere con gli occhi, come i colori.

• Questa è vera forza plasmatrice: una forza soprasensibile presente negli oggetti sensibili.

Goethe non sviluppò certo molto a fondo questa sua intuizione.

 

In altra occasione dissi che la vera comprensione delle ripetute vite terrene rappresenta la diretta prosecuzione della goethiana metamorfosi delle piante e degli animali, da lui svolta solo in modo elementare.

Goethe considera il petalo colorato come una foglia trasformata, e l’osso piatto del cranio come una vertebra dorsale trasformata.

Era un inizio: se lo si porta avanti, secondo lo stesso modo di considerare le cose, si perviene fino alle forme, appunto fino alla « porta delle forme », cioè a una conoscenza immaginativa delle forme naturali.

Si giunge allora non solo a osservare le ossa del cranio, che sono vertebre trasformate, ma a prendere in considerazione l’intero cranio umano.

Si arriva a scoprire che l’intera testa dell’uomo è la figura umana trasformata della vita precedente, pensata però senza la testa.

 

Il resto del nostro corpo, prescindendo dalla testa, si trasferisce certo nella terra, per quanto concerne la sua parte materiale; ma le sue forme soprasensibili attraversano l’esistenza fra la morte e una nuova nascita, e diventano la testa nella nuova incarnazione.

Abbiamo cioè nell’uomo la metamorfosi nella sua massima manifestazione. Basta non dar retta alle apparenze.

 

Naturalmente si può obiettare: ma come, il corpo del defunto viene inumato o bruciato: come dunque potrebbe trasformarsi in testa?

Questa obiezione si fonda appunto sull’apparenza, nel senso moderno. Volendo attenersi a tale parvenza, ci si comporta come quelli che mettono in evidenza un certo passo di Shakespeare: là dove, per disperazione, Amleto dice che in un qualsiasi campione di polvere può essere presente la polvere terrestre di Giulio Cesare, e sono magari presenti in un cane qualsiasi gli atomi che un tempo erano presenti nel corpo di Cesare.

Ragionando in tal modo non si segue affatto la via che prende anche l’organismo fisico, sia che venga sotterrato, sia bruciato. Quella metamorfosi ha proprio luogo, è  proprio che soltanto il capo scompare veramente dalla Terra, in quanto si perde nell’universo; ciò che invece costituisce il corpo nell’incarnazione attuale (eccettuata la testa) si trasforma, e lo si ritrova come testa nell’incarnazione successiva: è ineluttabile.

 

Ma non occorre affatto pensare alla  m a t e r i a ; neppure ora siamo costituiti dalla stessa materia di cui eravamo formati sette anni fa.

 Bisogna pensare alla  f o r m a che va incontro a una metamorfosi, alla forma mutata.

Questo rappresenta un primo gradino, come lo era per gli antichi la « porta dell’uomo »: è la « porta delle forme ».

Se poi si è afferrata vivamente la porta delle forme, si può passare per la « porta della vita »: qui non si tratta più di forme, ma di gradazioni di vita, di elementi di vita.

Questo corrisponderebbe oggi al secondo grado di quell’antica iniziazione regale egizia di cui ho parlato prima.

 

Il terzo equivale all’antico ingresso nella « porta della morte », ed è l’iniziazione ai diversi tipi di  coscienza.

Fra la nascita e la morte l’uomo conosce infatti solo un tipo di coscienza, ma esso non è che uno fra sette.

Con questi diversi tipi di coscienza bisogna comunque fare i conti, se si vuole davvero comprendere il mondo.

 

Si tenga presente che nel mio libro La scienza occulta delineai la successione di quelle tre condizioni: le riferivo all’evoluzione universale. Vi si trovano le diverse forme di coscienza chiamate Saturno, Sole, Luna, Terra e così via, appunto le sette forme di coscienza. In ognuno di quei gradini (uno dei quali è la Terra) l’uomo passa per uno dei tipi di coscienza; egli passa per sette diversi gradini di coscienza, e su ognuno di essi (quindi su Saturno, Sole, ecc.) passa per sette gradini di vita, e in ognuno di questi ultimi per sette gradini di forma.

 

Sono forme anche i sette periodi di civiltà che descriviamo come il paleo-indiano, il paleo-persiano, l’egizio-caldaico, il greco-romano, il nostro attuale, e così via.

A questo livello viviamo nella « porta delle forme »: il parlare di quei periodi (o forme) di civiltà equivale alla « porta dell’uomo »,

e dal mondo delle forme possiamo formarci rappresentazioni su quelle successive civiltà.

A ogni gradino di vita se ne hanno sette; quando parliamo di gradini di vita si tratta delle sette epoche, una delle quali è ad esempio la nostra post-atlantica che si suddivide nei sette periodi di civiltà (il paleo-indiano, il paleo-persiano, e così via).

Adesso ci troviamo al quinto gradino di vita, che è seguito a quello atlantico, a quello lemurico, e così via.

 

Questi sette gradini di vita esistono affinché noi possiamo raggiungere lo stato di coscienza che abbiamo oggi.

Esso però ebbe origine dall’antica coscienza lunare,e questa a sua volta dalla coscienza dell’antico Sole.

Da ognuna di queste incarnazioni planetarie l’uomo ricava una di quelle forme di coscienza; la più perfetta la conseguirà nell’evoluzione chiamata Vulcano.

Si è visto così come attraverso i tre successivi segreti dei gradi l’uomo possa acquistare uno sguardo d’insieme sull’universo.

Da questa conoscenza del mondo egli può poi a sua volta acquistare conoscenza dell’essere umano; e da quest’ultima nasce la possibilità di comprendere il mistero del Golgota.

 

Oggi abbiamo accennato solo ad alcuni elementi utili a questa comprensione. Abbiamo almeno potuto comprendere perché ad esempio il mistero del Golgota cada nel quarto periodo (o forma) di civiltà post-atlantico della quinta epoca (o periodo di vita), e perché esso si compì sulla Terra. Nel ciclo di conferenze tenuto un anno fa a Lipsia esposi in che modo il mistero del Golgota si andò preparando qui sulla Terra.

Ma tutto ciò che è necessario per la comprensione del mistero del Golgota risulta dai princìpi della nuova iniziazione.

 

• L’antica iniziazione procedeva essenzialmente dalla conoscenza dell’uomo a quella del mondo,

• mentre la nuova iniziazione ritorna alla conoscenza dell’uomo partendo da quella del mondo.

 

Così stanno le cose, caratterizzate dal punto di vista dell’iniziazione: questo è uno degli aspetti, ma dall’altro lato se ne mostra l’immagine riflessa.

 

• Per conquistare quella conoscenza del mondo, occorre prima prendere le mosse da una nuova conoscenza dell’uomo.

 

Ne parlai pochi giorni fa; e bisogna parlarne in modo del tutto diverso se ci si riferisce al tempo antico o ai tempi nuovi.

• Nell’antichità si perveniva mediante la conoscenza dell’uomo al risultato di una conoscenza del mondo.

Teoricamente si potrebbe dire che l’uomo passava per un certo processo vitale, compiuto il quale ne risultava una conoscenza del mondo; per effetto di ciò l’uomo poteva procedere nella sua coscienza dalla conoscenza del mondo e poi trarne conclusioni riferite all’uomo stesso.

• Se oggi si prendono le mosse dalla conoscenza del mondo, passando per forma, vita e coscienza, come è esposto nella mia Scienza occulta, si perviene essenzialmente alla conoscenza dell’uomo.

In fondo, scompaiono tutti gli altri aspetti della conoscenza della natura, e si apre la comprensione dell’essere umano.

 

• È anche solo grazie all’acquisizione della conoscenza del mondo che come ho detto diventa comprensibile l’uomo, inteso come entità a triplice struttura: quella dei nervi e dei sensi, quella ritmica e quella del ricambio.

Partendo poi dall’uomo si può nuovamente trapassare alla conoscenza del mondo.

Queste non sono contraddizioni: realtà come quelle descritte si trovano ad ogni passo, se si vuol penetrare nel mondo della verità. Se si è in cerca di una dogmatica, queste « contraddizioni » non possono servire perché sono scomode. Se proprio la si cerca, la si potrà trovare da diverse parti, ma essa non offrirà mai comprensione della realtà, bensì solo qualcosa su cui giurare, se proprio lo si vuole.

 

Se invece si vuol conoscere la realtà, bisogna rendersi conto che essa deve venire descritta in diverse prospettive.

Secondo il criterio della vita, l’uomo antico doveva procedere dal mondo all’uomo, l’uomo moderno dall’uomo al mondo.

Per la conoscenza invece l’uomo antico andava dall’uomo al mondo, quello moderno dal mondo verso l’uomo, e ciò è necessario.

Questo risulta certo assai scomodo per l’uomo moderno, ma oggi ogni cosa deve affermarsi al prezzo del passaggio attraverso un’« oscillazione », attraverso l’insicurezza cui abbiamo accennato.

 

Ricordiamoci che nel secondo grado della iniziazione regale egizia l’iniziando veniva a trovarsi in un’oscillazione, in una rotazione. Se oggi qualcuno, attraverso il gradino delle forme, aspira seriamente a penetrare in quello della vita, deve essere disposto a un’esperienza nella quale si dica: per quanto belli possano essere i concetti che mi offre questa o quella confessione religiosa, io non perverrò mai alla realtà, se non sarò capace di mettermi dinanzi anche il concetto opposto.

 

Ho già messo in evidenza che il mistero del Golgota stesso ci costringe a pensare due concetti opposti.

• Da un lato dobbiamo pensare che fu certo una cattiva azione il mettere a morte il Dio incarnato in un uomo.

• D’altra parte, quell’azione fu certissimamente il punto di partenza del cristianesimo; se infatti quell’assassinio non si fosse compiuto sul Golgota, il cristianesimo non esisterebbe nella sua realtà.

Questo paradosso, riferito a un evento soprasensibile, può essere un ottimo esempio per altri paradossi ai quali occorre abituarsi, se si vuol giungere a comprendere veramente il mondo soprasensibile: altrimenti non vi si può affatto penetrare.

 

In passato era necessaria la paura, oggi occorre travalicare l’abisso che appare come il trovarsi nell’universo senza un centro di gravità.

Bisogna proprio attraversare tali esperienze, per non giurare più sui concetti, ma affinché i concetti siano visti come qualcosa che illumina le realtà da diverse parti, come si può fotografare un albero da diversi lati.

 

Il dogmatico (sia quello scientifico, sia quello teologico) crede di afferrare con certi dogmi l’intera realtà. Chi sta nella realtà sa che ogni asserzione di quel tipo è paragonabile alla fotografia di un solo lato di qualsiasi oggetto: essa rende un solo aspetto della realtà.

Per avvicinarsi alla realtà occorre però almeno conoscere l’aspetto del lato opposto e integrare i due aspetti in tal modo rilevati.