L’antroposofia è un’esigenza del nostro tempo

O.O. 231 – L’uomo soprasensibile alla luce dell’antroposofia – 15.11.1923


 

Sommario: L’antroposofia è un’esigenza del nostro tempo. Il necessario superamento dei limiti della conoscenza. Vera autoconoscenza mediante il rafforzamento della vita animica diventa conoscenza spirituale. I tre gradi dell’autorafforzamento. La vita onirica e la cosciente iniziazione. Scienza dello spirito e sicurezza di vita

 

È attualmente opinione generale che alla conoscenza umana siano posti dei limiti, e non solo dei limiti temporali che consisterebbero nel fatto che non tutto è ancora stato raggiunto nel corso del passato, e varie cose devono essere rimesse al futuro, ma di « limiti della conoscenza », di « limiti del sapere umano » si parla oggi in senso del tutto generale. Si ritiene cioè che l’uomo sia costituito in maniera da poter solo capire, da poter solo aver cognizione di certe cose, mentre altre risiederebbero al di là del suo potere conoscitivo. E sono soprattutto le cose del cosiddetto mondo soprasensibile quelle che vengono ritenute conoscitivamente irraggiungibili, le cose per le quali l’uomo dovrebbe accontentarsi di ciò che viene spesso chiamato una fede, un’accettazione sulla base di non ben determinati sentimenti.

 

Proprio le ricerche degli ultimi secoli e quelle odierne che sotto l’aspetto scientifico hanno conseguito i maggiori successi, e cioè quelle delle scienze naturali le quali hanno anche portato ai massimi risultati pratici pensabili, vengono dall’umanità odierna ritenute dimostrative del fatto che ci si dovrebbe fermare a quanto è osservabile dai sensi e può venir stabilito mediante esperimenti e in altri modi simili, a quanto cioè appartiene al solo mondo che, fra la nascita o la concezione e la morte, l’uomo percorre vivendo in un corpo fisico.

 

Certo, non si vuol negare che appunto la scienza deve i suoi grandi successi al fatto di essersi per tal modo circoscritta, di essersi limitata a investigare sotto ogni aspetto il mondo dei sensi, senza in alcun modo consentire a trarre da esso delle deduzioni relative a un mondo soprasensibile. Da un altro lato però, per la persona riflessiva, a questa in apparenza pienamente dimostrata supposizione di limiti della conoscenza, va collegato qualcosa di molto tragico, qualcosa di straordinariamente tragico, qualcosa di cui molti oggi non sono ancora consapevoli, ma che si agita in innumerevoli anime umane generandovi ogni sorta di imprecisi sentimenti e di sensazioni subconscie, rendendole malcerte nella vita, spesso titubanti e inette nell’azione esteriore, nei rapporti con altre persone e così via.

 

Si sentirà difatti sempre più che i limiti davanti ai quali ci si vuole così fermare non sono unicamente quelli di un mondo soprasensibile esteriore, ma che, se vengono giustamente intesi, ad essi si collega anche qualcosa del tutto diverso.

 

Infatti l’uomo gradualmente avverte che il suo vero essere deve aver natura soprasensibile,

che il suo vero essere, quello per cui egli riconosce a se stesso valore e dignità umana,

deve risiedere nel regno spirituale, non in quello fisico dei sensi.

Ma se la conoscenza si ferma davanti al soprasensibile, essa si ferma davanti all’autoconoscenza umana

e l’uomo rinunzia a conoscere quanto di più prezioso, di più degno risiede in lui.

Così egli mina anche la vera, intima fiducia in se stesso.

 

Per quale ragione egli sente di far parte del mondo naturale, oggi investigato con tanto successo? Unicamente perché ha quel mondo in se stesso, anzitutto nel proprio corpo fisico. Noi portiamo, per lo meno in gran parte anche in noi stessi, tutte le sostanze e le leggi naturali sparse intorno a noi; per questa ragione possiamo sentirci congiunti con la natura sensibile. Non sentiremmo affatto di esistere in grembo ad essa se non ne facessimo parte col nostro corpo o se non potessimo investigarci quali esseri sensibili.

 

Pur se gli uomini non se ne rendono ancora pienamente conto,

lo stesso si verifica per la soprasensibile interiorità spirituale umana che sentiamo come nostro vero essere.

• Se non possiamo sentirci quali esseri appartenenti a una natura spirituale,

quali esseri che accolgono e portano in sé forze e sostanze di carattere spirituale,

non possiamo neppure riconoscerci quali esseri umani dotati di spiritualità.

In tal caso deve però mancarci la fiducia

• in ciò che pur sentiamo di possedere di più prezioso e degno,

• in ciò per cui propriamente siamo, anzi vogliamo essere uomini.

 

Il problema ha ancora un altro aspetto.

• Sentiamo che quelli che chiamiamo impulsi morali, il contenuto delle nostre energie morali-spirituali

non fluisce certamente dalle forze della natura, dai processi che hanno luogo nei muscoli, nelle ossa o nel sangue.

• Sentiamo quegli impulsi venire da un mondo spirituale;

cadiamo però in incertezze rispetto a tutto quel mondo,

se con la conoscenza dobbiamo fermarci ai confini del soprasensibile.

 

Così l’odierna umanità non può gettare alcun vero ponte

fra quanto, direi grossolanamente, le sta con certezza davanti nella natura esteriore

e quanto, dal grembo della sua intima interiorità spirituale, fluisce in lei

come contenuto dell’ordinamento morale dell’universo.

•  Non si ha il coraggio di rendersi sempre ben conto di che cosa questo significhi per l’anima umana.

 

La scienza ha fatto delle profonde ricerche allo scopo di poter dire, almeno ipoteticamente, qualcosa intorno agli attuali esseri viventi dai quali si sarebbe sviluppato l’uomo. Almeno ipoteticamente essa descrive come il mondo attuale si sarebbe formato dal grembo della nebbia cosmica; avanza anche delle ipotesi intorno alla fine del nostro sistema planetario, o del sistema in genere al quale apparteniamo.

 

Immagina che attraverso il tempo tutto questo sistema si sia in qualche modo plasmato, formato ad opera di sostanze e forze naturali, e che a un certo momento, da una parte di quelle forze, sia sorto l’uomo fisico. L’elettricità, l’energia termica, il magnetismo s’impongono all’osservazione esteriore, e in esse l’uomo pensante si sente sicuro.

 

Quando però in lui sorge poi il bisogno di pensare che un’azione viene esercitata nel mondo anche da ciò che non proviene dalla natura fisica, ma da impulsi morali-spirituali, da ciò che egli attua attingendo a una forza elementare-spirituale, la quale deve pur esistere nel mondo se egli ha da sperimentare delle vicende che non passano col passare di quanto è fisico, allora, nella cerchia di quelli che sono ritenuti essere i confini della conoscenza, l’uomo non possiede alcun punto d’appoggio che lo autorizzi a dire: queste forze morali sono altrettanto operanti quanto ciò che ha per risultato le grossolane forze naturali fisiche.

 

Da questa situazione oggi non sorgono unicamente dei dubbi teorici, ma sorge un’incertezza interiore che, per chi è capace di osservare spregiudicatamente la vita della nostra civiltà, è ovunque riconoscibile, anche se al riguardo gli uomini si creano delle illusioni.

 

La caratteristica dell’attuale civiltà consiste appunto nel fatto che, proprio riguardo ai più profondi problemi, l’uomo si fa delle illusioni. Ma nel subconscio quei problemi tuttavia si agitano, ed essi si manifestano non già in forma di teorie, ma in tutta l’intonazione animica, nel grado di sicurezza e valentìa della vita animica.

 

In ciò risiede la tragedia interiore che è propriamente osservabile alla base di ogni anima, anche della più superficiale, e da tale situazione scaturisce ciò che nel presente può apparire paradossale, scaturisce l’anelito di molti verso una conoscenza soprasensibile.

 

Si vorrebbe dire che nel dominio spirituale si verifica lo stesso che per la fame e la sete. Non si cerca cibo e bevanda quando si è sazi, ma quando non lo si è. Per un suo intimo bisogno, l’odierna umanità brama il soprasensibile proprio perché non lo ha.

 

Mentre da un lato naturalisti e filosofi vogliono sempre più dimostrare

che ai confini del soprasensibile si ergono delle invalicabili barriere,

da un altro vediamo che moltissime anime umane

hanno fin d’ora un’inestinguibile sete di conoscenza soprasensibile,

e il numero di quelle anime andrà sempre crescendo.

 

Al conseguimento di quella conoscenza vuol muovere incontro la concezione, o per meglio dire la forma d’indagine, della quale intendo oggi parlare. Non voglio però parlare di una forma d’indagine del soprasensibile come quella attraverso la quale si vuol oggi arrivare a conoscerlo con gran facilità, ma di una forma di conoscenza che, pur essendo un’intima vicenda dell’anima, è altrettanto scientifica, altrettanto esattamente sicura, non solo quanto un risultato esteriore scientifico, ma quanto gli stessi risultati delle scienze matematiche o geometriche. Ma mentre si tende a una tale conoscenza e ci si avvicina a quel che nell’uomo è soprasensibile, subito ci si imbatte in qualcosa che fin dal principio suscita tutti i dubbi possibili, che fin dal principio genera delle incertezze.

 

Se guardiamo all’esterno, rileviamo infatti ben presto che rispetto alle percezioni esteriori,

parlando di limiti della conoscenza, gli scienziati e i filosofi hanno ragione.

Dobbiamo dunque guardare nell’interiorità.

 

Ma se guardiamo nell’interiorità rimanendo nello stato di coscienza ordinario,

nello stato di coscienza che ci è proprio nella vita e anche nella scienza ordinaria,

anche allora non ci viene inizialmente incontro null’altro che un’immagine intessuta di pensieri del mondo esteriore.

 

Se siamo del tutto onesti rispetto alla conoscenza di noi stessi alla quale aspiriamo,

e ci chiediamo che cosa troviamo quando, invece di guardar fuori nel mondo, guardiamo in noi,

che cosa vi è propriamente in noi,

ci dovremo render conto che, in forma d’immagine, nell’intimo torniamo a trovare il mondo.

 

Quello che abbiamo vissuto si è impresso nella vita delle nostre rappresentazioni e delle nostre sensazioni.

Sperimentiamo un’immagine plasmata di pensieri e sensazioni di quel che c’è anche fuori.

Abbiamo solo volto lo sguardo all’indietro,

ed esso non ci presenta dapprima nulla di nuovo, ma in forma affievolita un’immagine di quel che c’è anche fuori.

 

Solo come sentimento generale s’impadronisce allora dell’uomo

l’impressione d’esser lui stesso presente come un io, come un sé,

frammezzo a quell’ondeggiare di pensieri, di idee e di sensazioni.

Ma quell’impressione è così indeterminata, così generale che egli non può a tutta prima trarne molto profitto.

 

Perciò nel medioevo, nei tempi in cui l’autoconoscenza, la conoscenza dell’anima venivano maggiormente ricercate, non si attribuiva tanta importanza a quanto era possibile raggiungere grazie a un’osservazione introspettiva praticata nell’ordinario stato di coscienza, ma si cercava piuttosto di arrivare a conoscere l’anima in altra maniera.

 

Quest’altra maniera è pur sempre interessante e fu spesso molto ambita; devo prendere le mosse da essa affinché possiamo capirci in merito a quella conoscenza dell’anima che io propriamente intendo. Osservo però subito che lo faccio unicamente per meglio chiarire quel che intendo esporre, ma senza volergli propriamente attribuire del valore. Se dunque parto dal sogno, nessuno deve credere che io gli riconosca valore conoscitivo; la vita di sogno tuttavia è straordinariamente importante.

 

Quelli che hanno cercato di conoscere l’anima per suo mezzo avranno certo osservato che nel sogno, per certi aspetti, l’animico si presenta in modo molto più caratteristico di quando ci si limita a rimuginare in se stessi e, come spesso si dice, « ci si vuol osservare ». Essi hanno studiato i sogni e hanno anzitutto scoperto che ve ne sono di due specie.

 

In realtà il sogno plasma delle immagini ondeggianti di evidenza fantastica

che non sono astratte come i pensieri della coscienza diurna.

Ma esso configura innanzi tutto qualcosa che appare doppiamente enigmatico:

da un lato per la propria composizione, dall’altro per il proprio contenuto.

 

Due sono le cose che nel sogno si presentano all’uomo.

• Anzitutto gli si presentano delle immagini di vicende

da lui attraversate nel corso della vita terrena, reminiscenze di fatti vissuti.

Questi emergono dal sogno e gli presentano avvenimenti verificatisi molti anni prima.

Ma quei fatti affiorano accanto ad altri in una connessione diversa da quella esistita durante la vita.

Certi eventi svoltisi dieci anni prima compaiono connessi con altri vecchi di due soli giorni.

Per il fatto di collegare insieme dei brandelli di vita, il sogno presenta delle immagini caotiche, impossibili.

In esso le vicende attraversate nella vita esteriore vengono evocate caoticamente davanti a noi.

Questa è una delle forme del sogno.

L’altra è quella in cui, in una sorta di figure simboliche, ci viene caoticamente rappresentata la nostra interiorità.

 

Chi non ha mai sognato di patire per il calore di una stufa ardente e visto avvampare le fiamme? Si è svegliato avvertendo un violento batticuore. Oppure sogniamo di camminare lungo uno steccato, vediamo i singoli pali, scorgiamo che uno oppure due sono danneggiati, ed ecco che ci svegliamo col mal di denti. Nel primo caso la stufa ardente era stata l’immagine del violento batticuore; nel secondo lo steccato era l’immagine della nostra chiostra dentaria che ci arrecava dolore.

 

Chi è in grado di penetrare più addentro in queste cose sa parimenti che una certa categoria di sogni

è caratterizzata dal fatto di mostrarci simbolicamente degli organi oppure dei processi interiori.

Ma bisogna saper discernere tutte le condizioni che entrano in giuoco,

se in quelle immagini simboliche si vuol riconoscere quanto in esse si esprime dell’organizzazione interiore.

Allora però si scoprirà come non esista quasi né un organo, né un processo interiore

che non possa qualche volta venirci fantasmagoricamente presentato dal sogno.

 

Certi investigatori dell’animico che in passato studiarono il sogno svilupparono una visione assai giusta circa il suo nesso con l’uomo. Essi si dissero che quanto risiede in noi tutt’al più lo sentiamo, ma non lo vediamo, non lo abbiamo davanti a noi come un oggetto esteriore.

Tuttavia se nell’immagine di una stufa si manifesta il battito del nostro cuore, nella nostra coscienza abbiamo un’immagine somigliante a quella che ci facciamo di un oggetto esteriore. Dall’oggetto dobbiamo però essere separati, perché una sua immagine possa sorgere in noi.

 

Quel che siamo, anche se si tratta del nostro corpo, lo sentiamo talvolta dolorosamente, quando qualche parte dell’organismo è lesa, ma non lo vediamo. Per vedere una cosa in forma di immagine dobbiamo essere fuori di essa.

Così gli antichi investigatori dell’anima, ancora quelli del secolo diciannovesimo, si dicevano che se in forma simbolica sogniamo del nostro corpo e dei suoi processi, non possiamo essere entro il corpo stesso; se fossimo nel corpo non potremmo sognarlo. Dobbiamo dunque esserne fuori.

L’immagine ci dà testimonianza di una vita animico-spirituale indipendente dal corpo.

 

Poi dicevano ancora che se in qualche maniera, sia pur velata, sogniamo reminiscenze della vita, la realtà naturale esteriore dovrebbe pur presentarsi quale essa è; ma ne viene perennemente mutato qualcosa; il sogno ci suscita davanti i nessi più fantastici. Bisogna dunque che siamo all’opera noi stessi, perché la natura che normalmente ci attornia non può certo presentarci in tutt’altro ordine i fatti che abbiamo attraversato in connessione con lei, e neppure quelli della nostra vita.

 

Ne nasce una correlazione in base alla quale si potrebbe dire che quegli antichi investigatori erano giustamente convinti di cogliere qualche cognizione relativa all’anima in una condizione in cui essa è separata dal corpo fisico: anzitutto perché l’uomo non può essere congiunto col proprio corpo quando i processi che vi si svolgono gli appaiono separati da esso, sia pure solo in forma di simboli. Egli deve allora essere fuori del corpo.

 

Nel secondo tipo di sogni dobbiamo tuttavia essere presenti nei nostri ricordi, congiunti con i ricordi delle vicende attraversate, perché la natura non muta la connessione in cui ebbero luogo gli eventi. Dobbiamo essere noi stessi a mutarla. Dobbiamo pertanto essere fuori del nostro corpo nel primo tipo di sogni e dobbiamo essere entro le vicende da noi vissute nel secondo tipo.

 

Significa che con le nostre esperienze animiche, quando sogniamo, dobbiamo essere realmente fuori del corpo fisico. Fin qui, ciò che quegli antichi investigatori sostenevano è assolutamente incontestabile, non vi si può opporre nulla.

Bisogna però dire dell’altro.

 

Il sogno non può dare sicurezza in merito alla conoscenza di se stessi;

esso può condurre sulla via percorrendo la quale vi si perviene.

Quel che infatti siamo interiormente dal momento in cui ci addormentiamo fino a quello del risveglio,

nel tempo dunque in cui siamo fuori dal corpo, non è sicuramente ciò che il sogno ci mostra,

perché esso ci presenta da un lato delle immagini, più ancora immagini simboliche della nostra interiorità corporea,

qualcosa dunque che è tratto dall’interiorità corporea.

 

Ma non è possibile che quando nel sonno ci troviamo fuori del corpo fisico

rimaniamo uguali a quel che siamo quando viviamo in esso. Deve esservi una differenza.

Fuori del corpo dobbiamo essere qualcosa, ma ciò non si manifesta.

Non siamo in grado di afferrare il vero essere dell’animico quale è durante lo stato di sonno.

Esso si nasconde e si maschera, si riveste di immagini della propria corporeità

e si palesa in connessioni arbitrarie relative alla vita del sognante.

 

Da tutto ciò gli antichi studiosi dell’anima avevano giustamente dedotto che nel sogno siamo fuori del corpo,

ma che il sogno ci palesa qualcosa dell’essere che allora siamo, fuori della corporeità;

lo credevano, ma non è vero.

Infatti il sogno ci presenta unicamente cose già sperimentate entro la corporeità

oppure, in figure simboliche, il nostro stesso corpo.

 

Se dunque fuori del corpo noi siamo qualche altra cosa, nel sogno viene mascherato.

Se vogliamo conoscere il nostro proprio essere,

bisogna dunque che possiamo strappare quella maschera al sogno, e cioè all’anima;

il sogno stesso è infatti la maschera.

 

Fin qui ci ha portati una visione più approfondita del sogno. In quanto quegli antichi studiosi dell’anima giustamente osservarono che in fondo il sogno non ci mostra se non quello che a sua volta esso trae dal mondo dei sensi, in loro sorsero naturalmente dei dubbi in merito al suo potere di conferire conoscenza. E come non credevano di pervenire a certezza attraverso la comune osservazione introspettiva di loro stessi, così non si sentivano appagati da quanto poteva conferire l’osservazione del sogno.

 

Di fronte a ciò si presenta quella che ho sempre chiamata la concezione,

oppure anche la forma di ricerca antroposofica.

Essa si fonda innanzi tutto su questo punto di vista:

pur se il sogno ci mostra che fuori del corpo siamo qualche cosa,

esso tuttavia si palesa troppo debole per portare il proprio essere a visibilità, a manifestazione.

 

Per manifestarsi, si vale di brandelli mnemonici della vita, di simboli della corporeità.

Bisogna dunque che rinvigoriamo, rafforziamo la vita della nostra anima,

se vogliamo accedere a ciò che di essa ci sta davanti mascherato nel sogno.

E lo si può fare. Lo si può fare se, come dico nel libro L’iniziazione e in altri miei scritti,

in modo pienamente cosciente attraverso una vita meditativa sistematicamente esatta,

si imita il sogno, non già suscitando ad arte nuovi sogni,

ma risvegliando nella propria anima, in modo pienamente cosciente,

quello che dal subconscio, senza partecipazione della volontà, emerge nel sogno ordinario.

 

Ci si arriva abituandosi a procedere come, fuor della nostra volontà, procede il sogno,

e cioè rappresentandosi simbolicamente in meditazione interiore cose ben note.

Il sogno evoca fantasmagoricamente davanti a noi in forma simbolica la nostra corporeità.

• Siccome né la nostra interiorità, né la natura ci forniscono dei simboli,

in modo severamente sistematico dobbiamo abituarci ad avere rappresentazioni in forma di simboli.

 

Così le rappresentazioni vengono volontariamente tradotte in simboli

come, senza nostra volontà, ce ne suscita davanti il sogno.

Questo deve verificarsi per nostra propria attività interiore, ma ciò significa che si deve rinvigorire il sogno.

 

Nella vita ordinaria ci abbandoniamo passivamente alle osservazioni e alle percezioni esteriori.

L’attività interiore è allora minima.

Ognuno sente in realtà quale pallore d’ombra abbia il rappresentare astratto,

come i pensieri si abbandonino al mondo esterno e poi scorrano oltre come ombre.

Tutti parlano dell’ombra di pensieri rispetto alla concretezza della realtà.

Ma se ora arriviamo a rappresentarci qualcosa, a foggiare delle rappresentazioni in forma simbolica,

dobbiamo farci noi stessi quei simboli.

 

Se siamo delle persone pienamente consapevoli e non dei pazzi, sappiamo di essere noi ad averli creati. Non siamo allora punto dei sognatori, bensì delle persone deste nel modo ordinario, anzi ancor più deste che nel modo ordinario.

 

In chi sogna, le immagini simboliche si presentano fuori della sua volontà,

in chi è desto esse si formano per opera di stimolo esteriore.

La persona che in condizione di veglia suscita lei stessa quello che d’ordinario viene fornito dai sogni,

che con tutta la sua forza interiore si pone davanti all’anima dei simboli

e che imita il sogno con piena lucida consapevolezza,

si desta per così dire a una superiore attività pensante e rappresentativa,

e conseguentemente a un’attività animica superiore a quella della coscienza ordinaria.

Ciò va però compiuto in modo del tutto sistematico.

 

Anche l’altro tipo di sogni può venire imitato. Prendiamo delle vicende della nostra vita che possono distare di anni le une dalle altre. Le congiungiamo sulla base di determinati punti di vista in maniera che esse siano ora l’una accanto all’altra, non caoticamente come nel sogno, ma secondo punti di vista che forse possono anch’essi scaturire dalla fantasia, ma che dominiamo in modo del tutto cosciente, che nulla dall’intimo ci ha imposto, e che noi stessi configuriamo.

 

Ci educhiamo così gradualmente a perseverare in una vita interiore dell’anima, a perseverare fortemente in una vita animica che nasce completamente da attività interiore.

Quello che oggi si verifica nell’uomo quando egli fa tali esercizi viene per lo più sottovalutato perché non piace l’attività interiore del pensare e lo si trova già molto attivo quando egli vive seguendo l’osservazione esteriore.

 

Ma chi si fa imitatore del sogno con serietà e in modo pienamente consapevole,

sperimenta di intensificare fortemente, di rinvigorire realmente la propria attività animica.

Se poi non è un pazzo, ma una persona sensata,

egli è pienamente consapevole di creare lui stesso tutte quelle immagini e quei nessi, di vivere cioè in illusioni.

 

Per penetrare dal punto di vista della veglia quello che di illusorio vive nel sogno, ci si deve prima destare. Il sogno può solo essere capito dal punto di vista proprio alla veglia; chi sogna ritiene che il con tenuto del sogno sia realtà, sebbene il suo senso per la realtà non sia inventato.

Chi si fa imitatore del sogno si avvede che in lui si desta qualcosa di interiormente vivente, ma vede anche come ciò abbia un contenuto assolutamente creato da lui stesso, una illusione. Egli arriva perciò a non attribuire alcuna importanza a quel contenuto, ma a dirigere lo sguardo su ciò che in lui opera, dispiega attività.

 

In breve, quello che generalmente possediamo solo come indeterminato senso dell’io o del sé diviene un’attività interiore fortemente sentita. Chi vuol diventare un investigatore spirituale e non un nebuloso mistico, deve conservarsi riflessivo e preciso. Chi tale rimane arriverà anche a sperimentare sempre maggiormente la natura dell’illusorio. Egli saprà: « Non ti rappresenti nulla, ma eserciti un’attività rappresentativa, di rappresentazione. »

In tal modo si perviene anche alla possibilità di sviluppare quella facoltà animica mercé la quale non ci si rappresenta realmente nulla e si è tuttavia così attivi come si è imparato ad essere nell’imitazione del sogno.

Richiamo qui un’attività animica che l’investigatore spirituale deve assolutamente sviluppare.

 

Si crede di solito, e chi giudica le cose superficialmente spesso anche dice, che l’indagine spirituale sia un’attività in cui l’uomo si abbandona ai propri pensieri e combina insieme qualcosa con la propria fantasia. Essi dicono che ciò sia facile, mentre far ricerche nei laboratori, nelle cliniche e negli osservatori astronomici è difficile e richiede abnegazione. Ma così non è.

 

Lo sviluppo dell’intima facoltà animica necessaria per accedere a indagini spirituali

esige un lavoro interiore per lo meno altrettanto lungo, e, anche molto di più,

di quanto è richiesto da qualsivoglia sapere conseguito attraverso mezzi esteriori,

come quelli attualmente in uso nel campo delle scienze.

• Da chi vuol conoscere ciò che qui chiamiamo « indagine spirituale » non dovrebbe quindi mai venir obiettato

che nel campo delle scienze naturali non si può essere dilettanti,

e che chi vuole avere voce in capitolo deve realmente sapere qualcosa.

•  Di solito si considera ciò che viene esposto dallo scienziato dello spirito

come se fosse stato conseguito con tutta facilità

a paragone di quel che nel dominio delle scienze naturali richiede tanta fatica.

 

Si tratta però solo di vie diverse. Nelle scienze naturali l’investigatore deve elaborare percezioni e fatti del mondo esterno. Invece lo scienziato dello spirito deve prima di tutto applicarsi e sviluppare la propria interiore facoltà percettiva. La sviluppa quale imitatore del sogno, ma in modo che attraverso l’attività meditativa egli trionfi di ciò che il sogno presenta di fantasmagorico.

 

Nel sogno non siamo consci di porre in atto un’attività, le immagini dei sogni ce ne danno l’illusione,

ma sul primo gradino della conoscenza soprasensibile, invece, l’illusione viene invece completamente penetrata.

Si sa: « Tu non ti rappresenti nulla »,

ma ci si avvede della propria rinvigorita e potenziata attività interiore e infine, attraverso molto esercizio,

si apprende come sia possibile suscitare quell’attività senza dover ricorrere a nulla di illusorio,

senza aver prima bisogno di imitare il sogno.

 

Esercitandosi nell’imitazione del sogno si sviluppa dunque quella facoltà.

Quando la si possiede, si sa anche come adoperarla.

Allora ci si trova infatti in una condizione in cui la coscienza è vuota ma desta, e svolge attività interiore.

Dopo che si è scartato ciò che quell’attività racchiudeva di illusorio,

non si ha in un primo tempo alcun contenuto, ma lo stato che si attraversa,

quando si arriva a sviluppare la facoltà dell’attività interiore senza aver prima un contenuto,

esige un forte superamento.

 

In effetti il superamento allora necessario è ciò che prova se quell’indagine spirituale sia autentica e onesta, perché nel momento in cui ci si accinge a vivere con una coscienza vuota di contenuto ma desta, su tutta la vita dell’anima si effonde un’indicibile sofferenza, il senso di una sconfinata privazione.

 

Tutto il dolore che si può altrimenti provare nel mondo

è poca cosa commisurato al dolore spirituale-animico che si sente in questo momento di conoscenza.

Ma quel dolore va superato.

Esso è infatti l’espressione di una forza che ha il proprio aspetto fisico in tutte le forme possibili di privazione:

nella fame che ci spinge a mangiare, nella sete che ci costringe a bere e così via.

In quel momento sentiamo nella nostra anima qualcosa che deve avvicinarsi a noi,

e lo sentiamo come indicibile dolore.

 

Ma dopo che per un certo tratto siamo vissuti nel dolore,

dopo che abbiamo sentito il nostro essere colmo di dolore,

dopo che per la nostra coscienza non siamo altro che un insieme di dolore,

la coscienza non rimane ulteriormente vuota;

essa si colma, e non già di un contenuto sensorio

come quello accessibile attraverso gli occhi, le orecchie e così via, ma di un contenuto spirituale.

 

Come primo contenuto spirituale a cui in tal modo si perviene,

abbiamo il nostro proprio essere spirituale che come organizzazione unitaria

(vivente però nel tempo e non nello spazio)

si prolunga dal momento della nascita o della concezione fino a quello in cui siamo fin lì vissuti sulla Terra.

 

Come ordinariamente guardiamo in una prospettiva spaziale,

così da quel momento della nostra vita, impariamo a guardare nel nostro passato.

A quel punto non vediamo la corporeità, ma ce ne ricordiamo soltanto;

è tuttavia necessario che ce ne ricordiamo, perché altrimenti saremmo distrutti nella nostra coscienza.

 

Chi vuol diventare investigatore spirituale non può essere dedito a fantasticherie né diventare un confuso mistico; egli deve valersi della propria consapevolezza e della propria ragione esattamente come il matematico intento alla soluzione di un problema.

 

Ma come d’ordinario vediamo in prospettiva le cose appartenenti allo spazio,

così ora guardiamo in una prospettiva temporale.

• Tutto quel che abbiamo sperimentato nella vita

sta allora davanti a noi in un quadro temporale, in un quadro temporale vivente.

• Non solo quel che noi stessi abbiamo sperimentato sta davanti a noi,

ma anche quel che ci mostra in qual modo ci siamo formati,

in qual modo dalla nostra nascita, dalla nostra concezione in poi,

intime forze animiche-spirituali abbiano lavorato alla struttura del nostro corpo

e quali siano le forze plastiche che hanno lavorato intorno ad esso.

Ci vediamo dall’esterno.

 

Ma ciò che vediamo, e attraverso cui la nostra vita animica sta davanti alla nostra anima, si differenzia anche qualitativamente dal mero quadro temporale di prima.

Se guarda indietro alla propria esistenza, l’uomo di solito rivive interiormente le vicende che gli erano capitate. Vede per esempio in qual modo gli si era avvicinata una persona, se con amore o con odio, quali azioni egli aveva compiuto nei suoi riguardi. In tale quadro mnemonico l’uomo sperimenta se stesso sotto l’aspetto di come il mondo esterno si era accostato a lui.

 

Nel diverso quadro mnemonico di cui sto parlando, e che consiste di immagini reali delle quali si sa che presentano la natura spirituale del contemplante, ci sta invece davanti il modo in cui noi ci siamo accostati al mondo.

Esso ci mostra per esempio come noi stessi eravamo quando ci siamo avvicinati a un’altra persona, come nel nostro animo si siano sviluppate delle forze che, proprio attraverso di lei, procurarono soddisfazione, appagamento, felicità e letizia.

Si contempla veramente se stessi quali si era stati da persone terrene, e si vede come ora confluiscano nella realtà i due aspetti in cui si era mascherato il sogno.

 

Il sogno si trasforma in una realtà pienamente cosciente:

diviene anzi qualcosa di più di quanto la coscienza ordinaria non veda.

• Si percepisce prima l’essenza spirituale che vive nel corpo,

e che nel sonno è indipendente da esso, che è anzi la creatrice della corporeità.

• La si vede, e ci si accorge pure che quell’essenza spirituale racchiude inoltre, in forma spirituale, metamorfosata,

qualcosa di simile a leggi naturali (ma già non par vero) in un’esistenza spirituale.

 

In ciò che così si sperimenta già agisce il mondo morale, sono già contenute leggi morali,

e lo sono in maniera da sapere ora che, come opera la propria spiritualità, così operano pure le leggi morali.

Le leggi morali cominciano qui a porsi alla pari delle leggi naturali.

 

Ma in quel modo si arriva solo a sperimentare la propria esistenza spirituale umana quale è nella vita terrena. Per andare oltre si devono sviluppare altre facoltà animiche. Si possono trovare maggiori precisazioni al riguardo nei libri prima menzionati. Si tratta infatti di cose unicamente raggiungibili mercé l’esercizio di molti singoli particolari. Ricorderò solo l’essenziale.

Immaginiamo che in un dato momento della giornata si risalga con la memoria fino al mattino, quando ci siamo alzati, anzi quando ci siamo svegliati. Con qualche sforzo possiamo portarci davanti all’anima il corso della giornata fino a quel momento.

 

Non dobbiamo pensarlo cominciando dal mattino per poi passare alle vicende della giornata, ma procedendo a ritroso dobbiamo cominciare dal punto in cui ci troviamo e, retrocedendo fino al mattino, arrivare alla notte durante la quale abbiamo dormito. A quel punto non possiamo però riallacciarci a nulla; rimane un vuoto, e ciò che poi torna a collegarsi con le vicende percepite guardando a ritroso è l’ultimo fatto precedente il sonno. Partendo da esso, possiamo poi rievocare le vicende del giorno prima. In breve, quando nella vita ordinaria l’uomo segue in questa maniera i propri ricordi, il suo sperimentare cosciente è sempre inframmezzato di baratri, baratri che durante il sonno abbiamo attraversato in stato di incoscienza.

 

Per procedere oltre nella pratica degli esercizi che possono riannodarsi a un simile corso a ritroso delle vicende vissute, è necessario acquisire un forte senso della realtà. E un tal senso della realtà non è ciò che distingue particolarmente i nostri contemporanei. Non è neppure facile da conseguire perché, per ricordi, la gente per lo più si limita a ciò che in un modo o nell’altro riguarda strettamente la propria persona. Non dirige verso il mondo esterno i fili dei propri pensieri con tanta forza da congiungerli poi con i propri ricordi.

Per lo più l’uomo non è incline a vivere nel mondo esteriore coi propri ricordi, a viverci in modo reale. È possibile convincersene nella vita ordinaria.

 

Ho conosciuto per esempio delle persone che nel corso della mattinata avevano veduto una signora che le interessava molto e che nel pomeriggio, richiesti del colore del vestito che ella indossava, non sapevano dirlo. Era dunque come se non l’avessero vista perché, se l’avessero « realmente » vista, avrebbero anche visto il colore del suo vestito. Quanto debolmente si è mai congiunti col mondo esterno se nel pomeriggio non si sa neppure che colore avesse il vestito di una persona vista al mattino!

Ho perfino conosciuto delle persone che si erano trattenute in un locale e non sapevano neppure se alle pareti ci fossero o non ci fossero dei quadri. Al riguardo si possono fare le più incredibili esperienze.

 

Chi vuole appropriarsi del senso della realtà deve perciò cominciare con l’addestrarsi a vivere pienamente

anche nella realtà sensibile esteriore di modo che le cose davanti alle quali è passato

gli rimangano impresse nella memoria quali sono fuori di lui.

L’investigatore spirituale non diventa davvero un fantasticatore!

Egli deve appropriarsi tanto senso della realtà che nel pomeriggio non possa accadergli di ignorare

quale vestito avesse la signora con la quale aveva parlato al mattino!

Egli deve davvero poter vivere con senso della realtà già nel mondo sensibile.

 

Solo quando ci si allena a collegare al mondo della realtà esteriore quanto ci rimane nel ricordo delle cose si sviluppa la capacità di attuare una feconda vita retrospettiva quale è richiesta da una conoscenza spirituale come quella di cui sto parlando. Infatti per l’ordinaria facoltà mnemonica umana l’immagine precedente l’ultimo sonno si congiunge molto facilmente con quella che segue l’ultimo risveglio. Gli uomini prescindono senza alcuna difficoltà dal baratro notturno che sta fra quelle due immagini. Essi riallacciano la prima vicenda seguita al risveglio direttamente all’ultima che precedette il sonno. Per lo più non rilevano con viva consapevolezza che fra esse vi è qualcosa.

 

Se però si vuole acquisire una consapevolezza capace di collegare quello che fu sperimentato nell’intimo con l’immagine che ne esiste fuori nel mondo, ci si deve rendere conto che quello che si sperimenta al mattino dopo il risveglio è connesso con tutta la natura che esercita allora un’azione su noi, è connesso col sorgere del sole e con tutte le impressioni che ne derivano, mentre le ultime vicende anteriori all’ultimo sonno sono connesse con qualcosa che non è collegato con la natura, e cioè con ciò che abbiamo vissuto dopo l’ultimo risveglio. Allora, osservando quelle immagini allineate le une accanto alle altre, ci si accorgerà che vi manca qualcosa.

 

Mentre ci si esercita in questa maniera, mentre si torna a risvegliare delle facoltà animiche che nella vita ordinaria non esistono, si consegue la forza per cui, nella visione retrospettiva, quando si è davanti alla prima immagine che tien dietro al risveglio e si vuol procedere fino all’ultima anteriore al sonno, fra esse non si avverte più un tratto di tenebra, ma quella tenebra comincia spiritualmente a chiarirsi; qualcosa penetra in quella tenebra. Come di solito per gli stati della veglia diurna si seguono solo le vicende che si sono sperimentate, così fra la prima vicenda sperimentata dopo l’ultimo risveglio e l’ultima precedente l’ultimo sonno compare all’improvviso qualcosa di cui si dice: « Tu ricordi qualcosa, ma qualcosa che finora non avevi saputo ».

 

È esattamente come nel ricordo ordinario, solo che di ciò che a quel punto si presenta, prima non si sapeva nulla. Adesso si comincia a ricordare quello che prima era andato perduto nel sonno, anche nel sonno privo di sogni. Il tempo trascorso tra l’ultima cosa sperimentata prima del sonno e la prima presentatasi dopo il risveglio, il tempo che per la coscienza ordinaria era rimasto vuoto, si colma di contenuto.

 

Come la nostra coscienza ordinaria si colma delle vicende dell’esistenza naturale, così a questo punto la nostra coscienza si colma di qualcosa che affiora come un ricordo, ma un ricordo di cui si sa che lo si è sperimentato nell’inconscio. La coscienza si colma di quel contenuto animico che non ha partecipato alle vicende esteriori, ma se ne è ritratto; rispetto ad esse ha dormito.

 

Ora si apprende come l’anima dormiente sia realmente quando le manca la forza di prender coscienza di quello che attraversa nel mondo spirituale durante il sonno, analogamente a come nell’esistenza diurna prende coscienza dei fatti della vita fisica, e s’impara realmente a conoscere l’interiorità umana come anima e spirito.

In quell’istante si guarda oltre la vita terrena, e a quel che si presenta come un grande ma concreto quadro mnemonico della vita terrena fin lì vissuta si può unire ciò che quali esseri spirituali-animici si era stati in un mondo puramente spirituale prima di discendere in quello fisico attraverso la nascita o la concezione.

 

A questa esperienza si aggiunge ancora dell’altro. Se per tutto il tempo in cui si sono coltivati i suddetti esercizi si era inoltre sviluppata una facoltà che non viene solitamente considerata organo di conoscenza, se assieme a tutto il rimanente si è anche sviluppato amore animico, piena dedizione a ciò che ci viene incontro, un amore così forte da durare anche quando l’uomo guarda al proprio sé, se si può quindi amare con piena dedizione quel che di nuovo compare nell’anima, allora nello sperimentare interiore si sviluppa la possibilità di liberarsi in piena coscienza di veglia della propria corporeità.

Nell’istante però in cui nello sperimentare interiore ci si è liberati dal corpo, si sa anche come l’uomo trascorra la propria vita nel tempo in cui è privo della corporeità. Si presenta allora in immagine davanti all’anima il passaggio attraverso la porta della morte, il morire.

 

Quando si sia una volta riconosciuto quello che significa

afferrare se stessi nelle proprie forze spirituali indipendentemente dal corpo,

si sa anche che cosa è l’uomo nell’esistenza spirituale

dopo aver deposto il corpo ed essere passato per la porta della morte;

s’impara parimenti a conoscere l’ambiente che allora lo circonda;

si riconosce come col corpo che egli depone, da lui si stacchi ciò che lo congiunge al mondo sensibile.

Rimane invece quel che lo ha configurato come uomo: l’elemento animico-spirituale.

 

S’impara così a penetrare le vicende sperimentate con altre persone: ciò che racchiudevano, come si erano incontrate le anime, quel che si era esplicato nel rapporto con persone più o meno vicine o lontane, quel che si era svolto nello spazio e nel tempo, e cioè l’elemento spirituale eterno che appare quando esso si spoglia della forma terrena dell’esperienza. Tanto maggiormente l’anima sperimenta allora ciò che risiedette in lei di spirituale nelle sue relazioni con altri. Quel che di solito è solo oggetto di fede diviene così certezza riconosciuta.

 

Gli uomini sperimentano tutto ciò quando sono passati per la porta della morte.

Quello a cui l’anima ordinariamente aspira, e cioè l’immortalità,

penetra soltanto in tal modo nel dominio della vera conoscenza.

 

Ma solo se riconosciamo l’elemento realmente eterno esistente nell’uomo, tendendo le nostre forze così da prenderne cognizione quale esso è nell’esistenza percorsa nella sfera animico-spirituale preterrena, conquistiamo anche ciò che ci conferisce certezza per la continuità della vita dopo la morte.

 

Nella nostra civiltà l’anima umana non possiede neppur più una parola atta a indicare l’eterno.

Dell’eterno conosciamo infatti solo una metà: parliamo di immortalità.

Gli antichi linguaggi conoscevano ancora l’altra metà: « l’innatalità »,

e cioè l’esistenza trascorsa prima di accedere alla vita terrena.

• Ma solo i due lati: l’innatalità e l’immortalità formano l’eterno.

 

Se nell’ambito della conoscenza l’uomo vuol rinunciare al concetto di innatalità, egli deve ridurre a mera fede la sua nostalgia d’immortalità, perché può unicamente capire che cosa sia l’eternità quando riconosce insieme uniti i due lati di cui essa è composta: l’innatalità e l’immortalità del proprio essere. In questa maniera l’uomo arriva ad afferrare veramente chi egli è, perviene a una reale conoscenza di se stesso.

 

In occasioni simili a questa devo sempre sottolineare che, certo, tali indagini spirituali possono unicamente venir fatte da chi, a mezzo di esercizi o in qualche altra maniera connessa col suo destino, ha fatto proprie le relative facoltà, ma che quando i risultati di quelle indagini vengono enunciati essi possono da ognuno essere giudicati altrettanto plausibili quanto quelli per esempio delle scienze astronomiche.

 

Come non occorre essere pittori per sentire la bellezza di un dipinto, perché se ciò fosse necessario dei quadri godrebbero unicamente i pittori, così per accogliere le cognizioni trasmesse dall’indagine spirituale non occorre necessariamente diventare personalmente investigatori; sebbene si possa diventarlo fino ad un certo grado, perché l’uomo è costituito per la verità e non per la confusione e l’errore.

 

Come col proprio sano sentire si può stare al cospetto di un dipinto e ammirarne la bellezza, così, se mediante pregiudizi e altro del genere non ci si pone da se stessi degli ostacoli sul cammino, si possono interiormente sperimentare le comunicazioni dell’indagine spirituale. Si può capirle, purché ci si dedichi realmente ad esse col proprio senso della verità; è quindi del tutto ingiustificato l’appunto di chi dice che i seguaci della scienza dello spirito rendono omaggio a una cieca fede.

 

Se attraverso il loro senso della verità o mediante l’indagine propria gli uomini pervengono ad autoconoscenza nel modo indicato, proprio al nostro tempo l’antroposofia potrà dare alle anime ciò di cui al principio di questa conferenza ho detto che esse sono affamate. Pur se le persone consce di questa esigenza del nostro tempo non sono ancora molte, pur se si palesa solo in modo impreciso oppure attraverso inettitudine alla vita, essa risiede in ciò che così chiaramente si manifesta nell’attuale civiltà.

 

La scienza e molte concezioni filosofiche parlano di invalicabili limiti della conoscenza. Per loro è invalicabile il confine che conduce all’uomo.

Ma alla lunga l’uomo non può fare a meno di una reale conoscenza di se stesso.

Nella conferenza di domani prenderò le mosse dal punto al quale sono oggi arrivato e descriverò come, grazie all’antroposofia, la vita etico-religiosa si arricchisca e si interiorizzi; illustrerò la sua applicazione alla vita pratica.

 

Nella conferenza di oggi ho prima voluto mostrare come, all’esigenza del nostro tempo che sorge in un sempre maggior numero di anime al cospetto dell’odierna civiltà con i suoi limiti della conoscenza, possa venir data soddisfazione mediante una vera scienza dello spirito, mediante una conoscenza di ciò che l’uomo vuole, che deve anzi sapere intorno alla propria immortalità e a quanto ad essa si ricollega perché così soltanto egli perviene a vera conoscenza di se stesso, e perché solo a tale vera autoconoscenza può andar congiunta una vera comprensione e un vero sentimento del proprio essere.

 

L’uomo potrà stare unicamente al cospetto della propria anima nella sua natura eterna,

se avrà acquisito cognizione del fatto che, quale essere animico-spirituale,

egli è intessuto nella sfera animico-spirituale allo stesso modo in cui, quale essere corporeo,

esiste nel mondo della corporeità.

 

• Solo procurandosi una conoscenza di se stesso quale spirito fra spiriti,

l’uomo si procura anche vera sicurezza interiore.

• Solo quando sappia che cosa valga e di che cosa sia degno nel mondo,

l’uomo sta in esso con quella coscienza di se stesso

che, per un indistinto sentimento, egli riconosce come la sola giusta.

• Solo se gli uomini torneranno a cercare una siffatta luce

di autoconoscenza e di conoscenza spirituale del mondo,

potrà venir saziata la fame di vera penetrazione della natura umana che è propria del nostro tempo.

 

Di fronte a tutte le esigenze sollevate dalla progrediente civiltà,

l’uomo non potrà infatti orizzontarsi se non comprendendo

che l’autoconoscenza umana può solo essere conoscenza dello spirito,

in quanto egli può unicamente sentirsi vero uomo se riconosce se stesso quale spirito fra spiriti,

così come, nella sua transitoria esistenza terrena,

può unicamente sentirsi quale essere corporeo fra esseri corporei.