Il senso dell’Io

O.O. 293 – Arte dell’educazione I° – Antropologia – 29.08.1919


 

Oggi si ha la tendenza a confondere tutte le cose.

Quando uno pensa alla rappresentazione dell’io, pensa anzitutto alla propria entità anemica, e in generale se ne accontenta. Qualcosa di simile fanno anche gli psicologi: non pensano affatto che siano due cose ben diverse che io raccolga insieme tutto ciò che sperimento in me stesso e alla fine indichi come «io» tale insieme, oppure che io avvicini un altro uomo e, per il modo col quale mi metto con lui in rapporto, indichi anche quell’uomo come un «io». Sono due attività animico-spirituali del tutto diverse.

 

Nel primo caso, se raduno le mie attività di vita nella sintesi «io» che le congloba, ho davanti a me qualcosa di esclusivamente interiore; nel secondo caso, quando avvicino un altro uomo e, mediante il mio rapporto con lui, porto ad espressione che anch’egli è alcunché di simile al mio «io», ho davanti a me un’attività che entra in un giuoco scambievole fra me e l’altro. Perciò devo dire: la percezione del mio io nella mia interiorità è qualcosa di diverso dal riconoscimento di un’altra persona come un io. La percezione di un altro io proviene dal senso dell’io, come la percezione del colore dal senso della vista, del suono dal senso dell’udito.

 

Per il senso dell’io, la natura non ci ha messo dinanzi l’organo della percezione in modo altrettanto palese che per la vista. L’occhio che percepisce i colori è visibile esternamente, nella testa dell’uomo; invece l’organo per la percezione dell’io altrui è esteso a tutta la persona, e consiste di una sostanzialità finissima; perciò gli uomini non sanno di avere un organo per la percezione dell’io altrui. Tale organo non ha nulla a che vedere con ciò che fa sì che ciascuno sperimenti il proprio io. Vi è un’immensa differenza tra sperimentare il proprio io e percepire l’io in un altro, poiché quest’ultima percezione è essenzialmente un processo conoscitivo (o almeno simile alla conoscenza), mentre l’esperienza del proprio io è un processo volitivo.

 

In che cosa consiste, in realtà, la percezione dell’io di un’altra persona?

I pensatori astratti di oggi dicono in proposito delle cose assai strane. Essi affermano: in realtà dell’uomo esteriore si vede la forma, si odono i suoni; ora, sapendo che noi stessi abbiamo lo stesso aspetto dell’altro e che dentro di noi abbiamo un essere che pensa, sente e vuole, sappiamo di essere un uomo animico-spirituale. Sicché per analogia si conclude: come in me c’è un essere pensante, senziente e volente, così vi è pure nell’altra persona. Si arriva a una conclusione per analogia fra me e l’altro, ma è un’assurdità.

 

Il reciproco rapporto tra un uomo e l’altro racchiude in sé tutt’altra cosa.

• Ciò che avviene, quando stiamo di fronte a un altro, è il processo seguente:

percepiamo per brevi momenti quella persona, ed essa fa su di noi un’impressione.

• Quell’impressione ci disturba nella nostra interiorità;

sentiamo che quella persona, che in fondo è un essere uguale a noi,

fa su di noi un’impressione che è come un attacco.

 

Per conseguenza, interiormente, ci «difendiamo», ci opponiamo all’attacco,

diventiamo interiormente aggressivi contro di esso.

• Poi questa nostra aggressività si paralizza, cessa; quindi l’altro può nuovamente fare un’impressione su di noi.

• Così abbiamo il tempo di aumentare di nuovo la nostra forza aggressiva e compiamo un’altra aggressione.

• Indi nuovamente questa viene meno, l’altro fa una nuova impressione su di noi, e così via di seguito.

 

Questo è il rapporto che si stabilisce quando una persona sta di fronte a un’altra percependone l’io:

– dedizione all’altra persona – difesa interiore

– dedizione all’altro – difesa interiore

– simpatia – antipatia – simpatia – antipatia.

 

Non parlo ora della vita del sentimento, ma dello starsi di fronte per mezzo della percezione. Qui l’anima vibra in un alternarsi di simpatia e antipatia, simpatia e antipatia. (Potete riscontrarlo nella nuova edizione della Filosofia della libertà).

 

Ma un’altra cosa avviene:

mentre si sviluppa la simpatia, voi vi addormentate, per così dire, nell’altra persona;

quando si sviluppa l’antipatia vi risvegliate di nuovo, ecc. è un alternarsi continuo

di veglia e sonno di brevissima durata, che si svolge in vibrazioni,

ogni volta che stiamo di fronte a un’altra persona; e lo dobbiamo all’esistenza del senso dell’io.

 

Questo è organizzato in modo da investigare l’io dell’altro

non già nella volontà sveglia, ma in una volontà dormiente,

poi con tutta rapidità fa trapassare nella conoscenza

l’informazione ottenuta in quello stato dormiente, cioè la comunica al sistema nervoso.

 

Sicché, se si guarda bene il fenomeno,

la cosa principale nella percezione dell’altra persona è proprio la volontà,

ma quella volontà che si sviluppa dormendo;

perché intessiamo continuamente attimi di sonno nell’atto di percezione dell’io altrui.

 

E ciò che sta in mezzo tra i diversi momenti

in cui dormendo si compie la percezione dell’io di un altro, è già conoscenza,

perché l’atto percettivo viene rapidamente respinto nella regione dove domina il sistema nervoso.

 

Posso dunque realmente designare la percezione dell’altro come un processo conoscitivo, ma devo sapere che tale processo conoscitivo è soltanto una metamorfosi di un processo volitivo dormiente. Anche questo processo sensorio è dunque un processo volitivo, ma noi non lo riconosciamo come tale, non viviamo coscientemente tutta la conoscenza che sperimentiamo nel sonno.