L’antroposofia e la vita culturale del presente

O.O. 82 – Cultura e antroposofia – 07.04.1922


 

Sommario: L’antroposofia e la vita culturale del presente. L’impotenza del pensare autocosciente. Si può comprendere ciò che l’indagatore dello spirito prende dal mondo soprasensibile grazie a immaginazione, ispirazione e intuizione.

 

L‘antroposofia non va assolutamente intesa come se in qualche modo intendesse opporsi allo spirito scientifico del nostro tempo. Quello spirito ha introdotto nella ricerca scientifica enorme coscienziosità e precisione di metodo. Direi che per lo spirito scientifico il primo problema è diventato: come si può raggiungere sicurezza e certezza nella ricerca della verità?

 

Lo spirito scientifico del presente tende alla sicurezza e alla certezza nella ricerca della verità. Moltissimo è stato fatto non soltanto per la conoscenza, ma anche per la vita pratica, soprattutto in campo tecnico nei nostri tempi. Se tuttavia ci chiediamo se lo spirito scientifico soddisfa appunto l’incalzante senso giovanile, se crescono i giovani di oggi nello spirito scientifico in modo da sentire che è qualcosa che venga incontro alla loro piena umanità, non possiamo affermare che è così. Affermarlo vorrebbe dire abbandonarsi alle più vuote illusioni, oppure voler stendere una nebbia davanti all’occhio dello spirito. Lo spirito scientifico è infatti in singolare conflitto con gli altri settori della vita.

 

Vediamo anzitutto quello dell’arte. Mentre lo spirito scientifico si formava con i suoi metodi esatti e col suo pensare educato rigidamente, gli artisti e coloro che intendevano seguire la vita artistica, che volevano goderne, sentivano che in realtà si dovevano tenere lontane le manifestazioni artistiche dallo spirito scientifico. Dappertutto si osserva che ciò che forma l’arte deriva da sorgenti umane del tutto differenti da quelle che la scienza ricerca sulla base di certo modo intellettualistico di osservazione.

 

Se poi qualcuno cerca di trasportare lo spirito scientifico nella creazione artistica, si ha la sensazione che la deteriori, che lo spirito scientifico nulla abbia a che vedere con l’arte, che la scienza ricerchi la verità in un modo che non può essere trasposto nel campo dell’arte.

 

Lo spirito greco non conosceva tale netta separazione fra ciò che da un lato si manifesta all’uomo attraverso il senso artistico, e dall’altro attraverso lo spirito scientifico; non conosceva tale separazione il mondo greco nel cui ambito si formò un brillante spirito scientifico e anche un’arte ideale.

 

Ancora in tempi più recenti neppure Goethe, che aveva molto approfondito la concezione greca del mondo, voleva una tale separazione. Ad esempio egli non voleva proprio parlare di isolate idee di verità, bellezza, religione o devozione. Voleva conoscere una sola idea, e nella religione, nell’arte e nella scienza voleva solo vedere manifestazioni diverse di un’unica verità spirituale: parlava dell’arte come di una manifestazione di nascoste leggi di natura che senza l’arte mai sarebbero state note.

 

Per Goethe la scienza era appunto qualcosa che egli poneva da un lato e che aveva forme di espressione diverse dall’arte, mentre dall’altro questa aveva differenti forme espressive. Anche nel senso di Goethe l’uomo riesce ad arrivare alla piena verità solo facendo agire insieme le due cose.

 

Oggi si crede che lo spirito scientifico, che muove con precisione di deduzione in deduzione, da osservazione a osservazione, da esperimento a esperimento, debba minare la coerenza della fantasia artistica; si crede che non vi sia alcuna giustificazione a che l’arte possa raggiungere qualcosa della verità del mondo; in altre parole si stima che vi debba essere una netta separazione fra l’arte e la scienza.

 

Non dobbiamo forse affermare che la scienza tende alla certezza, a un metodo coscienzioso, che vuole soprattutto avere sicurezze, se così posso esprimermi, che essa tende a porre i fenomeni in modo da essere riconosciuti e fissati da ogni anima umana priva di preconcetti?

 

Mentre però si persegue tale grande sicurezza per ciò che si ricerca della natura e dell’uomo, non si ha la fiducia che possa anche avere in qualche modo importanza quanto dà soddisfazione all’uomo nel suo complesso: la creazione e il godimento artistico.

 

Si costruisce una ben fondata scienza, ma non si crede che essa riesca a interloquire quando si tratti di bisogni più umani, o almeno di interiori bisogni umani, di quanto non lo siano quelli soddisfatti dalla scienza, e cioè i bisogni artistici. Certo si riesce con la logica a operare la netta separazione fra scienza e arte. Posso seguire chi dica: è solo una fraseologia, un modo di dire se qualcuno con tono sprezzante parla della separazione fra scienza e arte; essa deve comunque esistere. Come ho detto riesco a seguirlo.

 

Tuttavia nelle profondità dell’anima umana vi è qualcosa che tende all’unità,

all’armonia delle singole attività dell’anima.

Mentre dunque la logica compie la separazione fra scienza e arte,

qualcosa in noi richiede un pareggio, un’armonizzazione

fra le verità scientifiche da un lato e le verità artistiche dall’altro.

 

Qualcosa di molto profondo nella nostra anima richiede che le verità estratte con la scienza dalla natura e dall’uomo abbiano anche la forza di far sorgere in noi iniziative artistiche senza che scadano in sciocche allegorie o in astratti simbolismi.

Nelle profondità dell’anima vi è senz’altro la necessità di non lasciare senza vita il sapere basato sulla scienza, ma di vivificarlo in modo che dalla conoscenza scientifica possa veramente fluire qualcosa nell’arte; Goethe era cosciente che per lui i più maturi frutti della sua creazione artistica fluivano dalla sua concezione della scienza.

 

Il grande problema, non formulato con precisione ma sentito profondamente, ci viene incontro dalle attese del nostro tempo: come possiamo attribuire alla scienza, che soprattutto ricerca la certezza, anche la fiducia che attraverso di essa si possa entrare nelle sfere della verità che ci vengono incontro nelle figure artistiche, nelle produzioni artistiche? È questo uno dei più profondi problemi dell’umanità attuale.

Si potrebbe dibattere e discutere a lungo se sia necessaria una netta separazione fra il logico metodo scientifico di osservazione e la creazione artistica, la forma artistica.

 

Nel regno della realtà presupponiamo che le cose siano tali che quando si sale dal campo dei regni inferiori della natura all’uomo, volendo applicare anche a lui le leggi della natura, quali le conosciamo nel senso della sicura scienza odierna, non si arrivi appunto a conoscere l’uomo. Potrebbe persino essere che la natura stessa creasse artisticamente, che nei diversi regni della natura non esistesse solo un lavorio nel senso delle attuali leggi naturali e che ciò avvenisse soprattutto nel caso del regno umano;

la natura stessa, come anche Goethe pensava, sarebbe dunque una grande artista;

quando dunque ci mettiamo all’opera con atteggiamento critico e ci diciamo di non dover portare fantasia nella scienza, potrebbe semplicemente essere che procedendo secondo logica noi limitassimo appunto la nostra possibilità di conoscenza, la uccidessimo, perché la natura è artistica e si rivela soltanto a riflessioni artistiche.

 

È ovvio che esponendo il pensiero in forma ipotetica, come ho fatto ora, si possono fare molte obiezioni. Già chi sia abbastanza psicologo da guardare nelle profondità dell’anima dell’uomo di oggi, sa che vi è un senso di timore nelle anime di fronte alle domande: se lavoriamo secondo la scienza non dovremmo forse avere nell’atteggiamento animico qualcosa che opera in modo artistico? tanto più se altrimenti non penetriamo nella natura? la natura non va forse compresa artisticamente? in modo speciale se la natura umana vuol essere capita artisticamente già nei suoi organi fisici, che cosa possiamo fare, pur avendo una ben rigida scienza, se la natura e il mondo richiedono da noi un modo di conoscere strutturato artisticamente?

 

So benissimo che proprio gli scienziati di oggi stimano assurdo il pensiero espresso, ma anche se per la coscienza scientifica è stimato un’assurdità, so tuttavia che le anime e i cuori umani non lo considerano tale, che oscuramente avvertono la sua verità e che vorrebbero guardarlo in, piena luce.

Le cose non sono diverse se ci rivolgiamo a un altro campo, a quello dell’etica, della morale, al campo dell’agire sociale e del lavoro e a quello dell’approfondimento religioso.

 

Tutto quanto cade in questi tre campi già da molto tempo venne per così dire radiato dalla scienza, proprio dal tempo in cui lo spirito scientifico afferrò l’umanità moderna in modo tanto determinante. Per quanto riguarda la sociologia e l’azione sociale, nei tempi moderni si cercò in forma anche popolare, basta pensare al marxismo, di pensare in modo sociale e sociologico in base allo spirito scientifico e di dare impulsi anche alla vita sociale, sempre movendo dalla scienza. I risultati non mostrano proprio che si sia sulla giusta via. Ciò che oggi infatti occupa il mondo in merito al problema sociale e che attraverso ogni possibile illusione dovrebbe essere soddisfatto grazie allo spirito scientifico dell’epoca moderna, proprio ciò porta alle spaventose disarmonie e a quegli spaventosi elementi distruttivi che oggi operano nella vita sociale dell’umanità e dai quali si può intuire che in merito è solo possibile un risanamento, ove possa realizzarsi una svolta spirituale in qualche direzione.

 

Comunque non è ipotizzabile un risanamento in campo sociale

senza arrivare a una sana soluzione in campo morale e religioso.

Di conseguenza proprio in campo sociale si dovrà anzitutto guardare alle basi morali e religiose della vita umana.

 

Troviamo però, espresso con ancora più chiarezza che per l’esperienza artistica e proprio nelle più recenti pubblicazioni, che la scienza si pone con le sue certezze e la sua coscienziosità, ma che proprio le manca la fiducia per inserire lo spirito scientifico nell’atteggiamento morale e nella coscienza religiosa.

Più forte che mai viene oggi sottolineato dai pensatori in apparenza più progrediti che la scienza deve rimanere al suo posto. Deve rimanere esclusa da tutti gli impulsi cui gli uomini tendono per l’azione morale e per la religiosità. In queste non vi sarebbe scienza, ma fede.

 

Come vi è una netta separazione fra scienza e arte,

ve n’è una altrettanto netta fra scienza e morale, fra scienza e religiosità.

• Si vorrebbe fare appello a una speciale capacità,

a uno speciale impulso dell’anima umana per la morale, per la vita religiosa.

• Si vorrebbe separare nettamente la verità della fede dalla verità scientifica,

come si vuole separare da questa anche la verità artistica.

 

Tuttavia ciò non ha impedito che nel presente lo spirito scientifico si sia diffuso ovunque e abbia assunto la forma più popolare, che oggi di spirito scientifico non siano compenetrati solo gli scienziati, ma che sia diffuso nelle vaste masse dell’odierna umanità civile.

 

Oggi si può essere devotamente religiosi nel senso antico e tradizionale,

ma grazie alla letteratura, ai giornali, ai libri e a tutta la vita pubblica,

si è del tutto immersi nel moderno spirito scientifico.

•  Di conseguenza non si può evitare, per quanto forte sia l’esigenza contraria,

di separare la fede dalla conoscenza scientifica,

che questa eserciti in tutti i campi la sua critica sulla fede,

che già oggi operi e che continui a operare anche in avvenire,

distruggendo e annullando la fede in numerose anime umane,

se in questo campo non intervenga una completa svolta in senso spirituale.

 

La fede e il sapere, che oggi si vogliono dividere nettamente, di certo non derivano da sorgenti diverse.

Per riconoscerlo occorre tuttavia risalire più indietro che non per l’arte per la quale basta riandare ai Greci per riconoscere che il Greco vedeva una unità nella verità artistica e in quella scientifica. Occorre risalire a tempi molto più antichi dell’evoluzione umana.

 

Si troveranno allora tempi in cui semplicemente la religione era tutto, in cui per così dire l’uomo affondava con le sue forze dell’anima tanto a fondo negli abissi dell’universo che per lui la vita religiosa sgorgava da quelle profondità.

Mentre dunque sorgeva in lui la vita religiosa, davanti alla sua anima si presentava qualcosa di fronte a cui egli poteva sì diventare religioso e devoto, a cui offrire sacrifici, ma che agiva su di lui mostrandosi nella bellezza, che in pari tempo godeva artisticamente e che, quando il pensare e la conoscenza si fossero approfonditi, gli presentavano la verità del mondo.

Scienza, arte e religione scaturivano da un’unica radice.

 

Non è la sola cosa da considerare. È senz’altro vero che più si risale ai tempi più antichi dell’evoluzione dell’umanità, si trova che scienza, arte e religione sono una cosa sola, che derivano da una sorgente comune, che più avanti la vita religiosa divenne autonoma (era già così in Grecia e a Roma); tuttavia la vita artistica rimase unita con quella scientifica.

Solo con l’epoca moderna troviamo che si separano quei tre rami dell’attività umana.

 

Oggi tendono di nuovo con grande forza nelle profondità inconsce e subconsce dell’essere umano a una unità, a una armonizzazione. Perché?

Certo oggi è solo possibile ammirare la scienza, e come ho detto sarebbe sciocca ogni opposizione contro le verità della scienza. Malgrado la sua grandezza e i suoi trionfi, va pur detto che la scienza è creativa nel campo del pensiero e in quello dell’osservazione, oppure dell’osservazione regolata, degli esperimenti.

 

La scienza è stata creativa solo per quanto si riferisce a ciò che è possibile raggiungere dallo spirito umano

con il giudizio logico attraverso l’osservazione.

In questi settori la scienza fornì negli ultimi secoli cose grandiose e fondamentali.

 

Se osserviamo gli altri settori, quello artistico e quello della vita morale e religiosa, dobbiamo dirci (ed è qualcosa che oggi pochi dicono, ma che in sostanza avverte tutta l’umanità civile nelle profondità della vita dell’anima) che il senso artistico, lo spirito artistico oggi in effetti non è creativo. Spesso ci immaginiamo di esserlo, quando riprendiamo, copiamo, ma la nostra epoca non produce stili o motivi in campo artistico.

 

Creativi erano tempi più antichi, ad esempio quello greco, che crearono le loro costruzioni dalla stessa base animica dalla quale anche i poeti producevano le loro opere. Tutto nasceva a tal punto dalla stessa base che potè sorgere l’idea che Omero ed Esiodo, in quanto artisti, avessero dati ai Greci i loro dèi. Noi ci nutriamo di tradizioni artistiche; costruiamo in diversi stili: gotico, classico, barocco e così via, ma non costruiamo secondo il presente. Anche in altri campi non siamo in condizione di essere ben presenti in senso artistico. Occorre esporre queste cose in modo piuttosto radicale, volendo raggiungere la realtà che comunque è presente nelle forze più profonde del nostro tempo.

 

In campo religioso e morale le tradizioni sono ancora più antiche, e in questo campo il nostro tempo non è creativo; ne derivano il conservatorismo delle religioni, l’impulso a mantenere quel che è antico e la paura di ogni novità che in qualche modo si presenti in campo religioso.

 

• Abbiamo dai tempi antichi gli stili artistici  • e da tempi ancora più antichi i contenuti religiosi.

Oggi i giovani, crescendo, hanno in loro quasi un mistero,

che oggi non approfondisco, un mistero che nasce con loro,

l’aspirazione a qualcosa di creativo in tutti i campi della vita; lo trovano in campo scientifico, ma non basta loro.

Aspirano a qualcosa di profondamente creativo anche in campo artistico, morale e religioso.

Oggi di conseguenza i giovani non comprendono gli anziani, e questi i giovani; vi è quindi un abisso fra le generazioni.

 

Tutto ciò caratterizza in sostanza il nostro tempo, ma non mostra ancora nell’uomo stesso il profondo conflitto interiore che in effetti ha portato a quanto ho descritto ora.

Per scoprire tale profondo conflitto nella natura umana dobbiamo osservare la sua caratteristica, quando essa si andò formando appunto nell’epoca scientifica, vale a dire dalla metà del secolo quindicesimo.

 

Se osserviamo oggettivamente l’uomo di oggi,

vediamo nella sua natura due poli contrapposti che in sostanza dominano tutta la nostra vita culturale,

ma non soddisfano le nostre necessità umane.

• Da un lato uno dei due poli è la forte, interiore e intensa autocoscienza

che l’uomo moderno è andato formando negli ultimi secoli,

• e dall’altro il modo particolare in cui egli è giunto a capire il mondo, a seguito delle sue moderne capacità.

 

Vediamo più da vicino queste contraddizioni polari. Quando parlo di autocoscienza, di coscienza dell’io dell’uomo moderno, non intendo assolutamente ciò che per così dire si forma nella stanza isolata di un filosofo. Sulla base dell’autocoscienza umana, vale a dire dell’autoconsiderazione dell’idea, del concetto, Hegel sviluppò una grandiosa concezione del mondo. Nella sua filosofia vediamo appunto una genialissima elaborazione di ciò che l’autocoscienza arriva a sperimentare in sé, quando appunto si accorga della completa dimensione del proprio sé.

 

Dall’altro lato abbiamo gli avversari di Hegel che, almeno in quanto filosofi, partono anch’essi dall’autocoscienza. Disprezzano gli hegeliani, disprezzano la vasta formazione ideale e spirituale raggiunta da Hegel sulla base della coscienza umana. Intendono rimanere fermi a un punto al quale sempre si riferiscono nella loro autocoscienza che però non si allarga come in Hegel; muovono tuttavia dall’autocoscienza.

 

Dicendo questo, anche se si scendesse in un campo più concreto, scientifico e filosofico, da tale comprensione filosofica dell’autocoscienza non si arriverebbe a dire molto in merito alla natura del nostro tempo, per la ragione che mi divenne chiarissima da un colloquio che ebbi con Eduard von Hartmann. Si diceva a che cosa si può arrivare gnoseologicamente attraverso una critica, un’analisi dell’autocoscienza, e Hartmann osservò che su questi argomenti non si dovrebbero mai pubblicare libri, ma solo ciclostilati in pochi esemplari, forse una sessantina, perché in Germania, su sessanta milioni di abitanti, non sono di più le persone che hanno interesse per queste cose.

 

È anche vero, quando si tratti di argomenti prettamente filosofici. Non ci si potrà quindi attendere che io intenda qui importunare raccontando come si comporti ai nostri giorni la coscienza filosofica tedesca, appunto in merito all’autocoscienza. Dall’ultimo secolo questa comunque non si mostra soltanto nei filosofi dediti alla ricerca, ma in tutti i campi della vita, e in effetti io questo intendo.

 

Come l’uomo di oggi riflette su se stesso, come sente in se stesso il proprio essere e il suo io,

semplicemente non pensava e non era cosciente di sé prima del secolo quindicesimo;

tutto ciò non viene certo osservato dall’indagine storica ufficiale, ma una ricerca storica interiore lo sa.

• Prima tutto era più oscuro, e non si diceva “io” con la stessa intensità

con la quale lo si pronuncia da allora nell’umanità civile.

• È cioè intervenuta una generale intensificazione dell’esperienza interiore,

ed essa si mostra nel campo della scienza perché si respinge del tutto la fede nell’autorità, e con ragione

si accetta solo ciò che è giustificabile di fronte alla propria autocoscienza.

 

Si mostra in campo artistico perché si intende raffigurare, dare forma nell’opera d’arte a quanto può essere sperimentato nella propria autocoscienza più profonda.

Si mostra in campo religioso perché si può sperimentare appieno l’elemento divino solo immergendosi nel proprio intimo sé che si sperimenta con forza, che si vuol sperimentare con forza nel divino, se in genere debba avere un valore e un significato.

 

Come già mostrai negli anni Novanta del secolo scorso nella mia Filosofia della libertà, in campo morale l’uomo ha impulsi, ha motivi etici, ha regole etiche di vita che derivano dalle radici della sua forte autocoscienza. Anche nella vita sociale abbiamo peculiari fenomeni e dappertutto si presentano esigenze sociali, tanto da far dire: abbiamo bisogno di una struttura sociale della vita; però in sostanza

il sentire umano è ben lontano dal sentire sociale,

e proprio perché quest’ultimo è carente, richiediamo una struttura sociale per la vita.

 

Vorremmo che ci giungesse da fuori quel che in effetti ci manca interiormente.

Diciamo di dover diventare esseri sociali perché

nell’epoca moderna, proprio mentre diventava grande lo spirito scientifico,

in sostanza siamo diventati antisociali nel nostro io,

e oggi cerchiamo un pareggio tra il forte io e le esigenze sociali.

 

In tutti i campi ci si presenta quindi l’autocoscienza umana.

Chi oggi abbia studiato il problema sociale tenendo conto del lavoro umano,

chi abbia cuore e intendimento per ciò che è diventato il problema sociale

sotto l’influenza della tecnica moderna, che dappertutto ha allontanato il lavoratore

dal legame diretto con un lavoro che dia soddisfazione, per porlo invece a una macchina indifferente,

chi lo abbia fatto sa che in questo campo la volontà sociale non può derivare da una risvegliata autocoscienza,

perché essa è posta di fronte a qualcosa, alla macchina, che meno che mai può soddisfare l’autocoscienza stessa.

 

Da un lato abbiamo dunque l’autocoscienza dell’uomo moderno, ma come potè essa arrivare alla forza che ora ha? grazie a che l’umanità moderna si è risvegliata a un’autocoscienza tanto forte?

 

Si può arrivare all’autocoscienza solo con uno speciale sviluppo della vita del pensiero, della vita delle idee.

In periodi precedenti il pensiero non aveva la funzione che ha nell’epoca moderna.

L’autocoscienza si rafforzò proprio quando gli uomini

furono capaci di pensare in modo sempre più astratto, più intellettualistico.

L’autocoscienza divenne forte proprio grazie alla forza del pensiero.

Così l’uomo è pervenuto a formare il pensare fino a una massima cima,

mentre in precedenza viveva più nel sentire, nell’osservare, in immaginazioni,

ispirazioni e intuizioni, anche se esse erano sognanti e inconsce.

 

L’uomo ha formato il pensare e con esso gli fu possibile conseguire nel pensiero la sua forte autocoscienza.

L’uomo è così pervenuto ad essere unilaterale nella nostra vita culturale.

Il pensiero allontana dalla realtà.

 

Chi non ha la sensazione che mai il pensiero possa conseguire la piena realtà,

che il pensiero rimanga solo un’immagine della realtà?

L’umanità moderna ha raggiunto la sua forte autocoscienza con l’immagine della realtà.

 

Avviene quindi, anche se gli uomini non ne hanno piena coscienza,

anche se non arrivano ad esprimerlo, che essi lo sentono, e i giovani di oggi

sentono con speciale intensità che noi abbiamo pensieri lontani dalla realtà.

L’uomo è di fronte alla realtà con la sua autocoscienza che è stata afferrata grazie al pensiero,

che non si avvicina alla vita, rimane immagine, è impotente di fronte alla vita.

 

Siamo in noi stessi nella nostra autocoscienza, poggiamo interiormente in noi quanto più forte possiamo,

ma siamo impotenti, non scendiamo con i pensieri nella realtà.

• Uno dei poli della nostra moderna vita culturale è l’impotenza del pensare autocosciente.

 

Il sentimento dell’impotenza del proprio io attraversa l’umanità moderna

e la rende tale da accostarsi alla vita senza gioia, senza fervore, addirittura senza comprensione,

perché sempre l’io molto sviluppato, la forte autocoscienza

devono sentirsi impotenti di fronte alla vita nella quale si deve lavorare.

Questo è uno dei poli.

 

L’altro polo si presenta all’umanità moderna perché,

mentre prima si comprendevano le cose movendo dalle profondità della vita animica

(o come oggi si preferisce dire: si credeva di aver capito qualcosa della realtà)

oggi si ha solo fiducia nell’osservazione del mondo esterno che non si intromette per nulla con l’interiorità,

si ha fiducia nell’osservazione oggettiva del mondo esterno seguita dall’esperimento.

 

La propria interiorità deve tacere del tutto quando si fanno esperimenti; deve parlare solo il mondo esterno.

Quale ne è stata la conseguenza?

È stata lo studio del mondo esterno in fedele osservazione, in esatti esperimenti,

ma in sostanza con questa ricerca non si va oltre il meccanismo.

 

Per l’astronomia l’universo è divenuto un meccanismo, e tale è per la geologia la formazione della terra. È diventato un meccanismo persino l’organismo umano, e i moderni tentativi neovitalistici sono condotti con mezzi inadeguati per cercare di conseguire in parte quel che non si raggiunge con i metodi scientifici che sono riconosciuti e che tuttavia portano solo a comprendere con l’esperimento e con l’osservazione il meccanismo, la macchina, per dirlo in modo più radicale.

 

Quando arriviamo a comprendere la macchina, poiché in essa intessiamo soltanto leggi fisiche e meccaniche, crediamo di capire quel che ci sta davanti; in un certo senso lo comprendiamo senz’altro, comprendiamo come le singole parti interagiscono fra loro.

Poiché tutto ciò ci è stato inculcato grazie al moderno indirizzo culturale, ci sentiamo soddisfatti poiché capiamo la macchina, perché comprendiamo come una macchina l’universo, il cosmo, con i suoi ingranaggi.

Crediamo di essere soddisfatti, ma nell’intimo non lo siamo.

 

Rimane indietro qualcosa che, rispetto alla nostra piena umanità, cozza appunto contro la comprensione della macchina. Capire le macchine è ciò che in effetti ha contribuito alla grandezza e ai trionfi del moderno spirito scientifico. Perché?

La macchina diviene per noi trasparente, non per gli occhi, ma per l’intelletto: noi la comprendiamo. Se guardiamo nell’organismo, le cose rimangono in un primo tempo invece oscure per l’osservazione corrente, mentre nella macchina tutto è trasparente.

 

Dobbiamo tuttavia chiederci: comprendiamo forse meglio il diamante perché è trasparente? In effetti non è vero che per noi diventi più comprensibile ciò che è trasparente. Alla lunga sentiamo infatti quel che agisce nella macchina, quando ce la poniamo di fronte, come qualcosa di sempre più estraneo al nostro essere. È questo il sentimento inconscio che si fa strada in noi: qui vi è una macchina che diventa trasparente per l’intelletto, ma essa nulla ha che tu possa trovare in te stesso; ti è del tutto estranea.

Così ci sentiamo espulsi dal mondo che comprendiamo, che comprendiamo nella macchina. Ci sentiamo respinti dall’altro polo della nostra vita spirituale.

 

• Mentre un polo non penetra nella realtà, è impotente di fronte alla realtà, la realtà che comprendiamo ci respinge.

Questo è il profondo conflitto interiore dell’uomo moderno:

ha costruito la sua autocoscienza con il pensare, ma con esso non riesce a penetrare nel mondo;

dal mondo ha tratto la macchina, ma anche se la comprende essa lo respinge perché nulla ha in comune con lui.

 

Il pensare ci rende estranei alla realtà; la realtà dell’osservazione ci respinge.

Si possono descrivere in tanti modi i conflitti della vita spirituale moderna,

ma le sue due radici, i suoi due poli sono

• l’impotenza del pensare autocosciente col suo carattere di immagine

che non permette di penetrare nella piena realtà,

• e i pensati contenuti meccanicistici dell’osservazione e dell’esperimento

che respingono come estraneo il nostro essere.

 

In apparenza si parla di queste cose solo nel campo della scienza,

ma in effetti esse compenetrano tutta la nostra vita moderna.

• Da un lato abbiamo dunque la vita culturale moderna con i due poli appunto descritti.

• Dall’altro vi è l’antroposofia che cerca di non fermarsi all’autocoscienza pensante,

ma procede in interiore evoluzione con gli esercizi dell’anima dei quali in seguito parlerò

e che procedono da ciò che in modo naturale abbiamo nel pensare.

 

Con gli esercizi si passa dal pensare corrente a un pensare per immagini, immaginativo,

a un pensare che poi diventa tanto forte da essere veggenza,

altrettanto forte come lo sono le impressioni dei sensi.

 

Oggi accenno soltanto a queste cose, e nei prossimi giorni descriverò come, educando il pensiero,

in effetti si arrivi alla chiaroveggenza di un mondo soprasensibile.

 

Quando grazie all’educazione del pensare si è progrediti fino all’immaginazione,

con essa, che altro non è se non un pensare progredito,

non si è più soli nell’autocoscienza divenuta estranea alla realtà.

•  Si è allora in una nuova realtà spirituale, in una realtà nella quale si era inseriti

prima di discendere dal mondo spirituale-animico nell’incarnazione fisica.

•  Si impara infatti a conoscere la propria vita prenatale

educando veramente in modo sistematico ciò che nell’autocoscienza pensante

porta appunto all’isolamento di fronte al mondo.

 

Proprio il pensare pervenuto all’immaginazione porta a una nuova realtà

la quale, come nostro sé, domina la nostra corporeità.

Il nostro io si estende al di là della nascita, meglio della concezione, e noi entriamo in un mondo spirituale.

 

Se d’altro canto, in base allo spirito della scientificità moderna, si considera proprio l’osservazione e la sperimentazione, si rileva che appunto nell’esperimento il pensare tace del tutto, ma molti non ne sono consci. Chi veramente segua il processo sperimentale e l’indagine scientifica ad esso legata troverà che il pensare si limita a registrare, che in effetti annota statisticamente i casi e stabilisce delle leggi, ma non si immerge nella realtà.

Quella che nell’esperimento si unisce con la realtà è la volontà umana.

 

Una psicologia più profonda lo dovrà sempre più riconoscere. La ricerca antroposofica opera in modo che come da un lato perfeziona il pensare fino all’immaginazione, dall’altro perfeziona la volontà verso l’ispirazione e l’intuizione. Come ho già detto, nei prossimi giorni entrerò in maggiori particolari. Oggi vorrei solo accennare al problema.

Quando si arriva a rafforzare la propria volontà, che altrimenti rimane oscura come lo è lo stato di sonno per la coscienza ordinaria, a rafforzarla come il pensare si perfeziona nell’immaginazione, si perviene a rendere trasparente il proprio organismo, la propria corporeità, naturalmente non in senso fisico, ma spirituale-animico.

 

Ciò significa che si arriva a sviluppare per il proprio essere quel che prima si sviluppava per il mondo esterno, per il meccanismo, per la macchina. Il proprio essere si mostra tuttavia in un modo del tutto diverso. Ora non veniamo più respinti, ma comprendiamo che cosa è fluito nel nostro essere uomini da tutto il cosmo, e con la stessa trasparenza con la quale comprendiamo solo la macchina.

 

Noi stessi ci comprendiamo e non siamo più respinti. Afferriamo noi stessi, e anzitutto afferriamo in immagine che cosa è il momento della morte. Impariamo a conoscere l’eternità dell’anima umana dall’altro lato. Grazie al rafforzamento della nostra volontà impariamo come il corpo diventi trasparente, e comprendiamo immaginativamente come avvenga il passaggio attraverso la porta della morte, come usciamo dal corpo per penetrare in un mondo spirituale.

 

Perfezionando il pensare conosciamo la vita prenatale.

Coltivando ed educando la volontà  impariamo a conoscere la vita dopo la morte, quel che vi è dopo la morte.

• Ci conosciamo in una realtà e ci inseriamo in essa, non rimaniamo isolati nel nostro sé.

• Conosciamo un pensare, un pensare evoluto, che penetra nella vita, nella vita spirituale.

Impariamo a osservare qualcosa, anzitutto in noi stessi e poi nel mondo,

che non ci respinge, ma che ci unisce col pensare evoluto.

 

Superiamo l’abisso che vi è fra i due poli: il pensare autocosciente e l’osservazione meccanicistica.

Con l’indagine antroposofica acquisiamo un pensare che non è impotente di fronte alla realtà,

ma che si immerge in essa; conosciamo una realtà che raggiunge anche l’interiore vita animica

e la volontà evoluta che da parte sua raggiunge di nuovo il pensare.

 

• Ampliamo il pensare affinché possa immergersi nella realtà;

• ampliamo di molto il volere affinché esso possa raggiungere il pensare.

Con la vita spirituale afferriamo così una piena realtà nella quale siamo noi stessi inseriti.

Tutto ciò ci si mostra in tre gradini della conoscenza.

 

• Ci si mostra anzitutto nella conoscenza immaginativa grazie alla quale il pensare viene intensificato fino alle immagini, viene rafforzato interiormente in modo da poter vedere in immagini il mondo spirituale soprasensibile.

• Viene poi la conoscenza ispirativa. Si trova detto qualcosa di più nel mio libro L’iniziazione e ne dirò ancora qualcosa nei prossimi giorni. Con la conoscenza ispirativa il mondo spirituale entra nella nostra anima.

• Viene poi la conoscenza intuitiva con la quale noi stessi ci inseriamo fra le individualità spirituali.

 

Tuttavia, anche senza essere indagatori dello spirito,

semplicemente col sano intelletto umano, si può comprendere

ciò che l’indagatore dello spirito prende dal mondo soprasensibile

grazie a immaginazione, ispirazione e intuizione.

Facendo proprie queste verità, ad esempio le verità che si conseguono con la conoscenza immaginativa,

si arricchisce la propria interiore vita animica. Come lo si ottiene?

 

Con la nostra vita scientifica, con lo spirito scientifico, giustamente descritti tanto grandiosi, viviamo in effetti in un atteggiamento intellettualistico dell’anima che è per noi adeguato solo quando, dopo i vent’anni, diventiamo davvero adulti. Guardiamo ora al periodo dell’età umana che direttamente lo precede, diciamo al periodo fra i quattordici e i venti o ventun anni.

 

Chi abbia davvero osservato queste cose, e abbia sviluppato in sé una profonda psicologia, sa che in questo periodo viviamo una vita nella quale dall’interiorità salgono intense esperienze dell’anima. Non sono pensieri astratti, ma ideali giovanili interiormente vivi, con un’intensità interiore e una grande forza, sperimentate non soltanto come pallidi e stanchi pensieri.

In quel periodo il giovane è sotto l’impressione di un’interiore impulsività.

 

Che cosa è attivo in quel tempo? Ciò che è attivo vive in effetti nel giovane in una forma quasi sognante. In quell’età non lo porta a coscienza. Né lo può essere con la scienza corrente. Essa non sonderà mai che cosa avviene nell’anima umana, e neppure nel corpo, nel periodo fra i quattordici e i ventun anni. Lo sa soltanto la conoscenza immaginativa e lo porta a coscienza.

 

Quando siamo giovani lavora in noi in modo subconscio

ciò che può manifestarsi cosciente solo con la conoscenza immaginativa.

Il giovane che abbia superato i quattordici anni (e chi conosce la pedagogia lo sa)

aspira a una conoscenza che è immaginativa, perché soltanto così arriva a capirsi.

Altrimenti deve attendere di aver superato i vent’anni,

quando cioè entra a pieno titolo in lui la vita intellettualistica.

Allora però perviene soltanto a una coscienza pensante con la quale si sente isolato.

 

Se così mi posso esprimere, si annoia fino a quel momento della vita umana.

Aspira a che gli adulti (siano insegnanti, educatori o guide) gli manifestino qualcosa

che tuttavia essi sarebbero in grado di dargli

se avessero una conoscenza immaginativa; solo allora gli potrebbero dire chi egli è.

 

Fra il cambio dei denti e la maturità sessuale viviamo una interiore vita corporeo-animico-spirituale tale per cui se ne può solo comprendere la realtà, quel che avviene inconsciamente, con la conoscenza ispirativa.

L’esteriore conoscenza intellettualistica che fa esperimenti non è in grado di sapere che cosa in effetti venga elaborato negli anni della fanciullezza nei quali tutto prende forma secondo impulsi artistici e non secondo leggi di natura. In noi lavorano allora ispirazioni cosmiche. La generazione degli adulti potrà dire più o meno ai ragazzi fra i sette e i quattordici anni a che cosa essi aspirino, a che cosa tendano i loro sentimenti e la loro volontà, solo se gli adulti stessi sapranno della conoscenza ispirativa.

 

Potremo parlare con i ragazzi per insegnare e per educare

solo sapendo qualcosa delle conoscenze cosmiche ispirative.

• Meno che mai con i bambini più piccoli:

«Se non diventate come i bambini non entrerete nel regno dei cieli».

Questa del Cristo è una parola molto profonda.

 

In questo periodo della vita, dalla primissima infanzia fino al cambiamento dei denti, il bambino vive in modo che solo con la conoscenza intuitiva si riesce a capire l’inserirsi della sua parte animico-spirituale in quella corporeo-fisica, il rafforzarsi, il formarsi plastico del corpo movendo dalla parte animica.

Di conseguenza i bambini ci comprenderanno istintivamente col sentimento, e saremo in grado di influenzarli in modo giusto, soltanto se avremo ricevuto verità religiose legate a una formazione della conoscenza intuitiva.

 

Così i giovani del nostro attuale periodo culturale non comprendono gli adulti, perché in sostanza abbiamo perso i giovani. Non li perderemmo invece se in periodi successivi e più maturi, grazie alle conoscenze acquisite con immaginazione, ispirazione e intuizione, potessimo ricordare quel che avevamo sperimentato negli anni dell’infanzia e della giovinezza.

 

Con quelle conoscenze, da insegnanti, da educatori e da guide dell’umanità possiamo parlare in modo che i bambini ci capiscano d’istinto e col sentimento, e i giovani imparino a comprenderci. Solo in questo modo, e non altrimenti, può essere colmato l’abisso fra i giovani e gli adulti. Se non esisterà la volontà di colmare o di superare l’abisso in questo modo, il nostro tempo mostrerà in misura sempre maggiore ciò che ora già appare, che cioè i giovani e gli adulti non si comprendono fra loro.

 

La conseguenza ne è che gli uomini in generale non si comprendono,

e una vita sociale diviene sempre più impossibile.

• Soltanto inserendo una conoscenza adeguata allo spirito

(se posso servirmi di un’espressione goethiana) nel nostro spirito scientifico,

allargandolo appunto a una conoscenza adeguata allo spirito,

solo così l’uomo arriverà a comprendersi appieno

e a non sentirsi più tanto impotente a penetrare nella realtà, riuscirà a osservarla senza esserne rifiutato.

 

Soltanto così riuscirà a portare a un vivente equilibrio i due poli che si fronteggiano estranei nell’uomo moderno:

il polo del pensare e quello della realtà.

Così l’antroposofia, anche se non è sorta in qualche modo astratto

dall’osservazione di quanto cerca il nostro tempo, dalla nostalgia del nostro tempo,

essendo invece nata da sostrati scientifici, può indicare

come proprio nei campi più importanti del nostro tempo riesca e possa,

o almeno potrà riuscire a fare ciò cui appunto oggi si aspira nel senso più profondo della parola.

 

Questo intendevo premettere come introduzione per le considerazioni che faremo nei prossimi giorni, anche per caratterizzare che cosa l’antroposofia stessa si consideri.

 

Non vuole esser vista come una morta e astratta conoscenza,

non una conoscenza fatta di sole teorie ma, come vita che afferra la vita, diviene viva conoscenza;

essa intende fluire negli uomini non solo in pensieri o come risultati di osservazioni,

ma come un sangue vitale dell’anima, in modo da essere presente nell’uomo stesso come vita.

 

Certo l’antroposofia sarebbe troppo immodesta se volesse suscitare la credenza di poter risolvere tutti i segreti esistenti nel mondo. Non è questo il punto. La vita è piena di enigmi, e vi sarà vita fin che ne esistono. Dobbiamo infatti sperimentare gli enigmi, e solo nello sperimentarli possiamo condurre l’esistenza in modo veramente umano.

 

Un mondo che non avesse problemi sarebbe un mondo morto.

Di conseguenza l’antroposofia non intende promettere di risolvere tutti gli enigmi della vita.

Per il suo carattere vorrebbe comunque essere in grado di servire la vita,

anche grazie alla conoscenza e alla forza fornendo una vera base a tutti gli uomini,

siano essi artisti, religiosi, o dediti alla vita morale o sociale.

 

L’antroposofia intende servire la vita e servirla in modo da non essere solo qualcosa di morto,

ma un sapere vivente, capace di sviluppare una propria forza vitale.

Essa intende servire la vita, ma questa non può essere servita che dalla vita stessa.

Per questo l’antroposofìa intende essere vita per servire la vita dell’umanità.