La civiltà paleo-indiana degli antichi santi Risci – II

O.O. 103 – Il Vangelo di Giovanni – 29.05.1908


 

Abbiamo accennato a come, dopo il diluvio atlantico, si sia svolto un primo grande periodo di civiltà, quello paleo-indiano, caratterizzato, come abbiamo detto, dal ricordo e dalla nostalgia che dominavano gli animi umani. Abbiamo caratterizzato in che cosa consistettero quel ricordo e quella nostalgia. Erano rimaste vive le tradizioni d’un’età precedente il diluvio atlantico, nella quale l’uomo aveva posseduto ancora per sua natura una specie di chiaroveggenza crepuscolare: grazie a questa, egli era in grado di avere un’esperienza diretta del mondo spirituale, come l’umanità odierna conosce i regni della natura fisica.

 

Abbiamo pure veduto che in quell’età precedente il diluvio atlantico non c’era ancora una così netta separazione fra lo stato di coscienza diurno dell’uomo e quello notturno di sonno. A quei tempi, quando l’uomo la sera era caduto nel sonno, le sue esperienze interiori non erano così oscure e incoscienti come oggi; infatti mentre si spegnevano per lui le immagini della vita diurna, si accendevano quelle della vita spirituale.

Quando poi al mattino rientrava nel suo corpo fisico, gli si ottenebravano le esperienze e le verità del mondo divino-spirituale, ed emergevano intorno a lui le immagini della realtà odierna, quelle del regno minerale, del vegetale, dell’animale, ecc.

 

Solo dopo il diluvio atlantico, nella nostra età postatlantica, si stabilì la demarcazione precisa fra l’incoscienza notturna e lo stato diurno di veglia. Allora l’uomo si trovò per così dire tagliato fuori (per quanto riguarda la percezione immediata) dalla realtà spirituale e sempre più esposto alla realtà puramente fisica. Era rimasto solo il ricordo d’un altro regno, d’un regno di entità e processi spirituali: e a quel ricordo era seguita la nostalgia delle anime di ritrovare l’accesso, grazie a qualche stato di coscienza eccezionale, ai regni dai quali l’umanità era discesa.

Quegli stati di coscienza eccezionali furono conferiti solo a pochi eletti, gli iniziati, ai quali venivano dischiusi i sensi interiori nelle di dei misteri, in modo che potevano percepire il mondo spirituale. Essi potevano rendere noto e testimoniare agli altri (che non erano in grado di percepire essi stessi) che i mondi spirituali erano realtà.

 

Lo yoga era, nell’antichissima civiltà paleo-indiana, il processo mediante il quale l’uomo si riportava nell’antico stato di chiaroveggenza crepuscolare. Quando poi singole nature d’eccezione erano state iniziate, esse divenivano così le guide dell’umanità, i testimoni del mondo spirituale.

Sotto l’influsso di quei ricordi e di quella nostalgia, in seno alla civiltà paleo-indiana pre-vedica andò appunto formandosi lo stato che scorgeva nella realtà esteriore solo maya, cioè illusione. Ci si diceva: la vera realtà sta proprio solo nel mondo spirituale, nel quale possiamo ritornare solo grazie a uno stato eccezionale, allo yoga. Quel mondo di esseri e processi spirituali è reale. Ma tutto quanto l’uomo vede con gli occhi è irreale, è illusione, è maya.

Questo fu il primo stato d’animo religioso fondamentale nell’epoca postatlantica, e lo yoga fu la prima forma d’iniziazione in quest’epoca. Non v’era ancora nulla, in quella civiltà, che suonasse comprensione per la missione dell’età postatlantica, poiché non era certo missione dell’umanità il considerare come illusione, come maya, la realtà che noi chiamiamo sensibile, il fuggirla e l’estraniarsene.

 

Ben diversa era la missione dell’età postatlantica: cioè quella di conquistare sempre più la realtà fisica, di impadronirsi del mondo dei fenomeni fisici. È tuttavia anche ben comprensibile che l’umanità, quando venne per la prima volta a trovarsi sul piano fisico, considerasse a tutta prima come maya o illusione ciò che nel passato non affiorava quasi neppure entro la realtà spirituale, e che soltanto ora essa poteva percepire.

Ma questo atteggiamento nei riguardi della realtà non doveva perdurare; questa concezione della realtà fisica come illusione non poteva restare il nucleo vitale dell’epoca postatlantica. Abbiamo potuto seguire come, a pezzo a pezzo, l’umanità postatlantica si sia andata conquistando il suo connesso con la realtà fisica.

 

Nella civiltà che noi chiamiamo paleo-persiana (e della quale la civiltà persiana o zaratustrica di cui parla la storia non è che l’ultima eco), in questo secondo periodo di civiltà, gli uomini compirono il primo passo per superare l’antico principio indiano, alla conquista della realtà fisica. Non che esista già un’amorevole immersione entro la realtà fisica, e neppure qualcosa che assomigli a uno studio del mondo fisico: però c’è già, in quella direzione, qualcosa di più che durante la civiltà paleo-indiana.

Persino ciò che di questa antichissima civiltà si trasmise ai tempi più recenti ci mostra ancora gli echi di quell’atteggiamento, che considerava la realtà fisica come illusione.

 

Perciò la nostra civiltà odierna non avrebbe mai potuto svilupparsi da quella indiana. In seno a quest’ultima, ogni saggezza distoglieva lo sguardo dal mondo fisico per innalzarlo ai mondi spirituali ch’erano ancora presenti nel ricordo, e lo studio e l’elaborazione della realtà fisica apparivano privi di valore.

Ecco perché il vero principio indiano non potè mai produrre una scienza utile al nostro mondo terreno: mai esso avrebbe potuto condurre a quel dominio sulle leggi naturali che costituisce la base della nostra civiltà. Tutto questo non avrebbe mai potuto scaturire dall’antica civiltà indiana: perché, infatti, indagare le forze d’un mondo fondato solo sull’illusione? Se più tardi anche nella stessa civiltà indiana le cose mutarono, questo derivò da influssi stranieri posteriori e non da quella civiltà stessa.