La sfera della Luna e gli antichissimi maestri dell’umanità. Il primo germe del karma

O.O. 239 – Nessi karmici Vol. V – 07.06.1924


 

La saggezza antroposofica opera in maniera profondissima nella vita umana

accennando ai vastissimi segreti cosmici, ai segreti di tutto l’universo

che in realtà sono di nuovo riuniti quale microcosmo nell’entità umana.

 

In tutto quanto del cosmo ci si può così chiarire, che ci può diventare pieno di luce, vive però qualcosa che illumina la vita umana non solo nel quotidiano, ma addirittura in ogni ora, qualcosa che considerando la vita umana in relazione al suo destino, al suo karma, illumina quel che sta direttamente vicino al cuore umano, che come ho già detto gli sta vicino ora per ora. Così, prendendo l’avvio dai più differenti punti di vista, in questi giorni desidero parlare soprattutto del fondamento antroposofico delle idee, delle immagini spirituali che possono avvicinarci il karma umano.

 

Sappiamo che nella vita umana, che trascorre tra nascita e morte, influiscono per così dire due momenti che si distinguono nella sostanza da tutti gli altri momenti della vita terrena umana. L’uno è il momento, e naturalmente non è un momento in senso letterale, in cui l’essere umano discende nella vita terrena quale entità animico-spirituale, assume un corpo fisico come strumento del suo agire nell’elemento terreno, non solo si riveste del corpo fisico, ma per così dire si trasforma nel corpo fisico per poter agire sulla Terra: è l’inizio della vita terrena, la nascita e il concepimento. L’altro momento è quello in cui l’uomo esce dalla vita terrena, in cui ritorna al mondo spirituale attraverso la porta della morte.

 

Se ci soffermiamo all’ultimo momento, vediamo che nei primi giorni dopo la morte la forma umana fisica si conserva sino a un certo grado. Ci chiediamo però: come si comporta nei confronti della natura, nei confronti dell’esistenza che nella vita terrena ci circonda nei diversi regni della natura quel che si conserva come forma umana fisica? questi regni, tutta la natura esterna, sono in condizione di comportarsi nei confronti del resto dell’entità umana in modo da poter conservare questo residuo così com’è formato?

 

No, la natura non è in grado di farlo. La natura è in grado solo di distruggere ciò che dall’ingresso nella vita terrena fisica si è sviluppato quale figura fisica umana, e con la morte inizia la dissoluzione della forma che consideriamo come nostra forma terrena. Chi lascia agire abbastanza profondamente sulla sua anima questa verità certo ovvia, capisce come semplicemente già nella forma umana fisica vi sia la prova contro tutto quanto è materiale. Se infatti la concezione materiale fosse giusta bisognerebbe poter dire che la natura costruisce la forma umana. Non lo si può dire perché la natura può solo distruggere la forma umana, non costruirla.

 

Questo pensiero può far sorgere un’impressione possente. E sorge infatti, solo che spesso non viene espressa nella corretta forma di pensiero. Vive nell’inconscio dell’anima umana, vive in tutto quanto sentiamo in merito all’enigma della morte. E vive anche un’esistenza energica. L’antroposofia vuole solo portare a un determinato grado di soluzione, necessario al corretto svolgimento della vita, gli enigmi che sorgono per un’imparziale sensibilità umana riguardo alla vita. Per prima cosa deve quindi indicare all’imparziale spirito umano che cos’è il momento della morte.

D’altra parte essa può indicare il momento della nascita. In merito ci si può fare solo un’idea corrispondente a quella della morte affidandosi un poco a un’auto-osservazione imparziale.

 

L’auto-osservazione deve riguardare il pensiero umano. Il pensiero umano si diffonde su tutto quanto accade nel mondo fisico-sensibile. Ci formiamo i nostri pensieri su quanto avviene nel mondo. Non potremmo neppure essere uomini se non sviluppassimo i pensieri, giacché ci differenziamo da tutte le altre creature che ci circondano nell’ambito terrestre grazie alla formazione dei pensieri.

Quando però sviluppiamo i nostri pensieri in un’imparziale auto-osservazione essi ci paiono proprio molto lontani da quanto ci circonda nella realtà. Ci si immagini solo in modo giusto come si diventa freddi e astratti interiormente quando ci si dedica al pensare e come si è quando ci si abbandona alla vita con la nostra anima. Un’anima imparziale non dovrebbe avere alcun dubbio che i pensieri in quanto tali hanno qualcosa di freddo, di astratto, di scarno, di secco.

 

L’osservare la vita dei pensieri nella giusta maniera dovrebbe comunque far parte della prima esperienza meditativa degli antroposofi. Allora nella vita dei pensieri potrà apparire loro qualcosa che può sembrare molto simile alla vista che ci offre un cadavere. Che cosa caratterizza la vista di un cadavere?

Il cadavere è di fronte a noi. Ci diciamo: in questa forma viveva un’anima umana, uno spirito umano; ora essi si sono allontanati. Il cadavere umano giace adesso come un guscio dell’anima e dello spirito, offrendoci però al contempo la prova che questa struttura non avrebbe mai potuto esser prodotta da un mondo extraumano, che essa potè formarsi solo grazie alla stessa natura umana più intima e animata dallo spirito, che è un residuo di qualcosa che non è più presente. La forma stessa ci indica che il cadavere non è una verità, ma solo il residuo di una verità, che ha senso solo quando vivono in esso anima e spirito. Ora nella forma rimasta ha perso appunto molto, ma così com’è rivela proprio che in esso abitavano anima e spirito.

 

Poi possiamo volgere il nostro sguardo animico alla vita del pensiero. Da un altro punto di vista ci apparirà anche come qualcosa di cadaverico. Il pensare umano, considerato imparzialmente in noi stessi, può sostenersi tanto poco da sé quanto nel cadavere la forma umana. La forma non ha senso, e il pensiero umano, così come coglie la natura esteriore, non ha alcun senso proprio come un cadavere, poiché la natura è sempre qualcosa che può sì venir colta dal pensiero, ma che non potrà mai produrre pensieri.

Altrimenti non potrebbe esistere alcuna logica che, indipendentemente da tutte le leggi di natura, vede quello che è giusto o sbagliato per il pensare.

 

Quando cogliamo il pensiero qui nel mondo terreno e lo osserviamo nel modo giusto, deve sembrarci un cadavere, un cadavere animico, così come ci appare un cadavere fisico quanto resta dell’uomo che ha varcato la porta della morte. Noi comprendiamo la forma umana solo considerandola come un residuo di quanto ha lasciato indietro, morendo, un uomo vivo. Si immagini che vi sia un unico uomo sulla Terra, che muoia e che un abitante di Marte scenda sulla Terra e ne osservi il cadavere: proprio non lo comprenderebbe. Potrebbe esaminare tutte le forme minerali, vegetali e animali e continuerebbe a non capire come abbia potuto nascere quella forma che giace là morta. Essa contraddice infatti se stessa e contraddice tutto il mondo extraumano, terreno. In se stessa tradisce di essere stata abbandonata da qualcosa, poiché non potrebbe essere qual è se fosse sempre solo stata abbandonata a se stessa.

Lo stesso avviene per i nostri pensieri. Non potrebbero davvero essere come sono se esistessero solo in forza della natura. Sono un cadavere animico da paragonare a un cadavere fisico. Quando vi è un cadavere deve essere morto qualcosa. Che cosa è morto? È morta la forma del pensiero che avevamo prima di scendere nel mondo terreno. Allora viveva quello che nei pensieri astratti è morto.

 

Il pensiero dell’anima ancora senza corpo sta al pensiero che abbiamo ora

come l’uomo dotato di anima e di spirito sta al cadavere.

Noi uomini nel corpo fisico siamo la tomba in cui fu seppellita la vivente vita animica dell’esistenza preterrena.

• Il pensiero era vivo nell’anima. L’anima è morta per il mondo spirituale.

• Non portiamo in noi il pensiero vivente, ma il cadavere del pensiero.

 

Questo risulta quando si va all’altro capo della vita terrena, quello opposto alla morte, quando ci si indirizza alla nascita.

Ci diciamo che in certo modo

• l’elemento spirituale nell’uomo muore con la nascita, • l’elemento fisico nell’uomo muore con la morte.

Così parliamo di questi fatti più correttamente di quanto non se ne parli di solito ai tempi nostri.

 

Se cerchiamo la porta d’accesso all’antroposofia volgendo con sentimento l’anima verso la morte e rendendoci così comprensibile che il pensiero è un cadavere rispetto al pensiero preterreno, ci si allarga lo sguardo sull’uomo oltre la vita terrena, e solo così ci prepariamo ad accogliere l’insegnamento antroposofico, la saggezza antroposofica. Si trova difficilmente il naturale cammino verso l’antroposofia solo perché non si considera in maniera corretta quel che è ancora presente sulla Terra, anche se come cadavere (e la vita terrena è il luogo all’uopo disposto).

Oggi si sopravvaluta il pensiero, ma in realtà non lo si conosce;

lo si conosce solo nella sua caratteristica animico-cadaverica.

 

Se ora si guidano i pensieri come ho tentato di dirigerli, si viene decisamente condotti ai due aspetti della vita eterna dell’anima umana. In fondo, sulla base delle speranze umane, nelle lingue moderne abbiamo solo il vocabolo per la semi-eternità che inizia ora e non cessa. Abbiamo solo un vocabolo « immortalità » perché all’uomo dei nostri tempi interessa in prevalenza quel che accade dopo la morte. Egli è qui ora e volge i suoi interessi di vita a sapere che cosa accadrà dopo la morte.

Vi erano però dei tempi in cui l’uomo si interessava anche di un’altra cosa. Oggi chi pensa in maniera più egoistica si dice: m’interessa quel che segue alla morte perché vorrei sapere se vivrò oltre la morte; non m’interessa che cosa esisteva prima della nascita o del concepimento. Poiché siamo qui non pensiamo tanto alla vita preterrena quanto a quella dopo la morte. Dell’eternità dell’anima umana sono però parte sia l’immortalità, sia l’«innatalità».

Linguaggi umani misterici più antichi, primigeni, che in armonia coi tempi vedevano ancora il mondo soprasensibile, avevano un vocabolo che corrispondeva all’innatalità. Dobbiamo di nuovo cercare di arrivare a indirizzare i pensieri in questa direzione. In tal modo veniamo però portati verso leggi ben diverse da quelle naturali quali si manifestano nell’uomo, veniamo condotti verso il destino umano.

 

In un primo momento il destino umano viene incontro alla nostra anima in modo da colpirci per così dire come per caso, da venir vissuto per caso. Noi facciamo cose diverse movendo impulsi diversi e nei confronti della vita abituale dobbiamo dirci: in infiniti casi si verifica che al buono capitino esperienze di vita difficili, dolorose, tragiche, mentre a chi non ha per nulla buone intenzioni si presentano esperienze di vita non cattive, ma addirittura buone.

Il nesso tra quanto procede animicamente da noi, e quanto ci colpisce per destino, notoriamente non lo vediamo con la coscienza abituale nella vita quotidiana. Vediamo che il buono può venir colpito dai peggiori colpi del destino e che il cattivo spesso non ha bisogno di venir colpito da null’altro che da un destino relativamente buono.

 

Negli avvenimenti naturali vediamo la necessità, vediamo che gli effetti seguono le cause; per quanto concerne l’elemento spirituale non riusciamo a vedere che quella legge sia intrecciata alla nostra vita morale. Eppure, osservando la vita imparzialmente, vediamo svolgersi il destino in modo da esser costretti a dirci: il destino si svolge quale lo abbiamo cercato.

Bisogna essere del tutto imparziali con se stessi. In un determinato momento della vita raggiunto in questa incarnazione osserviamo la vita che abbiamo vissuta: si è arrivati a cinquant’anni e si volge un occhio imparziale verso quei cinquant’anni sino alla fanciullezza e si vede come ci si sia diretti spontaneamente verso tutto quanto ci ha colpiti, come mossi da una spinta interiore.

 

È spiacevole osservarlo, ma se si seguono gli avvenimenti a ritroso si vede che per quanto è decisivo nella vita ci si deve dire: ci si è mossi nel tempo verso un certo avvenimento della vita come verso un punto nello spazio. Il nostro destino fluisce da noi stessi. Per questo è senz’altro comprensibile che persone divenute anche un po’ paterne come Knebel, l’amico di Goethe, si dicano: osservando la vita umana se ne vede tutto il disegno.

Certo esso non è sempre tale che guardandolo a ritroso ci si dica che si agirebbe ancora così. Tuttavia, osservando le singole azioni che si sono compiute si vede sempre che alla precedente si è aggiunta la seguente mossi da una spinta interiore, e che così è avvenuto che nella nostra vita siano penetrati i più diversi avvenimenti.

 

Si perviene così a riconoscere che nella nostra vita animica morale si manifestano leggi diverse da quelle della vita della natura. Attraverso tutto questo si può formare lo stato d’animo in cui si deve andare incontro al ricercatore spirituale che sa esporre la formazione del destino in base all’osservazione del mondo spirituale, come il naturalista espone le leggi di natura dai processi naturali. Proprio questo cogliere le leggi spirituali nell’universo è compito dell’antroposofia nel presente.

Due parole introduttive in proposito. Ricordiamo che ne La scienza occulta ho ad esempio esposto, e descritto anche in altri contesti, che la Luna che ci guarda dal cielo un tempo era unita alla Terra, che il corpo fisico della Luna si distaccò dalla Terra, in un ben preciso momento si separò dalla Terra.

 

In un tempo futuro la Luna si ricongiungerà alla Terra. Non si separò solo la Luna fisica dalla Terra, ma si separarono dalla Terra anche certi abitanti che vi risiedevano quando la Luna fisica era ancora unita con la Terra. Se prendiamo i beni spirituali che vivono nell’evoluzione umana, anche solo grazie a questa considerazione perveniamo sempre più a riconoscere che l’attuale umanità è sì intelligentissima (oggi quasi tutti gli uomini sono molto intelligenti), ma non saggia.

Un tempo, all’inizio dell’evoluzione dell’umanità, erano diffusi patrimoni di saggezza, non tanto in forma intellettuale quanto in immagini poetiche, diffuse dai grandi maestri all’umanità della nostra Terra, da maestri antichissimi che vivevano tra gli uomini. Quei maestri dell’umanità non erano presenti qui in un corpo umano fisico, si incarnavano solo in un corpo eterico e il contatto con loro avveniva in maniera un po’ diversa da come avviene tra gli uomini fisici. Quei maestri si muovevano sulla Terra in un corpo eterico.

 

L’uomo del quale essi erano la guida percepiva la loro presenza nella sua anima. Sentiva entrare nella sua anima qualcosa che assomigliava a un’ispirazione, come un’illuminazione interiore di verità e di concezioni. Essi insegnavano in un modo spirituale. A quei tempi dell’evoluzione terrestre si distingueva tra uomini visibili e uomini invisibili. Non si aveva l’esigenza di voler vedere gli uomini invisibili, poiché si aveva il dono di ricevere il loro insegnamento anche se non li si vedeva. Si sentivano provenire i loro insegnamenti dall’intimo dell’anima e ci si diceva: quando giungono questi insegnamenti mi si è avvicinato un grande maestro primigenio dell’umanità.

Non si avevano neppure immagini esteriori di quei maestri primigeni, li si incontrava nella visione spirituale. Non si stringeva loro fisicamente la mano, ma li si incontrava comunque e si percepiva qualcosa come una spirituale stretta di mano.

Quegli antichissimi maestri trasmisero all’umanità l’originaria e grande saggezza di cui si è conservato solo un’eco in creazioni quali i Veda e la filosofia vedanta. Queste grandi dottrine dell’oriente ne sono solo un’eco. Un tempo sull’umanità era diffusa una saggezza originaria che andò persa perché gli uomini potessero di nuovo farsi strada a fatica da sé verso l’elemento spirituale in libertà di volere.

 

La libertà dell’essere umano non si sarebbe potuta realizzare se gli antichissimi maestri fossero rimasti sulla Terra. Essi, relativamente poco tempo dopo che la Luna si era distaccata dalla Terra, la seguirono ed elessero la loro dimora nella colonia cosmica della Luna. Essi sono divenuti i più importanti abitatori della colonia lunare dall’epoca in cui si separarono dalla Terra e abbandonarono gli uomini a se stessi.

Anche se da quei tempi non incontriamo più qui sulla Terra quei grandi maestri primigeni, in quanto uomini che passano di vita terrena in vita terrena li incontriamo tuttavia nella nostra vita dopo la morte, e cioè molto presto dopo aver varcato la porta della morte.

 

Ho già accennato anche a questo, che cioè l’uomo, quando varca la porta della morte e dopo aver abbandonato il corpo fisico, sperimenta che il suo corpo eterico si dilata sempre più, diviene sempre più grande, ma anche sempre più sottile e che da ultimo scompare nell’universo. Allora però non ci sentiamo esistere sulla Terra, ma in quei pochi giorni successivi alla morte, dopo abbandonato il corpo eterico, sentiamo di esistere nei diretti dintorni della Terra.

Un paio di giorni dopo la morte non sentiamo di vivere sul corpo della Terra, ma sentiamo come se il corpo della Terra si fosse dilatato sino a dove la Luna ruota attorno alla Terra. Ci sentiamo su una Terra ingrandita e non sentiamo la Luna solo come un corpo, ma come un corpo unico tutta la sfera, e sentiamo l’orbita lunare soltanto come confine della sfera. Sentiamo la Terra semplicemente come ingrandita sino alla sfera lunare e divenuta spirituale. Ci troviamo nella sfera lunare e ora vi restiamo per un periodo abbastanza lungo dopo la morte. Ivi però reincontriamo anzitutto le entità spirituali che, all’inizio dell’esistenza terrena degli uomini, furono i grandi maestri primigeni; ritorniamo nel loro ambito, e ivi facciamo ora un’esperienza curiosa.

 

Sarebbe facile immaginare che l’esistenza successiva alla morte, che dura appunto un certo tempo (avrò di nuovo occasione di parlare della sua lunghezza), abbia un carattere di ombra rispetto alla vita terrena. La vita terrena ci pare solida, ovunque possiamo afferrare gli oggetti che sono solidi; l’uomo stesso è solido, compatto. Noi definiamo reale qualcosa quando possiamo afferrarlo bene. Dopo aver varcato la porta della morte questa solida vita terrena ci sembra in fondo un sogno, poiché entrando alla maniera descritta nell’ambito della Luna, entriamo in un’esistenza che sembra ora molto più reale, molto più impregnata di realtà.

 

Questo avviene perché quegli antichissimi maestri dell’umanità che proseguono la loro esistenza nella regione della Luna ci pervadono con il loro essere e ci fanno apparire tutto molto più reale di quanto non sperimentiamo gli oggetti del mondo qui come uomini terreni. Ma che cosa sperimentiamo?

Ora sperimentiamo in fondo la vita terrena solo a frammenti. Quando volgiamo lo sguardo indietro con l’abituale coscienza ci sembra una corrente unitaria. Ma come l’abbiamo vissuta?

Siamo vissuti come in ombra: prima un giorno e poi una notte. Di questa però la coscienza abituale non si ricorda. Poi viene di nuovo un giorno, poi di nuovo una notte e così via; noi però sommiamo solo i ricordi dei giorni. In un vero ricordo retrospettivo dovremmo sempre interrompere i giorni con quanto abbiamo sperimentato di notte, dobbiamo sempre interrompere i giorni con le notti. L’abituale coscienza, con un certo qual diritto, non lo fa perché è offuscata nel sonno.

 

Quando ci troviamo tra le entità lunari che un tempo furono gli antichissimi maestri dell’umanità, sperimentiamo proprio quel che abbiamo vissuto di notte qui sulla Terra. Da questo emerge anche quanto dura questa forma di esistenza nella regione lunare. A meno che uno non sia un dormiglione, trascorre dormendo circa un terzo della vita terrena, e altrettanto dura la vita nella regione della Luna: press’a poco un terzo della vita terrena. Se uno ha vissuto vent’anni, dura circa sette anni, se uno ha vissuto sessant’anni, dura vent’anni e così via. Là si vive quindi tra quelle entità, là esse ci pervadono con la loro esistenza.

Per capire però che cosa si sia là bisogna penetrare subito in ciò che avviene dopo aver abbandonato il corpo fisico. Ne possono parlare l’iniziato e il morto, poiché il morto abbandona il corpo fisico nella regione dello spazio. Nel momento in cui si è abbandonato il corpo fisico ci si effonde proprio in ciò che esiste al di fuori del corpo fisico. Se sono qui e abbandono il mio corpo fisico, la prima cosa in cui penetro è il tavolo e poi tutto il resto che mi circonda. Penetro sempre in ciò che riempie il mondo, e così sempre avanti, solo mai entro la mia pelle.

 

• Tutto quel che sin qui costituiva il mio mondo interno fisico diviene il mio mondo esterno,

quel che costituiva prima il mondo esterno diviene il mio mondo interno.

• Così anche l’elemento morale diviene il mio mondo esterno.

 

Supponiamo che io da cattivo soggetto abbia dato uno schiaffo a un altro e dopo la morte riviva ora il quarantesimo anno, epoca in cui l’ho offeso. Per lui fu una terribile impressione morale. Forse durante la mia vita ne risi. Ora sperimento non quel che sperimentai allora, ma quel che sperimentò lui come dolore fisico e come sofferenza morale. Io sono del tutto in lui. In verità lo fui già ogni notte, ma questo resta nel subconscio, non lo sperimentiamo, resta immagine. Ora veniamo pervasi dalla sostanza dei grandi maestri che vivono nella Luna, e riviviamo tutto in maniera più intensa che qui sulla Terra.

 

Ciò che sulla Terra fu come un sogno diviene una realtà molto più potente, e noi viviamo quella realtà. Sperimenta questa realtà più intensa anche chi continua a vivere dopo la morte con un defunto in virtù della coscienza veggente; la vive assieme a lui perché fa osservazioni soprasensibili dato che può innalzarsi all’ispirazione. Là si sperimenta che gli uomini dopo la morte vivono una realtà molto più intensa di prima della morte. Sperimentare quel che vive un uomo dopo la morte, se lo si vive veramente, agisce con maggiore potenza di quanto potrebbe agire qualsiasi azione terrena. Cito un esempio in proposito.

 

Alcuni conosceranno i miei misteri drammatici e quindi la figura di Strader. La figura di Strader è disegnata secondo una figura reale. Una personalità all’incirca simile esistette e mi interessò molto. Seguii da fuori la vita della personalità che intendo, trasformandola certo poeticamente nella figura di Strader. È noto che scrissi quattro misteri drammatici. Nel quarto Strader muore. Scrissi quel dramma nel 1913, e lo sentii in maniera tale da non poter fare altro che far morire Strader. Perché? Fino a che il modello di Strader visse qui nel mondo fisico, il mio sguardo era rivolto a lui. Però nel frattempo il modello era morto. Mi aveva talmente interessato che continuai a seguirlo. Le impressioni della vita dopo la morte furono così forti che spensero del tutto in me l’interesse per come egli era durante la vita terrena. Non che non fosse rimasta la mia partecipazione, ma essa non era più sufficiente rispetto alle poderose impressioni di quanto egli visse dopo la sua morte terrena fisica. Dovetti far morire Strader perché avevo davanti agli occhi il suo modello, e come continuava a vivere dopo la morte, cosa che era molto più forte della sua vita terrena.

 

Si consideri che questo ebbe anche risvolti pratici. Vi furono amici che avevano indovinato chi fosse il modello di Strader e si affrettarono con nobile dedizione a ricercare il suo lascito. Me lo presentarono con una gioia infinita. Senza volerlo dovetti diventare un po’ scortese poiché non m’interessava per niente, dal momento che di fronte a quel lascito si ergevano le impressioni della vita dopo la morte; esse cancellarono tutto quanto gli amici mi presentavano della sua vita terrena. Avviene proprio che le impressioni suscitate perché in un essere umano penetra la sostanza dell’entità lunare, che quelle impressioni superino appunto tutto quanto si può vivere nella vita terrena, che rendano l’esistenza più reale. In una realtà più forte si vive dunque la giusta azione compensatrice. Che cosa significhi per l’altro avergli fatto subire qualche nostra azione viene da noi sperimentato in maniera più intensa della nostra azione.

 

Da quest’esperienza successiva alla morte, che viviamo nella sfera dei grandi antichissimi maestri dell’umanità, si forma il primo germe del karma. Là ci proponiamo: quel che noi abbiamo fatto deve venir compensato da noi stessi. Per la prima volta vediamo che nella vita le intenzioni producono effetti. Qui nel mondo terreno il bene non ha bisogno di realizzarsi in bene, né il male in male. Nel momento in cui penetriamo nel mondo sopraterreno la decisione che noi prendiamo all’interno di un mondo molto più reale di quello terreno, e che vive in noi come impulso a dover compensare quello che appare là come il rovescio di ciò che si era fatto, in quel momento il proponimento che noi facciamo deve divenire una causa reale per la compensazione nella vita successiva.

 

Desidero accennare come a poco a poco si formi il karma e come l’uomo, ricomparendo dopo aver trascorso il tempo tra morte e rinascita, strutturi una nuova vita. Il primo periodo che attraversiamo dopo la morte viene trascorso appunto in maniera da concepire, stando assieme alle entità lunari, l’intenzione di realizzare il nostro karma. Di conseguenza desidero descrivere concretamente le tappe in cui l’uomo tra morte e rinascita compensa il suo karma.