Jahvè è il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe

O.O. 123 – Il Vangelo di Matteo – 04.09.1910


 

Per il popolo ebraico antico esisteva solo la possibilità di sperimentare il divino entro lo spirito del popolo,

in quanto il singolo si sentiva un membro del popolo tutto, più che un’individualità singola.

 

In quanto si sentiva nel suo sangue come un anello della serie delle generazioni,

egli sentiva vivere la coscienza del Dio, la coscienza di Jahvé entro la coscienza di appartenere a quel popolo.

 

Volendo dunque esprimersi adeguatamente, secondo la scienza dello spirito,

non si dovrebbe definire Jahvé come il Dio di Abramo. Sarebbe una definizione imprecisa.

 

Bisogna dire invece: egli è il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe;

è l’entità che trapassa dall’una all’altra generazione

e si manifesta attraverso gli individui singoli come coscienza di appartenere a quel dato popolo.

 

In questo consiste la differenza e il grande progresso

fra la conoscenza esplicata da Abramo, da Isacco e da Giacobbe

e la conoscenza cristiana: questa afferra entro la singola individualità umana

quello a cui la conoscenza ebraica antica poteva giungere soltanto

immergendosi nello spirito del popolo, in quello spirito che si perpetuava attraverso il sangue delle generazioni.

 

Abramo poteva dire: mi è stato promesso di essere il fondatore di un popolo

che si propagherà attraverso le generazioni successive,

e nel suo sangue vivrà il Dio che noi riconosciamo come l’ente supremo:

egli si manifesterà a voi nella coscienza del nostro popolo.

 

Questa condizione divenne normale per i suoi discendenti.