La comprensione dei Vangeli

O.O. 139 – Il Vangelo di Marco – 23.09.1912


 

In nessun altro vangelo, forse, quanto in quello di Marco ci viene indicato

che per comprendere l’impulso cosmico irraggiante luce nell’esistenza terrestre

sarà necessaria in sostanza tutta la rimanente evoluzione della Terra:

poiché quella comprensione non era affatto possibile nell’epoca stessa in cui si compì il mistero del Golgota.

 

Il fatto di tale comprensione impossibile allora, risulta appunto dalla mirabile composizione artistica del vangelo di Marco: il fatto che allora la comprensione per quel mistero ricevette solo un primo impulso, e che solo a poco a poco esso potrà svilupparsi, nel corso ulteriore dell’evoluzione. Potremo sentire la finezza artistica della composizione dei testi evangelici, se ci chiederemo quale forma potesse assumere a quel tempo la comprensione del mistero del Golgota.

 

In sostanza erano possibili allora tre modi di comprenderlo;

la sua comprensione poteva scaturire da tre diversi ambienti.

 

• In primo luogo da coloro che furono i discepoli più vicini al Cristo Gesù, gli eletti: incontriamo ad ogni passo nei Vangeli coloro che il Signore stesso aveva scelti, e ai quali comunicò molto di ciò che può contribuire a una più alta comprensione dell’esistenza. Possiamo quindi attenderci da loro la massima comprensione del mistero del Golgota. E quale comprensione? La risposta a questa domanda si trova accennata delicatamente nella composizione del vangelo di Marco, verso la fine. Purché si vada alla ricerca dei punti più significativi in proposito, si trova accennato ben chiaramente che i discepoli eletti erano in grado di sviluppare una comprensione maggiore di quella dei capi del popolo ebraico.

 

Ecco per esempio il colloquio fra il Cristo Gesù e i sadducei (12,18-27), nel quale si tratta soprattutto dell’immortalità dell’anima. Se si prende il Vangelo superficialmente, non è facile scoprire perché proprio in quel punto si trovi il colloquio sull’immortalità dell’anima. I sadducei ragionano in modo strano, dicendo: potrebbe avvenire che uno di sette fratelli avesse preso moglie. Egli però muore, e la stessa donna sposa il secondo fratello; dopo la morte anche di questo, essa sposa il terzo, e poi via via anche gli altri, perché essa muore solo dopo la morte del settimo fratello.

 

Ora i sadducei non riuscivano a capire, dato che esiste l’immortalità, come avrebbero dovuto comportarsi nella vita spirituale quei sette uomini, nei confronti di quell’unica donna. Questa ben nota obiezione dei sadducei contro l’immortalità non è esclusiva di quell’epoca, e la si ritrova in realtà, anche in certi libri moderni, a dimostrazione del fatto che nell’ambiente di chi scrive libri del genere non si è ancora giunti a comprendere giustamente quel passo del Vangelo. Ma perché si è svolto quel colloquio?

 

Proprio dalla risposta data dal Cristo Gesù risulta che dopo la morte le anime divengono celesti, e che fra gli esseri del mondo ultraterreno non ci si sposa; quindi, anche se si verificasse il caso esposto dai sadducei, la cosa non presenterebbe nessun problema. I sadducei infatti indicavano una condizione solo terrena che non ha alcun senso per il mondo immateriale. In altre parole: il Cristo Gesù parla di condizioni ultraterrene di cui si deve tener conto se si parla della vita dopo la morte.

 

Verso la fine del vangelo di Marco si trova poi un altro colloquio, durante il quale il Cristo Gesù viene interrogato sul matrimonio (10,1-12). I dottori della legge gli ricordano che secondo la legge di Mosè è possibile ripudiare la moglie con una lettera di ripudio. Che cosa intende dire il Cristo Gesù quando risponde: «Mosè vi ha dato questo precetto a causa della durezza dei vostri cuori», ed è perciò che avete bisogno di una tale istituzione. Il fatto è che ora egli parla del tutto in modo completamente diverso.

 

Egli menziona ora il rapporto fra uomo e donna, quale si presentava prima che l’evoluzione umana fosse stata segnata dalla tentazione da parte delle potenze luciferiche. Egli parla cioè di qualcosa di cosmico, portando il discorso sopra un piano ultraterreno.

 

L’aspetto che conta è che il Cristo Gesù porta ogni discorso oltre la sfera del sensibile, al di là delle condizioni esistenti nel sensibile, al di là dell’ordinaria evoluzione della Terra. L’essenziale che occorre rilevare è che in tal modo egli mostra di aver portato sulla Terra, con la sua presenza, condizioni cosmiche, ultraterrene, e di queste parla agli uomini.

 

Da chi si potrebbe dunque sperare, o addirittura esigere che le parole del Cristo Gesù sulle condizioni cosmiche vengano meglio comprese? Da coloro che per primi egli ha eletto suoi discepoli. La prima forma di comprensione si potrebbe dunque caratterizzare così: i discepoli scelti dal Cristo Gesù avrebbero potuto comprendere il mistero del Golgota in quanto erano in grado di afferrare l’aspetto ultraterreno, l’aspetto cosmico di quell’evento storico. Questo si sarebbe potuto attendere dai discepoli da lui stesso eletti.

 

• Un secondo tipo di comprensione si sarebbe potuto aspettare dai capi del popolo ebraico antico, dai grandi sacerdoti, dai giudici supremi, dai conoscitori della Scrittura e della storia del popolo del Vecchio Testamento. Che cosa si sarebbe potuto pretendere da costoro? Il Vangelo lo mostra chiaramente: non la comprensione delle connessioni cosmiche del Cristo Gesù, ma quella dei legami della sua individualità col popolo ebraico antico, del fatto che era venuto a nascere nel sangue della casa di Davide, dei suoi stretti legami con quanto era penetrato con Davide nella storia del suo popolo. In tal modo il Vangelo accenna a una seconda forma di comprensione, di grado inferiore alla prima.

 

Verso la sua fine il vangelo di Marco indica in modo mirabile che il Cristo Gesù ha una missione che segna il culmine della missione di tutto il popolo ebraico; infatti il vangelo ci presenta sempre più chiaramente il Cristo Gesù come figlio di Davide (e lo fa con straordinaria finezza di composizione artistica).

 

• Mentre quindi dai discepoli si esige comprensione per la missione dell’eroe cosmico,

dai rappresentanti del popolo ebraico si esige che comprendano

che è giunta alla sua conclusione la missione della casa di Davide.

• Questa è dunque la seconda comprensione:

il popolo ebraico avrebbe dovuto comprendere di essere giunto ad una conclusione

e al tempo stesso a un nuovo rilancio della propria missione.

 

E da che parte avrebbe dovuto venire la terza forma di comprensione, a sua volta di grado ancora inferiore? È veramente singolare il modo sottilmente artistico con cui il vangelo di Marco risponde a tale domanda. Questa comprensione di grado meno elevato viene richiesta ai Romani.

 

Verso la fine del vangelo di Marco (ed è solo a questo che qui mi riferisco), quando i sommi sacerdoti consegnano il Cristo Gesù ai Romani, si legge quanto segue: i sacerdoti chiedono a Gesù se egli intenda dichiararsi il Cristo (cosa di cui si sarebbero scandalizzati, perché allora egli avrebbe parlato della sua missione cosmica), oppure se egli intendesse parlare di sé in quanto rampollo dalla casa di Davide. Pilato invece, di che cosa si scandalizza? Solo del fatto che Gesù si sarebbe spacciato per il «re dei Giudei» (15,1-15).

 

Gli Ebrei avrebbero dovuto capire che il Cristo Gesù rappresentava il punto culminante del loro stesso divenire; i Romani invece avrebbero dovuto comprendere che egli significava qualcosa nello sviluppo del popolo ebraico, non propriamente un vertice, ma soltanto una posizione direttiva. Che cosa sarebbe accaduto, se i Romani lo avessero capito? Niente di diverso da quello ‘che è poi avvenuto di fatto: essi però non l’hanno compreso.

 

Noi sappiamo che l’ebraismo si diffuse nel mondo occidentale, passando per Alessandria. I Romani avrebbero potuto mostrare comprensione per il fatto che ora era giunto il momento storico per la diffusione della cultura ebraica. Questo è ancor meno di quello che avrebbero dovuto comprendere i dottori della legge.

 

I Romani avrebbero dovuto comprendere soltanto l’Importanza degli Ebrei come parte del mondo, e tale comprensione sarebbe stata uno dei compiti dell’epoca. Che essi non lo avessero compreso viene accennato dal fatto che Pilato non ne capisce nulla, che il Cristo Gesù viene considerato come il re dei Giudei, e che Pilato in fondo non considera neppur tanto grave che lo si presenti come re dei Giudei.

 

Si sarebbero dunque potute attendere tre diverse forme di comprensione per la missione del Cristo Gesù:

• quella che i discepoli eletti potevano avere per l’elemento cosmico del Cristo;

• in secondo luogo, la comprensione che gli Ebrei avrebbero dovuto avere

per quanto veniva esplicandosi nel popolo ebraico stesso;

• e infine la comprensione che i Romani avrebbero dovuto avere per il popolo ebraico,

nel momento in cui esso cominciava a espandersi fuori della Palestina, in più vaste parti del mondo.

 

Tutto questo si trova segretamente racchiuso nella Composizione artistica soprattutto del vangelo di Marco, nel quale si trovano anche chiaramente espresse le risposte ai problemi ora accennati.

Anzitutto si possono formulare le seguenti domande: sono stati all’altezza della situazione gli apostoli, i discepoli eletti? hanno essi riconosciuto il Cristo Gesù come uno spirito cosmico? hanno riconosciuto che in mezzo a loro si trovava Uno che non era solo l’uomo che appariva, ma che era avvolto da un’aura attraverso la quale forze e leggi cosmiche penetravano nella Terra? lo hanno compreso?

 

Nel Vangelo troviamo chiaramente accennato che il Cristo Gesù esigeva da essi tale comprensione. Quando infatti i due figli di Zebedeo, suoi apostoli, gli chiesero di poter sedere uno alla sua destra e l’altro alla sua sinistra, egli risponde: «Non sapete ciò che domandate. Potete voi bere il calice che bevo io, o essere battezzati col battesimo col quale io sono battezzato?» (Marco 10,38).

 

Dapprima i discepoli lo promettono. Il passo ora citato accenna esplicitamente che il Cristo Gesù chiedeva da loro quella comprensione. Che cosa sarebbe ora potuto accadere? Due eventualità avrebbero potuto verificarsi. Una era che i discepoli eletti percorressero veramente insieme al Cristo tutte le tappe del mistero del Golgota, conservando intatto fino al suo compimento il legame fra i discepoli e il Cristo. Questo sarebbe potuto accadere.

 

Che questa eventualità non si sia avverata, ma che invece si sia attuata l’altra, possiamo vederlo indicato con precisione soprattutto dal vangelo di Marco. Quando il Cristo Gesù viene arrestato, tutti fuggono; Pietro che aveva promesso di non cedere a nulla, lo rinnega tre volte prima del secondo canto del gallo. Questa è la sequenza dei fatti, per quanto riguarda gli apostoli. Ma come ci viene prospettato dal punto di vista del Cristo stesso il fatto che i discepoli non lo abbiano accompagnato fino al Golgota?

 

Trasferiamoci con tutta umiltà (perché così ha da essere) nell’anima del Cristo Gesù il quale cerca fino all’ultimo di conservare intatto il legame stretto con le anime degli apostoli. Trasferiamoci, per quanto ci è possibile, nell’anima del Cristo per il corso ulteriore degli eventi. Può darsi davvero che quest’anima si sia posta il grave problema: cosa posso fare perché le anime almeno dei discepoli più eletti si sollevino all’altezza necessaria per partecipare a tutto quello che succederà fino al mistero del Golgota?

 

Di fronte a questo problema si trova l’anima del Cristo. È un momento grandioso: Pietro, Giacomo e Giovanni lo seguono sul Monte degli ulivi, e il Cristo Gesù vuole scoprire in se stesso se ha la forza di tenerli con sé, quegli eletti fra gli eletti. Per via lo prende l’angoscia; è forse lecito credere che il Cristo Gesù abbia paura della morte, del mistero del Golgota che sta per compiersi, e che abbia sudato sangue sul Monte degli ulivi per l’avvicinarsi del sacrificio? Sarebbe segno di una ben scarsa comprensione del mistero del Golgota.

 

Questa spiegazione potrà essere valida per certi teologi, ma non è certo molto sensata. Perché è triste il Cristo? Non trema certo per timore della croce. Egli trema al pensiero: sapranno quelli che ora io prendo con me superare questo momento, in cui deve decidersi se la loro anima vuol seguirmi, se vogliono vivere ogni cosa insieme a me, fino alla croce?

 

Deve decidersi se il loro stato di coscienza possa mantenersi desto

al punto da poter partecipare a tutto, fino alla croce: questo è «il calice» che gli si avvicina.

 

Egli li lancia poi soli, perché possano «vegliare», cioè rimanere in uno stato di coscienza che permetta loro di sperimentare con lui tutto ciò che egli dovrà sperimentare. Poi si allontana e prega: «Padre, togli da me questo calice; tuttavia non quello che voglio io, ma quello che vuoi tu». Ciò significa: fa che io non debba sperimentare anche l’abbandono, in quanto figlio dell’uomo; ma fa che gli altri mi accompagnino.

 

Poi tornò indietro, e li trovò addormentati: non avevano saputo mantenere lo stato di coscienza di veglia. Egli ripete il tentativo, e di nuovo essi non sono in grado di rimanere desti. Poi prova di nuovo e ancora una volta essi non rimangono desti. Da quel momento gli è chiaro che ormai è solo; essi non saranno vicini a lui sulla via della croce, il calice non è stato allontanato.

 

• Egli è destinato a compiere la sua azione in completa solitudine, anche nella solitudine dell’anima.

• Il mondo ricevette il dono del mistero del Golgota, ma nell’epoca in cui questo si compì

il mondo non aveva ancora la capacità di comprenderlo; neppure i più eletti furono all’altezza necessaria.

 

Questo per quanto riguarda il primo tipo di comprensione;

e la cosa ci viene messa in evidenza nei Vangeli in modo meravigliosamente artistico,

purché si sia in grado di apprezzarne i veri sostrati occulti.

 

Chiediamoci ora come si manifestasse la seconda forma di comprensione, cioè come i capi degli Ebrei avessero compreso il germoglio della stirpe di Davide che doveva sbocciare come il fiore del popolo ebraico. Nel capitolo decimo del vangelo di Marco troviamo un primo passo che accenna al genere di comprensione del popolo ebraico per il discendente dalla stirpe di Davide. Siamo al momento decisivo in cui il Cristo si avvicina a Gerusalemme, per essere riconosciuto dal popolo ebraico come colui che discende da Davide.

 

«Vengono così a Gerico, ed ecco mentre usciva di là coi suoi discepoli e con molta gente, il figlio di Timeo, Bar Timeo, che era cieco e seduto sulla strada a chiedere l’elemosina, sentendo dire che era Gesù di Nazaret si mise a gridare: Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me! Molti gli davan sulla voce perché tacesse; ma quegli gridava sempre più forte: figlio di Davide, abbi pietà di me!» (10,46-48). L’appello del cieco è esplicitamente rivolto al «figlio di Davide»: questo vuol dire che egli doveva giungere soltanto alla comprensione del «figlio di Davide».

 

«Allora Gesù, fermatosi, comandò di chiamarlo. Essi, chiamatolo, gli dissero: fatti coraggio, alzati, egli ti chiama! Il cieco, gettando via la veste, balzò in piedi e venne a Gesù. E Gesù gli disse: che vuoi ch’io ti faccia? Il cieco gli rispose: maestro, ch’io veda. A cui Gesù replicò: va, la tua fede ti ha salvato. E tosto vide e cominciò ad accompagnarsi con Gesù» (10,49-52).

Vale a dire: Gesù richiedeva solamente la fede.

 

Non è forse permesso di domandarci perché mai in mezzo agli altri fatti venga proprio qui riferita la guarigione di un cieco? perché la troviamo lì, isolata a quel modo? Si dovrebbe pure imparare qualcosa dalla composizione del Vangelo.

In questo episodio ciò che più importa non è affatto la guarigione, ma il fatto che uno solo fra tutti i presenti, un cieco, gridi ad alta voce: «Gesù, figlio di Davide!»

 

Gli altri, quelli che vedono, non lo riconoscono.

Lo riconosce invece il cieco che fisicamente non lo vede neppure.

Ci viene così mostrato in questo passo quanta sia la cecità degli altri, e come, per poterlo riconoscere, quell’uomo abbia prima dovuto diventar cieco!

È la cecità quello che più conta in questa scena, non la guarigione; e al tempo stesso ci vien mostrato quanto poco il Cristo fosse compreso.

 

Procedendo oltre nel Vangelo troviamo che il Cristo ripete sempre che l’elemento cosmico vive e compenetra l’elemento individuale umano; parla effettivamente dell’elemento cosmico quando parla dell’immortalità (ed è a sua volta importante che nella composizione del Vangelo ciò venga inserito proprio in un contesto in cui il Cristo deve presentarcisi come «figlio di Davide»); troviamo detto che Dio è il Dio dei viventi e non dei morti, che è il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe in quanto Abramo, Isacco e Giacobbe continuano a vivere in altra forma nei loro discendenti, poiché Dio vive nella loro individualità (12,26- 117).

 

Con forza ancor maggiore questo si trova accennato là dove il Cristo parla dell’uomo, e di quel che è latente in lui dovrà destarsi. Qui si legge (12,35-37) che non si tratta solo del discendente fisico di Davide, poiché Davide stesso ha parlato del Signore e non di un figlio fisico. Si parla sempre del Signore che sta entro l’individualità umana, di quello che dovrà scaturire dalla stirpe di Davide, quando nel vangelo si approssima la fine dell’influsso cosmico del Cristo.

 

Vorrei richiamare l’attenzione ancora su un altro passo, verso la fine del vangelo di Marco: è un passo che resta facilmente inosservato e incompreso; se invece lo si comprende, commuove l’anima in modo sconvolgente. Si tratta del punto in cui è narrata la consegna del Cristo al potere civile per essere condannato e la ricerca dei pretesti per condannarlo. Prima era stata descritta la scena in cui il Cristo aveva scacciato i mercanti dal tempio e rovesciato le loro tavole; nel tempio egli aveva pronunciato parole dense di significato e ascoltate da tutti.

 

Nulla gli era accaduto, ed egli lo mette in rilievo: Tutto questo voi avete ascoltato, ed ora che mi trovo davanti a voi cercate delle false accuse contro di me; mi avete arrestato alla maniera dei malfattori, servendovi di un traditore, mentre quando stavo in mezzo a voi nel tempio non mi avete fatto nulla.

– È un episodio impressionante: ci vien fatto comprendere che il Cristo in fondo aveva sempre operato in modo che non si potesse agire contro di lui. Non è dunque lecito chiedersene la ragione?

 

Egli mette crudamente in luce il decisivo punto di svolta della evoluzione che era avvenuto, per esempio dicendo: «I primi saranno gli ultimi e gli ultimi saranno i primi» (9,35). Tenendo conto dell’insegnamento del Vecchio Testamento, le parole espresse con veemenza dal Cristo dovevano suonare terribili agli orecchi degli ascoltatori. Eppure non gli era accaduto nulla. Poi viene catturato nelle tenebre notturne, ad opera di un traditore, e si ha quasi l’impressione che la cattura sia stata accompagnata da una specie di rissa.

 

È veramente un passo impressionante:

«Il traditore aveva dato loro questo segnale: colui che bacerò è lui; pigliatelo e mettetelo al sicuro. Giunto dunque, si accostò subito a lui dicendo: salute, o maestro! E lo baciò. Quelli allora misero le mani addosso a Gesù e lo arrestarono. Uno però dei presenti, sfoderata la spada, ferì un servo del sommo sacerdote e gli portò via l’orecchio.

Gesù allora rivoltosi a loro disse: siete venuti a prendermi con spade e bastoni, quasi fossi un ladrone. Ogni giorno me ne stavo nel tempio a insegnare, e non mi avete preso; ma dovevano compiersi le Scritture» (14,44-49).

 

Che cosa era successo veramente? perché prima non lo avevano arrestato, e poi andavano alla ricerca di pretesti per arrestarlo come un malfattore? Per comprendere quel che avvenne in quel momento è necessario considerare le cose nei loro profondi aspetti occulti.

 

Ho già accennato al fatto che il vangelo di Marco ci mostra chiaramente come nella sua narrazione si intreccino ai fatti materiali i fatti spirituali, occulti. Ci viene chiaramente indicato che il Cristo non era limitato nella sua azione alla singola personalità di Gesù di Nazaret, ma agiva sui suoi discepoli al di fuori del suo corpo, come quando andò verso di loro sul mare.

Così egli era in grado di operare sulle anime dei discepoli, irraggiando in esse il suo impulso, il suo spirito, anche stando al di fuori del suo corpo fisico, mentre quest’ultimo si trovava altrove.

 

Proprio il vangelo di Marco ci indica con particolare chiarezza che certe persone percepivano quello che egli insegnava o faceva, in uno stato di esteriorizzazione, cioè al di fuori del suo corpo fisico. Tutto questo viveva poi nelle anime altrui: esse non lo comprendevano, ma vi si immergevano. Era al tempo stesso qualcosa di terreno e di celeste, qualcosa che stava entro l’individualità del Cristo e anche nella gente.

 

Il Cristo era sempre congiunto con un’aura la cui azione si estendeva lontano.

Quest’aura poteva operare in quanto egli era costantemente congiunto

con le anime di coloro che aveva eletti, e poteva agire fintanto che egli era unito con loro.

• Ma il calice non era stato allontanato: gli eletti non avevano mostrato comprensione.

• Allora a poco a poco l’aura si ritirò dall’uomo Gesù di Nazaret;

il Cristo e il figlio dell’uomo, Gesù di Nazaret, divennero sempre più estranei l’uno all’altro.

 

Gesù di Nazaret rimase sempre più solo, verso la fine della sua vita,

mentre il Cristo rimase sempre meno strettamente congiunto con lui.

• Mentre l’elemento cosmico, cioè il Cristo, era presente e pienamente congiunto con Gesù

fino al momento che ci viene descritto come l’agonia di Getsemani,

da allora tale connessione si allenta, per effetto della incomprensione degli uomini.

 

E mentre prima il Cristo cosmico aveva esercitato la sua azione nel tempio,

scacciandone i mercanti, insegnando le cose più grandiose, e non gli era accaduto nulla,

adesso che Gesù di Nazaret non era più così strettamente congiunto col Cristo gli sbirri poterono avvicinarlo.

Certo, l’elemento cosmico era ancora presente, ma sempre meno strettamente congiunto col figlio dell’uomo.

 

Ecco ciò che rende così impressionante quel momento. Poiché non poté attuarsi la comprensione, nelle tre forme di cui abbiamo parlato, che cosa rimase alla fine nelle mani degli uomini? Chi poterono catturare, chi condannare, chi crocifiggere? Il figlio dell’uomo.

Quanto più gli uomini si accanirono, tanto più andò ritraendosi l’elemento cosmico che stava penetrando nella vita della Terra come un impulso giovanile. Questo impulso si ritrasse. A coloro che lo condannarono e che eseguirono la condanna rimase solo il figlio dell’uomo, intorno al quale ormai soltanto aleggiava il giovanile elemento cosmico che doveva scendere sulla Terra.

 

Nessun altro vangelo menziona che rimase soltanto il figlio dell’uomo, mentre l’elemento cosmico aleggiava intorno a lui: solamente il vangelo di Marco. Perciò in nessuno degli altri vangeli troviamo messo talmente in rilievo questo aspetto cosmico dell’evento del Cristo: proprio nel momento in cui gli uomini, nella loro incomprensione, mettono le mani sul figlio dell’uomo, l’elemento cosmico sfugge loro. Sfugge l’elemento cosmico giovanile che in quella svolta dei tempi viene ad inserirsi nell’evoluzione terrestre. Fra le mani degli uomini rimane il figlio dell’uomo: il vangelo di Marco lo sottolinea chiaramente.

 

Rileggiamo questo passo, cercando di scoprire se il vangelo di Marco sottolinea qui effettivamente il rapporto fra l’elemento cosmico e l’elemento umano.

«Gesù poi, rivoltosi loro, disse: siete venuti con spade e bastoni per prendermi, quasi fossi un ladrone. Ogni giorno me ne stavo fra voi nel tempio a insegnare, e non mi avete preso; ma dovevano compiersi le Scritture. Allora tutti i discepoli, abbandonatolo, se ne fuggirono» (14,48-50).

 

Egli rimase solo. Che cosa avvenne dell’elemento cosmico giovanile? Si pensi a questa solitudine dell’uomo che era stato compenetrato dal Cristo cosmico e che ora si trovava di fronte agli sbirri, come un assassino. Quelli che avrebbero dovuto comprenderlo, fuggono. «Allora tutti i discepoli, abbandonatolo, se ne fuggirono». Nei versetti 51 e 52 poi si legge: «Lo seguiva però un giovanetto coperto soltanto di un lenzuolo e, essendo stato afferrato, lasciò il lenzuolo e se ne fuggì tutto nudo».

 

Chi è questo giovanetto? chi fugge? chi appare accanto al Cristo Gesù, quasi nudo, e scappa poi, tutto nudo? È l’impulso cosmico giovanile, è il Cristo, quello che fugge: ormai esso non aveva che un debole legame col figlio dell’uomo. Ben profondo è il contenuto di questi due versetti! Il nuovo impulso non conserva nulla di quanto i tempi antichi avevano potuto avvolgere intorno all’uomo. Esso è il nuovo Impulso dell’evoluzione terrestre, «tutto nudo».

 

Tuttavia esso non si allontana da Gesù di Nazaret, e lo ritroviamo all’inizio del sedicesimo capitolo: Ÿ «Passato che fu il sabato, Maria Maddalena e Maria di Giacomo e Salomé comperarono aromi per andare a imbalsamare Gesù. Nel venire al sepolcro la mattina del primo giorno della settimana, molto per tempo, al levar del sole, si dicevano tra loro: chi rimuoverà la pietra dall’entrata del sepolcro? Ma, alzati gli occhi, videro la pietra rimossa, sebbene fosse molto grande. Entrate poi nella tomba, scorsero un giovanetto, seduto a destra, vestito di bianca tunica, e stupirono. Egli però disse loro: non vi spaventate! Voi cercate Gesù di Nazaret, il crocifisso; è risorto!» (16,1-16).

 

È il medesimo giovanetto. In nessun altro punto dei Vangeli ci si presenta questo giovanetto che sfugge agli uomini nel momento in cui essi condannano il figlio dell’uomo; ora, dopo i tre giorni, esso è di nuovo presente, e da allora opera come principio cosmico della Terra.

 

Si possono pure confrontare gli altri Vangeli e si vedrà che in nessuno viene menzionato (e in modo tanto grandioso) il giovanetto di cui parlano i due passi citati. È quanto basta per farci comprendere in che senso profondo il vangelo di Marco intende sottolineare che si tratta di un evento cosmico, che si ha a che fare col Cristo cosmico.

Solo a questo punto si capisce che anche l’intera composizione artistica del vangelo di Marco deve essere fondata su questo elemento.

 

È singolare che dopo questa significativa duplice apparizione del giovanetto il vangelo di Marco giunga rapidamente alla conclusione, e presenti solo pochissimi altri passi importanti. Non si potrebbe del resto concepire che fosse possibile un ulteriore sviluppo.

Forse si sarebbe potuto aggiungere qualcosa di ancora più sublime e stupendo, ma non di più sconvolgente o di più significativo per l’evoluzione della Terra. Questo non è davvero pensabile, dopo che il vangelo di Marco ci ha presentato il monologo di un Dio, il cosmico colloquio della trasfigurazione sul monte quando erano stati convocati i tre discepoli che però non compresero nulla.

 

E ancora: Getsemani, la scena sul Monte degli ulivi, quando il Cristo dovette riconoscere che i più eletti fra i suoi discepoli non erano in grado di comprendere ciò che stava per compiersi, per cui egli dovette proseguire da solo, e il figlio dell’uomo patire ed essere crocifisso; poi la solitudine suprema del figlio dell’uomo, abbandonato da quelli che egli aveva prescelto, abbandonato infine anche a poco a poco dal principio cosmico. Così, dopo avere compreso la missione e il significato del giovanetto che si sottrasse agli occhi e alle mani degli uomini, siamo ora in grado di comprendere in tutta la loro profondità le parole: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (15,34).

 

Il giovanetto poi ricomparve, e il vangelo di Marco accenna alla sua natura spirituale, soprasensibile: era divenuto visibile ai sensi soltanto a causa delle particolari condizioni di quel momento; esso si manifestò poi a Maria di Magdala, e «in seguito apparve in altra forma a due di loro che camminavano per la campagna» (16,12). Ora, quello che è di natura fisica non avrebbe potuto mostrarsi «in altra forma».

 

Poi il Vangelo si avvia rapidamente alla fine, additando l’avvenire per tutto ciò che a quei tempi non aveva potuto essere compreso. L’umanità infatti era discesa allora al suo punto più basso e le si doveva appunto indicare l’avvenire. Nel Vangelo troviamo ancora una volta una mirabile arte nella composizione, là dove viene preparato l’annuncio dell’avvenire. Come possiamo infatti raffigurarci l’avvenire, annunciato da colui che sperimentò la triplice incomprensione, nei confronti del mistero del Golgota che egli stava per compiere? Possiamo pensare che egli ci additi un avvenire in cui gli uomini dovranno acquistare una comprensione sempre crescente per ciò che avvenne allora.

 

Guardiamo al vangelo di Marco che parla in modo tanto significativo, e rendiamoci conto che ogni epoca dovrà sviluppare una comprensione sempre maggiore per il mistero del Golgota. Siamo dunque convinti che col nostro movimento antroposofico andiamo realizzando qualcosa che troviamo appunto additato nel Vangelo stesso: sviluppare una nuova comprensione per quello che il Cristo volle compiere nel mondo. Egli stesso però accenna che tale nuova comprensione è difficile, che esiste sempre la possibilità di fraintendere l’essenza del Cristo.

 

«Che se allora qualcuno vi dicesse: ecco qui il Cristo, o eccolo là, non gli credete, perché si leveranno falsi Cristi e falsi profeti, e faranno segni e prodigi da sedurre, se possibile, anche gli eletti. State dunque attenti che io vi ho predetto tutto» (13,21-23).

In tutti i tempi seguiti al mistero del Golgota ci sono date molte occasioni per prendere queste parole come un monito.

Chi ha orecchi per udire può udire anche oggi le parole che risuonano dal Golgota: «Se allora qualcuno vi dicesse: ecco qui il Cristo, o eccolo là, non gli credete; perché si leveranno falsi Cristi e falsi profeti, e faranno segni e prodigi da sedurre, se fosse possibile, anche gli eletti».

 

Qual è il rapporto in cui dobbiamo metterci col mistero del Golgota? Nei pochi passi salienti del vangelo di Marco che seguono quelli grandiosi che abbiamo esaminato, troviamo anche l’ultimo versetto: vi sono menzionati i discepoli dopo che ebbero ricevuto dal giovanetto, dal Cristo cosmico, un nuovo impulso, essi che prima avevano mostrato così poca comprensione: «Gli apostoli poi se ne andarono a predicare da per tutto aiutati dal Signore, il quale confermava la loro parola, accompagnandola con miracoli» (16,20).

 

Aiutati dal Signore! Questa espressione è veramente conforme al senso del mistero del Golgota. Non che il Signore possa trovarsi in qualche luogo, incarnato in un corpo fisico: ma dove lo si comprende, egli coopera dai mondi spirituali, quando si agisce nel suo nome, (non con la presunzione di presentarlo fisicamente) ed è spiritualmente presente fra coloro che comprendono il suo nome secondo verità.

 

Se giustamente compreso, il vangelo stesso di Marco parla del mistero del Golgota in modo che, insieme alla sua comprensione, si acquista anche la possibilità di portare a compimento il mistero del Golgota stesso. Come il Vangelo debba essere compreso ci viene mostrato proprio dall’episodio che troviamo solo nel vangelo di Marco, ossia nel singolare racconto del giovanetto che nel momento decisivo sembra quasi distaccarsi dal Cristo Gesù.

 

Poiché i discepoli eletti fuggirono, essi non poterono partecipare a tutto ciò che si svolse successivamente e che viene narrato anche dal vangelo di Marco. Qui di nuovo si trova nella composizione del Vangelo, con alto senso artistico, un brano che descrive nel modo più evidente certi fatti ai quali i discepoli non assistettero. Nessuno di loro poté esserne testimonio oculare, eppure il Vangelo li descrive.

 

Questo è un problema che dobbiamo ancora affrontare; cercando di risolverlo penetrando, in profondità, potremo poi gettar luce anche sul rimanente. Donde proviene la conoscenza dei fatti ai quali i discepoli non assistettero? Le tradizioni ebraiche li raccontano in modo del tutto diverso da come li troviamo qui nei Vangeli.

 

Poiché coloro che ci informano del mistero del Golgota

non possono attestarne la verità in base alla loro presenza,

donde proviene la conoscenza di fatti

ai quali non assistette nessuno dei fautori della propagazione del cristianesimo? –

• Questo problema ci farà penetrare ancora più a fondo in questo evento.