La visione antroposofica del mondo risulta dalla conoscenza scientifìco-spirituale

O.O. 108 – Risposte a enigmi della vita – 23.11.1908


 

Sommario: Quattro gradini della vera autoconoscenza: ambiente (fisico), linea ereditaria (corpo eterico), karma (corpo astrale), conoscenze cosmiche (io). La visione antroposofica del mondo risulta dalla conoscenza scientifìco-spirituale

 

Ieri l’altro abbiamo trattato un tema eminentemente occulto, abbiamo gettato uno sguardo nei mondi superiori. Ieri, poi, nella conferenza pubblica, abbiamo esposto il metodo che l’uomo deve seguire e gli adempimenti per arrivare a risvegliare nella sua anima le facoltà e le forze sopite che gli rendano gradualmente possibile la conoscenza dei mondi superiori. Il tema che dobbiamo trattare oggi è in un certo rapporto interiore con i due sopra citati e, sotto un certo rispetto, è anche connesso con tutte le finalità antroposofiche.

 

Non basta che nelle discussioni teoriche si senta così spesso affermare che la scienza dello spirito antroposofica è in fondo un’autoconoscenza dell’essere umano di carattere universale, un’autoconoscenza atta a far sorgere nell’uomo la comprensione delle fondamenta più profonde, dell’essenza più profonda del suo io e con esso una conoscenza del cosmo. Non basta, ho detto, che quest’affermazione sia spesso presente nella letteratura teosofica – e anche altrove -, perché va detto che una vera, autentica autoconoscenza è anche ciò che, come una specie di fenomeno concomitante, deve procedere parallelamente ad ogni forma di ricerca reale nell’ambito dei mondi superiori e ad ogni tipo di evoluzione delle forze animiche interiori.

 

L’antichissimo motto sapienziale dell’umanità «Conosci te stesso» ha un profondissimo significato, specie per l’antroposofo. Oggi, dunque, osserveremo ai più svariati livelli dell’evoluzione umana ciò che in senso scientifìco-spirituale può definirsi autoconoscenza. Prenderemo le mosse dall’autoconoscenza più comune, più usuale, per poi innalzarci a quella conoscenza di sé che in senso antroposofico può essere definita conoscenza cosmica, tenendo sempre assolutamente presente, riguardo a tutti i singoli aspetti che dobbiamo esaminare, il lato che si potrebbe definire “scientifìco-spirituale”, il lato occulto.

 

All’interno della visione antroposofica del mondo,

lo studio della conoscenza di sé è tanto più importante in quanto,

se rettamente intesa, essa può includere

quanto di più elevato possa rientrare nelle finalità antroposofiche;

se, invece, la si intende in modo errato, può divenire straordinariamente pericolosa.

Un’autoconoscenza erroneamente intesa,

anziché condurre alla vera via a noi indicata dall’antroposofia,

è maggiormente atta a distoglierci dal nostro cammino,

specie all’inizio dell’attività scientifìco-spirituale.

 

Goethe, che sotto molti aspetti era ferratissimo in questo campo, disse una volta che già la parola “autoconoscenza” gli ispirava una certa diffidenza, poiché gli significava qualcosa di cui erano fautrici persone che, in un modo o nell’altro, o per falsa malinconia o per autostordimento, erano finite su vie del tutto sbagliate.

Questa descrizione è giustissima.

 

Ora, nel campo scientifìco-spirituale, noi abbiamo continuamente occasione di considerare la complessa natura umana tenendo presente ciò che noi tutti conosciamo: l’articolazione antroposofica dell’essere umano in corpo fisico, corpo eterico, corpo astrale e in ciò che definiamo il portatore dell’io vero e proprio. E se teniamo presente che, sostanzialmente, quello che chiamiamo il sé è in relazione con tutte queste parti costitutive dell’uomo, arriveremo facilmente a capire che la conoscenza di sé è straordinariamente complessa.

 

Al fine di esaminare subito, primariamente, la specie di autoconoscenza più semplice, più bassa, ricordiamoci che, considerando queste quattro parti costitutive della natura umana, dobbiamo distinguere – secondo lo stato attuale di queste parti costitutive – l’uomo nello stato di veglia da quello nello stato di sonno senza sogni.

Ricordiamoci, perciò, che dobbiamo dire che nell’uomo addormentato il corpo fisico e quello eterico sono abbandonati dal corpo astrale e dal portatore dell’io, e che questi ultimi due si trovano fuori del corpo fisico.

 

Noi, però, sappiamo anche che nell’attuale ciclo dell’umanità

è normale che l’io dell’uomo possa divenire cosciente di sé

solo quando si serve degli organi fisici per avere delle percezioni sul piano fisico.

Secondo la scienza dello spirito noi parliamo, perciò, di un portatore dell’io

che perdura durante quello stato che noi definiamo sonno privo di sensi.

 

Del portatore dell’io, però, dobbiamo dire

che è in grado di sviluppare il lato attuale della coscienza e dell’autocoscienza,

ossia di recepirlo direttamente nel campo d’osservazione,

solo servendosi degli organi fisici, cioè la mattina, quando rientra nei corpi fisico ed eterico.

Per l’essere umano attuale è questa l’autocoscienza normale.

 

E ora dobbiamo chiederci:

Qual è l’essenza di questa autocoscienza al livello più basso?”

Meglio è, però, porre la questione nei seguenti termini:

Come giunge l’uomo a conoscere

ciò che dalla mattina alla sera abita il suo corpo fisico e si serve dei sensi fisici?

Come giunge l’uomo a una conoscenza essenziale del Tutto o del sé?

 

Al riguardo si può essere facilmente indotti a credere che l’uomo debba volgere lo sguardo alla sua interiorità, che debba compiere, per così dire, un’autoanalisi. Arriviamo così a tutte quelle specie di autoanalisi coltivate e consigliate oggi.

Si sollecitano, ad esempio, le persone ad osservare le proprie azioni, le proprie qualità e i propri errori, a meditare sulla propria interiorità e a cercare di capire il proprio valore, la propria capacità di compiere questa o quell’azione. E già qui cominciano i pericoli dell’autoconoscenza erroneamente intesa, e perciò dei pericoli dobbiamo parlare.

Noi teniamo sempre presente che l’uomo deve cercare di elevarsi ai mondi superiori, e sappiamo anche che questa ascesa opera su di lui una trasformazione tale da renderlo radicalmente diverso da quello che è attualmente. È perciò naturale che si incontrino degli ostacoli sulla via.

 

Mentre una falsa autocoscienza rende l’ascesa pericolosa, quella giusta la rende possibile.

La falsa autoconoscenza, che si sarebbe tentati di definire piuttosto

un almanaccare sul proprio io quotidiano, un badare ai propri errori,

è un pericolo perché può davvero far regredire l’essere umano,

in quanto al giudizio viene a mancare un criterio generale.

 

Se, dopo una normale valutazione dei propri pregi e dei propri difetti, ci si dice:

“Questa cosa l’hai fatta bene, quest’altra no, perciò devi migliorare”,

si presuppone di avere un criterio di valutazione cui potersi orientare.

Tale criterio diviene, per così dire, una misura di valore anche per ciò che si farà in futuro.

 

In questo modo l’uomo, in realtà, non andrà mai oltre se stesso,

mentre l’antroposofo deve sempre dire a se stesso:

• “Non fermarti, vai sempre avanti per superare passo dopo passo il punto in cui sei”.

 

Un detto di cui bisognerebbe sempre far tesoro è il seguente:

• “Ben fatto è tutto ciò che tu intraprendi a favore dell’evoluzione dell’anima

e che ti fa compiere dei progressi sul sentiero della vita, mentre ciò che ti trattiene nel punto in cui sei,

è sostanzialmente una perdita per la tua anima”.

 

Nessuna autoconoscenza che spinga l’uomo ad un contrito pentimento o lo conduca all’autocompiacimento,

può farlo progredire.

Se invece anche per una sola volta siamo animati dalla volontà di comprendere che cos’è davvero importante,

allora dobbiamo chiederci: “L’essere umano vero e proprio, da che cosa dipende normalmente?”

 

Vi sarà certo facile immedesimarvi in questo pensiero: “Come sarebbero le mie rappresentazioni, le mie sensazioni e i miei pensieri, se quest’individualità, che è passata – e passerà – d’incarnazione in incarnazione, invece d’essere nata a Vienna un certo numero di anni fa, si fosse incarnata cinquanta anni prima, diciamo, a Mosca? Quali contenuti avrebbe in tal caso quest’individualità?

Quali sensazioni, sentimenti, rappresentazioni, pensieri e idee compenetrerebbero quest’individualità conferendole il suo peculiare tono di fondo?” Sarebbero tutti diversissimi!

 

Il modo più facile per farvene un’idea precisa è quello di riflettere su come procedono le vostre rappresentazioni e le vostre sensazioni dalla mattina alla sera, e su quanto dipendano dalla data e dal luogo in cui siete venuti al mondo. Provate a farvene un calcolo preciso, e ad espellere dall’interiorità dell’anima tutto ciò che è condizionato dalla data e dal luogo della nascita. Togliete dalla vita dell’anima tutte queste rappresentazioni. Provate a riflettere su quel che resta. Cercate soprattutto di considerare meditativamente quanti di questi pensieri, di queste rappresentazioni che dalla mattina alla sera pervadono l’anima, abbiano una validità, un valore oltre a quello che gli deriva dall’essere luogo e data della vostra vita tra nascita e morte.

 

Vedrete allora come sia importante per l’io star bene attento alla misura in cui soggiace

alle influenze del “quando” e del “dove”.

Queste conoscenze non le acquisite rimuginando nella vostra interiorità, ma facendo tesoro del detto del poeta:

«Se vuoi contemplare te stesso, impara a conoscerti attraverso gli altri!», ossia attraverso l’ambiente.

 

Veniamo così distolti in modo peculiare dal rimuginare nell’anima e condotti a dire:

• “Per conoscere il nostro io, dobbiamo aprire gli occhi e la mente alla peculiarità del contenuto del mondo

nel quale, in una certa data e in un certo luogo, siamo nati”.

• Più ci sforziamo di coltivare questo senso aperto al mondo esterno,

a ciò che ci circonda, più acquistiamo, secondo la scienza dello spirito,

quella che, in quest’ambito più basso, possiamo definire autoconoscenza.

 

Volgiamoci ad acquisire, in una visione libera da intralci, il timbro, il colore del nostro tempo; cerchiamo di comprendere come sia a nostra disposizione in svariatissimi modi ciò che è il carattere peculiare della nostra epoca e del luogo in cui viviamo.

 

Sommamente singolare è questa autoconoscenza che ci indica di volgerci dal nostro sé al nostro ambiente.

Imparando a conoscere questo nostro mondo esterno,

sforzandoci di penetrare nel suo spirito e di ricercare quel che ci ha fissati in una forma,

allora riconosceremo il nostro io come un’immagine speculare. Questa è una via oggettiva.

 

Rivolgere lo sguardo dentro di sé è un pericolo.

Bisogna conoscere le cause del perché si è come si è.

Queste cause le si può conoscere nell’ambiente; con ciò veniamo distolti da noi stessi.

Abbiamo così, in primo luogo, ciò che conferisce la facoltà di conoscere noi stessi,

in quanto siamo un io che si serve dell’organo fisico per vivere con i suoi contemporanei.

 

Ora, l’io si serve del corpo eterico, o corpo vitale, che è un fine e sottile organismo di cui lo scienziato dello spirito antroposofìco conosce perfettamente la costituzione, e che è impegnato in una lotta continua contro il decadimento del corpo fisico.

Il , nell’attuale ciclo dell’umanità, quando la mattina s’immerge nel corpo fisico e in quello eterico, agisce in entrambi, dunque anche nel corpo eterico.

Qui è da tenere presente non ciò che il luogo e il tempo – il “quando” e il “dove” – fanno di noi, poiché sono altri e più numerosi gli elementi che si presentano alla nostra considerazione.

 

Al corpo eterico è congiunto ancora qualcos’altro che, sotto un certo aspetto,

è connesso ancora più profondamente con il nostro sé, qualcosa che va già oltre la nascita e la morte.

Arriviamo con ciò a qualcosa che risale a tempi passati e che si estende al futuro,

qualcosa che il sé ha già prima di incarnarsi in un corpo fisico.

 

Osservando l’essere umano da un punto di vista esteriore, senza scendere in profondità,

è il corpo eterico a palesare in modo particolare

quelli che dobbiamo definire talenti, predisposizioni, speciali facoltà del sé,

e qui, sotto un certo aspetto, veniamo a trovarci già in un campo dell’autoconoscenza più spinoso.

 

Sebbene questo sia un livello di autoconoscenza ancora relativamente basso rispetto a quello che si raggiunge a gradi più elevati dell’evoluzione superiore, nemmeno qui l’uomo andrà molto lontano, se vorrà rimuginare nella propria interiorità per scoprire quali sono i talenti e le capacità di cui è dotato.

Oggi ci porterebbe troppo lontano prendere le mosse dall’essere dell’uomo per dare una motivazione a ciò che esporrò ora.

 

Quando l’uomo comincia a volerne sapere di più sui propri talenti e sulle proprie capacità

mettendosi ad almanaccare su di sé, sono in agguato i peggiori nemici dell’autoconoscenza.

• E proprio a questo punto che egli deve trasferire le sue considerazioni

da se stesso all’ambiente, dal personale all’impersonale.

• Da quel momento in poi dobbiamo rivolgere la nostra osservazione

all’ambito del corpo eterico, alla nostra appartenenza a questa o quella razza.

• Dobbiamo allora chiederci: “Di quale parte dell’umanità sei membro?”

 

È nostro dovere impegnarci nella ricerca di quella che è la peculiarità del gruppo umano al quale apparteniamo per famiglia, razza, popolo, rispetto alle qualità universali di tutto il genere umano.

Se, dunque, impariamo a conoscere ciò che si continua attraverso la linea ereditaria, gli elementi che continuano a svilupparsi tramandandosi dal bisnonno al nonno, eccetera, e che all’interno di questa linea ereditaria conferiscono al sé la sua peculiare colorazione – e che perciò non sono direttamente connessi con la data e il luogo di nascita, bensì con leggi fondamentali più profonde dell’esistenza umana -, se impariamo a conoscere queste peculiarità, troveremo il giusto sfondo, quello che solo a questo punto ci consente di vedere come il nostro proprio sé si distingua da esso.

 

Ogni rimuginare del sé prima della contemplazione di questo sfondo è male.

L’antroposofìa, dunque, esige sì da noi un’autoconoscenza più scomoda di quella che spesso è retoricamente pensata, ma in altro modo non si perviene ad una reale conoscenza di sé, perché almanaccando solo su un unico punto non si ha la misura, manca la scala comparativa.

 

Vorrei passare ora a collegare i fatti occulti.

Sappiamo tutti che il corpo fisico umano è avvolto da un’aura, è immerso in quest’aura astrale che l’osservazione chiaroveggente vede nella forma di una nube ovale. La dimensione dell’aura umana è determinata in certo modo dal fatto che l’uomo nasce in un tempo e in un luogo precisi.

 

Una persona dall’orizzonte molto limitato, che propriamente nel suo sé può sperimentare e vuole valutare solo sulla base di ciò che, non visto, lo stimola movendo dall’ambiente e ne guida gli impulsi volitivi, una persona che, perciò, è il prodotto del “quando” e del “dove”, manifesta alla coscienza chiaroveggente la presenza nella sua aura di qualcosa di compresso, di premuto insieme.

In tal caso, l’aura non è grande, non si estende molto al di là dei limiti del corpo fisico.

 

Nel momento in cui l’uomo amplia il suo orizzonte, nel momento in cui evolve la mente ed apre lo sguardo all’osservazione del suo ambiente, vediamo effettivamente la sua aura ingrandirsi da ogni lato, acquisire dimensioni più vaste rispetto ai limiti del corpo fisico.

 

L’interiorità dell’uomo s’ingrandisce spiritualmente con l’ampliarsi del suo orizzonte concettuale e senziente.

Per la coscienza chiaroveggente è davvero sorprendente osservare

come siano ridotte le dimensioni dell’aura delle persone che sono un’eco del loro ambiente.

 

Quando gli uomini, però, iniziano a raffinare il loro giudizio, a renderlo più indipendente, arrivando a distinguersi dai soliti usi e costumi, la coscienza chiaroveggente vede l’aura ampliarsi, ingrandirsi, e l’essere umano ingentilirsi ed espandersi in sé.

 

Per quanto grottesco a molti possa sembrare,

la conoscenza dell’ambiente è il primo passo della conoscenza di sé.

• Il secondo passo è la conoscenza della famiglia, della razza.

Nell’individualità che cerca di liberare i propri impulsi senzienti e volitivi

dalle radici popolari, razziali, familiari, eccetera,

la coscienza chiaroveggente non scorge solo l’ampliarsi dell’aura, ma anche una sua maggiore mobilità,

la capacità di accogliere delle vibrazioni, mentre prima era morta, immota.

 

Abbiamo con ciò già detto che quelle che chiamiamo sfumature, connotazioni particolari, sono in relazione con la linea ereditaria – sebbene non direttamente, ma in certo qual modo.

Come possiamo ora elevarci al di sopra di quelle che sono le cause fondanti, le cause prime dell’interiore assetto del sé? Chi perviene in questo modo alla conoscenza di sé, non è ancora giunto a grandi risultati.

Riguardo ai propri talenti e alle proprie capacità l’uomo non otterrà gran che, se si limiterà a formarsi solo una rappresentazione delle sue origini e della linea ereditaria. In tal modo non riuscirà a venirne fuori. Qui solo l’esperienza scientifìco-spirituale è in grado di parlare.

È l’esperienza scientifìco-spirituale a dare ciò che rende l’uomo indipendente da talenti e capacità.

 

Sebbene appaia del tutto dissimile da ciò che si vuole raggiungere, il rimedio è proprio questo: se l’uomo cerca di acquisire un sentimento pervaso di calore, di intimo, profondo affetto per ciò che all’inizio lo interessa poco e a cui fa fatica ad interessarsi, se, soprattutto, rende versatile il proprio interesse, allora, se si impegna, riuscirà a svincolare la propria individualità dalle facoltà ereditate.

 

• Mentre il primo passo, la conoscenza dell’ambiente, si compie relativamente presto,

il secondo – quest’autoeducarsi – opera solo lentamente la trasformazione dei talenti.

• Al riguardo occorre anzi rilevare che talvolta, nella presente incarnazione,

sarà necessario rinunciare alla rielaborazione dei talenti; ma si sarà comunque iniziato il cammino,

ed è straordinariamente importante per noi che questo tentativo venga realmente compiuto.

 

La coscienza chiaroveggente osserverà ben presto come l’aura diventi in sé mobile, vibrante. Vedremo, almeno nelle primissime fasi, una metamorfosi della nostra natura. Da questo processo autoeducativo che viene via via svolgendosi, risulterà poi da sé, del tutto spontaneamente, quella che possiamo definire una specie di autoconoscenza impersonale.

 

Arriviamo ora al terzo ambito importante.

Arriviamo cioè a contemplare ciò che il nostro sé esplica

per il fatto di essere inserito in un corpo astrale, ossia nel portatore,

nel depositario di gioie e dolori, di passioni, eccetera.

 

Nel sonno senza sogni il corpo astrale è tratto fuori dal corpo fisico e dal corpo eterico.

L’uomo comune non ha mai operato coscientemente la separazione del corpo astrale dai corpi fisico ed eterico.

La coscienza chiaroveggente può operarla, quella normale no.

Quale legge operante nella natura umana esplicherà nel corpo astrale il proprio elemento caratteristico?

 

Qui nel sé si esplica ciò che chiamiamo karma; esso è il carattere peculiare del sé o individualità,

è ciò che non continua a svilupparsi solo nella linea ereditaria, ma passa d’incarnazione in incarnazione,

è ciò che è connesso con le azioni, con le esperienze animiche personali nel corso di varie incarnazioni.

 

Il terzo grado dell’autoconoscenza comprende dunque

le esperienze che l’uomo compie per mezzo dei suoi corpi,

quelle esperienze che si esplicano come una legge di causa ed effetto di natura puramente spirituale.

 

Ora si pone la seguente questione:

“Può l’uomo fare qualcosa per giungere a una conoscenza di sé in questa terza regione?”

 

Tempo fa, rispondendo a delle domande, avevo indicato come sia difficile nell’attuale ciclo dell’umanità anche solo capire come agisca il karma. In quell’occasione avevo ipotizzato ad esempio il caso di una persona nel cui karma fosse scritto che entro un certo periodo di tempo, quattordici giorni dopo, avrebbe dovuto intraprendere un viaggio. Questa persona, però, non avendo visione del karma, ignorandolo completamente, aveva in programma di realizzare qualcosa tre settimane dopo. Mentre stava dandosi da fare per organizzare ogni cosa, giunse la notizia che le imponeva di intraprendere il viaggio subito. Vediamo così scontrarsi le due direzioni. Ciò che egli ha fatto è in contrasto con la sua linea karmica. Vedete bene come al karma esistente possa aggiungersene sempre del nuovo che causa un rafforzamento ed un concatenamento delle linee karmiche.

 

Quest’esempio è inteso ad evidenziare che

l’uomo, nella sua normale evoluzione, è difficilmente in grado

– sempreché si sia in presenza di una concatenazione karmica – di comprendere la via del sé, dell’io,

perché se non ha una coscienza chiaroveggente di un’evoluzione elevata,

non può sapere che cosa vi sia nel proprio karma.

• Ora si tratta di porre il seguente quesito:

“È possibile nella vita normale acquisire una autoconoscenza che arrivi fino a questo punto?”

 

Vi indicherò subito lo strumento che l’esperienza scientifìco-spirituale ci offre e che, per così dire, rende possibile all’uomo di riconoscere ciò che è karmicamente giusto compiere in un determinato momento.

 

Capita talvolta di imbattersi in un concetto del tutto errato, secondo il quale il karma rende schiavo l’essere umano.

Il karma non priva l’uomo della libertà.

È proprio grazie alla sua libertà che l’uomo può compiere in ogni istante qualcosa che genera karma.

Il karma non esclude, perciò, che si possa intessere, intrecciare qualcosa nella linea karmica, per un verso o per l’altro.

 

Può, dunque, l’uomo compiere qualcosa che lo ponga in un certo rapporto con il suo karma, che lo rapporti ad esso in modo da non contrastarlo oltre misura, evitando così di creare nuove cause che invece di promuoverne il progresso, ne provocano solo il regresso?

 

C’è qualcosa che opera conducendo l’essere umano

sempre più nella direzione che la sua linea karmica intende mantenere;

è un elemento, un fattore che nelle cerchie che coltivano la visione del mondo antroposofica

è sempre esercitato e analizzato: è propriamente quella mentalità che si forma nell’anima

sotto l’influenza di una visione del mondo come quella antroposofica,

e che inserisce sempre più l’essere umano nel karma.

 

Quella che noi dobbiamo assumere nell’antroposofia è la giusta posizione; i pigri, quelli che dicono solo che l’uomo deve calarsi in se stesso, che deve ricercare Dio in sé, non faranno progredire molto l’essere umano sulla sua via, perché a fargli fare passi avanti è proprio ciò che lo distoglie dalla propria persona, che gli dà una visione del mondo che gli renda possibile una visione soprasensibile del mondo stesso.

 

Tutto quello che l’antroposofia ci offre, ci permette di avere visione degli eventi soprasensibili.

Non si può essere chiaroveggenti sin dal principio,

e perciò l’uomo deve accettare le comunicazioni che gli trasmettono i ricercatori chiaroveggenti.

Non è assolutamente necessario che sia egli stesso chiaroveggente,

come non è necessario sapere subito usare il telescopio o il microscopio.

 

Le comunicazioni che gli studiosi delle sfere soprasensibili partecipano,

sono assolutamente comprensibili applicando una logica scevra da pregiudizi.

Per potere indagare personalmente le regioni soprasensibili,

l’uomo, per così dire, deve farsi egli stesso strumento;

ma si può capire tutto senza che questa trasformazione avvenga.

 

Le immagini che l’antroposofo si forma dei mondi superiori,

degli accadimenti che si celano dietro i fatti sensibili,

esplicano degli effetti su tutti i suoi sentimenti e le sue sensazioni.

Bisogna davvero che ci imprimiamo bene nell’anima di non cedere alla comoda scusa, secondo la quale

non sarebbe importante apprendere molte conoscenze, ma avere dei principi morali.

 

Occorre capire che la scienza dello spirito antroposofica non risparmia l’apprendimento,

e che si sbaglia di grosso chi dice: a me le teorie sui mondi superiori non interessano.

Certo che contano i principi antroposofici, è una condizione ovvia, questa.

Ma, così come la stufa riscalda la stanza solo dopo che vi è stato immesso e acceso il combustibile,

lo stesso fa l’uomo.

Se vi limitate a predicare alla stufa: “Cara stufa, il compito tuo è quello di riscaldare la stanza”,

la stufa non riscalderà la stanza;

se predicate agli uomini sempre e solo che il loro dovere è quello di amare, eccetera, otterrete magri risultati.

 

Serve a poco assumersi il ruolo di predicatori morali, perché tutte le prediche morali lasciano l’umanità così com’è.

Se accendete la stufa, il calore si diffonderà nella stanza;

il combustibile che avete introdotto ne promuoverà il riscaldamento.

Se date all’umanità la visione del mondo che l’antroposofìa può offrirle riguardo ai fatti soprasensibili,

ne risulterà necessariamente ciò che è contenuto nel primo principio della Società Teosofica,

cioè la fratellanza universale.

 

La visione antroposofica del mondo esiste di necessità, ma non serve a nulla ripeterlo in continuazione.

Essa si manifesta sicuramente in quella forma che è efficace per il mondo,

quando si dischiude la conoscenza del mondo superiore, la conoscenza soprasensibile del mondo.

Come le piante si schiudono a un unico Sole,

così tutti coloro che aspirano a questa conoscenza del mondo

anelano a un unico Sole centrale, e tutte le altre conseguenze risultano da sé.

 

Così, la visione antroposofica del mondo risulta dalla conoscenza scientifìco-spirituale.

Questo è ciò che rende poi possibile all’uomo di vivere da sé nel senso del proprio karma.

Occorre, dunque, che l’uomo giunga infine a mettere in pratica la dottrina antroposofica.

Se non si vuole che il karma resti un’idea astratta, se si vuole che l’idea del karma diventi efficace,

bisogna almeno provare ad applicarla nella vita concreta,

considerato che la multiformità e la frenesia della nostra vita quotidiana

non consentono di stare sempre ad osservare se stessi.

È necessario porsi questa domanda: “Che cosa significa pensare karmicamente?”

 

Prendiamo un caso radicale: una persona ha dato uno schiaffo ad un’altra – a me, ad esempio in un caso come questo, che cosa vuol dire “pensare karmicamente”? Vuol dire che io e l’altro eravamo qui in una precedente incarnazione; può darsi che in quella precedente incarnazione io gli abbia dato motivo di assumere nei miei confronti il comportamento che ha tenuto attualmente, che io lo abbia spinto, che gli abbia proprio, per così dire, dato una lezione in tal senso. Non voglio teorizzare, voglio fare un’ipotesi che sia un’ipotesi di vita. Pensando, dunque, in questo modo, è lui che mi dà lo schiaffo? No, non è affatto lui a darmelo, sono io che me lo do, perché sono stato io a porlo in quella condizione, sono stato io ad alzare la mano con cui egli mi ha colpito.

 

Altro al riguardo può offrirlo solo l’esperienza, e dall’esperienza risulta questo:

se l’uomo cerca seriamente di tener conto dell’idea del karma,

di porsi di quando in quando quella domanda con grande serietà e rispetto, ne constaterà realmente gli effetti.

Nessuno potrà fornirvene la prova, siete voi che dovete darvene la dimostrazione con la vostra azione.

Allora constaterete come la vostra vita interiore stia radicalmente cambiando.

 

Del tutto diversi sono i sentimenti, gli impulsi della volontà riguardo alla vita,

e questa vita interiore totalmente diversa palesa le sue conseguenze; le palesa in situazioni del tutto diverse.

Laddove avreste provato un grande dolore, profonde delusioni,

ora accettate la sofferenza pacatamente: l’equilibrio raggiunto

è in relazione con le azioni compiute e con i pensieri concepiti.

 

Su tutta la vita dell’anima si stende di conseguenza una calma particolare,

un modo di comprendere gli eventi in armonia con le leggi, ma che non ha nulla a che vedere con il fatalismo.

Questa è anche la via che bisogna intraprendere,

se si vuole evolvere gradualmente al livello di certezza l’idea, la convinzione che si ha del karma.

 

• Sull’idea del karma si può discutere, ed è lecito addurre argomenti contrari. L’idea del karma, del resto, non può essere dimostrata teoricamente, si può provarla solo sperimentalmente, ed è l’esperienza a dare il risultato. L’esperienza, se diviene intensa, dà anzitutto gli strumenti per comprendere il karma. Poi, dall’aggregazione dei vari elementi, ci si accorge che si tratta realmente di qualcosa che è insito nelle cose, così come ci si accorge toccando il ferro da stiro che esso è una realtà e non una fantasia.

 

Deve essere, dunque, l’esperienza stessa a dare quella connessione dei fatti della vita

che ci consente di integrare, di incorporare gradualmente il nostro arbitrio, i nostri impulsi volitivi, nel nostro karma.

Quest’opera della nostra vita è complessa, essa rientra tra quelli che sono gli strumenti migliori

per il raggiungimento di un terzo grado della vera autoconoscenza.

 

Grazie a quest’opera apprenderete gradualmente a sentire come si ripercuota la vita precedente in quella attuale.

Questa conoscenza non è così facile e comoda come il rimuginare,

perché occorre prima che essa ritorni a noi dall’ambiente.

Si tratta prima di tutto di uscire da se stessi,

persino ai massimi livelli della conoscenza di sé, che è conoscenza cosmica.

 

Fichte disse: la maggior parte degli uomini preferirebbe ritenersi un pezzo di lava lunare, piuttosto che un io. – A quei livelli si apprende di più a conoscere l’io nella sua esistenza puntuale, a conoscerlo maggiormente come un punto. Si riconosce quest’io come un’immagine puntuale dell’intero cosmo. In questo senso la conoscenza di sé, se si vuole, è conoscenza di Dio, non nel senso inteso dal panteismo, ma nel senso per cui una goccia del mare è della stessa sostanza ed entità di tutto il mare.

 

E come la goccia, in conseguenza della sua consustanzialità,

lascia conoscere l’essenza e la specie di tutto il mare,

così l’uomo è della stessa natura della divinità che egli è in grado di conoscere,

ma a nessuno verrebbe in mente di dichiarare che la goccia è il mare.

 

Noi possiamo conoscere sostanza ed entità del divino,

così come dalla goccia possiamo conoscere sostanza ed entità del mare,

ma nessuno oserà dire di accontentarsi della conoscenza della goccia;

e certo tutti diranno di essere interessati alla conoscenza del mare, e questa si realizza navigando.

 

Voi, dunque, imparate specialmente a conoscere il divino

comprendendo la goccia del divino in voi, nella vostra interiorità,

ma non vi è altro modo di conoscere ciò di cui nella vostra interiorità è presente solo una goccia, o scintilla,

se non approfondendovi massimamente, scevri da ogni egoismo, nei grandiosi mondi soprasensibili.

 

Se vogliamo conoscere noi stessi, dobbiamo uscire completamente da noi stessi

e indagare i mondi soprasensibili nel modo più profondo.

Riguardo al terzo grado, potrà bastare quanto detto sulla reincarnazione e il karma.

Per quanto concerne la suprema conoscenza di sé,

è necessario acquisire la conoscenza dei grandi nessi della nostra Terra,

perché noi siamo una parte della nostra Terra, così come un dito è parte del nostro intero organismo.

Il dito non si abbandona all’illusione di essere un’entità indipendente; se lo si taglia, non è più un dito.

Se potesse andarsene in giro sul vostro organismo, potrebbe abbandonarsi, come l’uomo,

all’illusione di essere un organismo indipendente.

 

L’uomo continuerebbe a ritenersi uomo, anche se lo si innalzasse alcune miglia sopra la Terra.

L’uomo è una componente dell’organismo della Terra, e la Terra è a sua volta una componente del cosmo.

Di queste relazioni possiamo avere visione solo se comprendiamo il fondamento della configurazione cosmica.

Senza una conoscenza del cosmo,

senza una comprensione di come l’io abbia avuto bisogno di tutti gli eventi accaduti in precedenza,

è vana ogni meditazione sul sé.

 

Senza una visione d’insieme, non possiamo pervenire ad una conoscenza, nemmeno a quella del sé-io.

• Studiando l’ambiente circostante secondo il “quando” e il “dove”

arriviamo ad una conoscenza dell’io di tutti i giorni.

• Osservando la linea ereditaria arriviamo a conoscere come l’io si esplichi nel corpo eterico.

• Sperimentando il karma arriviamo a conoscere i modi in cui l’io si estrinseca nel corpo astrale.

• Arriviamo all’ultimo grado della conoscenza, attingendo conoscenze cosmiche;

poiché qui è espanso ciò che nell’io puntuale dell’essere umano è compresso.

Conoscenza del cosmo è conoscenza di sé.

 

• Se si richiamano con esattezza davanti all’anima le descrizioni contenute nel saggio Dalla cronaca dell’Akasha relative all’evoluzione della Terra – in apparenza del tutto estranee all’anima – e considerando come da ultimo tutto ciò abbia portato necessariamente alla configurazione attuale, allora si ha conoscenza di sé mediante conoscenza del cosmo!

 

Così la conoscenza di sé ci conduce sempre più fuori di noi stessi, sempre più nell’impersonale.

• Come l’applicazione del karma alla vita rende l’aura sempre più chiara e luminosa,

• così l’effettiva conoscenza dei nessi cosmici rende l’aura più forte e capace di dare essa stessa origine a liberi impulsi.

Si arriva così alla soluzione della questione della libertà e non libertà.

La libertà è un prodotto dell’evoluzione, e tanto più ci si avvicina ad essa quanto più si avanza nella conoscenza di sé.

 

Questo esercizio della conoscenza di sé conduce poi, nel senso descritto,

a capire giustamente alcuni aspetti della scienza dello spirito,

a sentirsi all’interno della corrente spirituale antroposofica.

 

Nel movimento antroposofìco vi sono i sintomi di quella che si può definire una malattia infantile; è necessario che essi scompaiano, soprattutto una volta che si è capito che queste cose sono state dette come guida all’autoconoscenza.

Si riconoscerà allora sempre meglio il carattere impersonale della conoscenza antroposofica, la quale è stata conseguita da ricercatori che non hanno soltanto trasformato la loro anima in strumento della conoscenza di sé, ma l’hanno anche sviluppata – come ho or ora descritto – pervenendo, così, a descrivere in modo impersonale i mondi spirituali.

 

Il principio da acquisire in primo luogo è quello, antico e nobile, dei sapienti greci:

“Chi vuole attingere la verità, non deve tener conto della propria opinione”.

 

Vi accadrà perciò di ascoltare persone realmente esperte delle vie scientifico-spirituali dire parole come queste: “Io non ho opinioni da dare, io posso offrire descrizioni di esperienze, non principi normativi, né postulati per l’azione, e le descrizioni comunicate devono fluire come insegnamenti nella teoria della scienza dello spirito”.

Il ricercatore della scienza dello spirito deve disabituarsi alle opinioni e ai punti di vista; egli non ne ha, perché tutte le concezioni sono come immagini che dal sé sorgono diverse, e sono tanto diverse quanto lo sono gli uomini, che contemplano il mondo dai più diversi lati.

 

Da un lato vi è l’immagine data da una visione materialistica,

da un altro quella data da una visione spiritualistica o meccanicistica o vitalistica,e così via.

Sono tutte concezioni.

Riconoscerle non solo teoricamente, saper vivere con le concezioni del mondo

in modo che tutte si presentino come immagini di diversi lati, è quella che si chiama tolleranza interiore.

 

Le opinioni non devono combattersi a vicenda.

Se si supererà questo atteggiamento, ne risulterà quell’interiore ed esteriore tolleranza

di cui abbiamo bisogno per il bene futuro dell’umanità.

E inoltre particolarmente importante comprendere

che le idee che fluiscono nella corrente antroposofica mondiale sono un prodotto dell’impersonalità,

quell’impersonalità che condurrà ad eliminare dal movimento antroposofìco

l’autorità, intesa nel suo significato negativo, un’autorità già presente in passato ed esistente ancor oggi.

 

Definiamo noi forse un’autorità il microscopio? È una necessità, un punto di passaggio.

Anche gli uomini devono divenire un punto di passaggio;

è, però, necessario che ci eleviamo all’elemento impersonale,

perché ciò che deve venire, può entrare nel mondo solo attraverso gli uomini.

 

L’espressione “fede nell’autorità” deve scomparire dal dizionario antroposofìco;

è proprio in questo modo che coloro che stanno familiarizzandosi con questa conoscenza

giungono a quella spregiudicatezza che consente loro di procedere

dal corso del mondo personale a quello impersonale.