Le concezioni del mondo dal periodo di civiltà paleoindiano al periodo attuale

O.O. 194 – La Missione di Michele – 30.11.1919


 

Se ci riportiamo al tempo che segue direttamente la grande catastrofe atlantica, cioè al sesto, settimo, ottavo millennio prima di Cristo, giungiamo a una disposizione animica dell’umanità, almeno nelle regioni a quei tempi attribuibili al mondo civile, che non è quasi paragonabile alla nostra.

Il contenuto di coscienza dell’uomo di allora, che caratterizzava la sua concezione del mondo, è difficile da confrontare con quanto caratterizza oggi la nostra concezione del mondo,mediante i sensi e i pensieri.

 

• Nella mia Scienza occulta ho chiamato con il nome di paleoindiana tale civiltà che risale a tempi tanto antichi. Possiamo affermare che l’organismo umano che era allora collegato al capo, era tanto differente dal nostro che il calcolo a noi familiare, basato su spazio e tempo, non era stato acquisito da quelle antiche popolazioni.

La loro visione del mondo era piuttosto uno sguardo su smisurate lontananze spaziali, e anche su diversi momenti temporali interpenetrantisi.

In quegli antichi tempi non esisteva la nostra forte accentuazione di spazio e tempo nella concezione del mondo.

Ne troviamo le prime reminiscenze a partire dal quarto, quinto millennio a.C., nel periodo da noi chiamato paleopersiano.

Ma anche allora tutta l’intonazione della vita animica è difficilmente paragonabile con l’atmosfera animica dell’uomo attuale.

 

In tali tempi antichi l’uomo è soprattutto dedito a interpretare tutte le cose in modo da scorgere ovunque un accordo tra un elemento chiaro e luminoso,e un elemento oscuro e buio.

Le astrazioni nelle quali noi oggi viviamo erano completamente estranee a quelle antiche popolazioni della Terra.

Sussisteva una certa visione generale universale,una coscienza della compenetrazione di luce di tutto ciò che è visibile e del suo ombreggiarsi nell’oscurità.

Così si considerava allora anche l’ordinamento morale del mondo: si sentiva come luminoso e chiaro un uomo benevolo e buono, e oscuro un uomo diffidente ed egoista.

Si percepiva come un’aura attorno all’uomo ciò che costituiva la sua individualità morale.

 

Se si fosse parlato a un uomo di quell’antica civiltà persiana di quello che noi chiamiamo ordinamento naturale, non ne avrebbe capito nulla, perché non esisteva un ordinamento naturale nel suo universo di luce e di ombra.

Per lui esisteva il mondo di luce e il mondo di ombra e per esempio, perfino nel mondo dei suoni, egli denominava una certa sfumatura sonora come chiara e luminosa e un’altra come scura, ombrosa.

Per lui il mondo era fatto di luce e ombra, e quelle che si manifestavano nel confronto del chiaro e dello scuro erano per lui potenze spirituali e nel contempo potenze naturali; non distingueva tra le due.

La distinzione che noi facciamo tra necessità naturale e libertà umana gli sarebbe apparsa come pazzia, perché non esisteva per lui la dualità di arbitrio umano e necessità naturale.

Tutto per lui era da comprendere in una unità fisico-spirituale.

 

Se dovessi disegnare una immagine corrispondente al carattere della concezione paleopersiana del mondo (il cui significato risulterà da quanto segue), dovrei tracciare una linea simile a quella del serpente cosmico, il simbolo del tutto, che abbracciava unitariamente la concezione dell’umanità.

 

 

Poi, dopo che per oltre due millenni la condizione animica dell’uomo era stata così, sopravvenne quel nuovo elemento la cui eco possiamo percepire nella concezione del mondo caldea e in quella egizia e, in una forma speciale, nella concezione del mondo il cui riflesso ci è stato conservato nell’Antico Testamento.

Allora comparve una concezione del mondo che in un certo modo è già più vicina alla nostra, in cui si ha già la sfumatura di una certa necessità naturale nelle rappresentazioni umane.

Ma tale necessità naturale è ancora lontana da quello che noi oggi chiamiamo l’ordinamento meccanico o anche vitale della natura.

In quei tempi l’avvenimento naturale coincide ancora con il volere divino, con la provvidenza.

Provvidenza ed evento naturale sono ancora un fatto unico: l’uomo sapeva che quando muoveva la sua mano era in lui l’elemento divino a pervaderlo, a muovere la sua mano o il suo braccio.

 

La visione di un albero scosso dal vento non era diversa per lui dalla visione del suo braccio in movimento.

Egli vedeva la stessa potenza divina, la provvidenza, nei suoi movimenti e nei movimenti dell’albero.

Però si faceva già la distinzione tra il dio esterno e il dio interiorema si pensava che il dio nella natura e il dio nell’uomo fossero una unità.

Era chiaro a ognuno in quel tempo che comunque nell’uomo si incontravano  la provvidenza che è fuori nella natura e la provvidenza che è nell’uomo.

 

In quel tempo si concepiva nello stesso modo il processo di respirazione dell’uomo.

Si diceva che quando un albero è scosso, agisce il dio esterno, quando io muovo il braccio agisce il dio interiore.

Quando io aspiro l’aria, la elaboro interiormente e poi la riemetto, è il dio esterno che entra in me e poi torna fuori.

Così si sentiva lo stesso elemento divino fuori, dentro, ma in un unico punto contemporaneamente fuori e dentro.

Ci si diceva: in quanto sono un essere che respira, sono un essere della natura esterna e nel contempo me stesso.

 

Se devo caratterizzare la concezione del mondo del terzo periodo di civiltà in modo corrispondente a come l’ho fatto con una linea per quello paleopersiano (vedi disegno precedente) devo aggiungervi quest’altra linea (nell’ovale vien disegnata una lemniscata, come nel primo disegno che segue).

Questa linea rappresenta

• da una parte l’esistenza naturale esterna,      • dall’altra parte l’esistenza umana:  esse si incrociano in un punto, nel processo respiratorio.

 

Ciò cambia nel quarto periodo, quello greco-latino:

• qui si presenta all’uomo la brusca differenza tra esterno e interno, tra esistenza naturale e esistenza umana.

L’uomo comincia a sentirsi contrapposto alla natura.

Per caratterizzare il modo in cui l’uomo comincia a sentire nel periodo greco, dovrei disegnarlo così (la parte più interna nel disegno che segue).

 

 

• Da una parte egli percepisce l’esterno,    • dall’altra l’interno,      •   e tra i due non c’è più il punto d’incrocio.

Quel che l’uomo ha in comune con la natura resta fuori dalla coscienza, scompare dalla coscienza.

 

Nella concezione indiana dello yoga si cerca di riportarlo nell’interiorità, e perciò essa è un ritorno atavico a stadi precedenti di sviluppo dell’umanità, in quanto cerca di riaccogliere nella coscienza il processo respiratorio, quello che nel terzo periodo veniva sentito in maniera naturale, quello in cui ci si sentiva contemporaneamente fuori e dentro.

 

Il quarto periodo iniziò nell’ottavo secolo a.C., e fu allora che cominciarono quegli esercizi tardo-indiani di yoga  che cercavano appunto di richiamare in maniera atavica quanto si era posseduto una volta, specialmente nella civiltà indiana, e che era andato perduto.

Era dunque andata perduta la coscienza del processo respiratorio, e se ci chiediamo perché la concezione indiana dello yoga cercava di richiamarla, che cosa credeva così di ottenere, si deve rispondere che quello che essa cercava di raggiungere era una reale comprensione del mondo esterno poiché, per il fatto che nel terzo periodo di civiltà era stato compreso il processo respiratorio, era stato trovato nella propria interiorità un elemento interiore che era nello stesso tempo esteriore.

Questo deve essere nuovamente raggiunto, ma per un’altra via.

 

Nonostante che il quarto periodo di civiltà termini circa nell’anno 1413, dunque in generale alla metà del secolo quindicesimo, noi viviamo ancora sotto le conseguenze di tale civiltà che comporta nella disposizione d’animo dell’uomo una dualità.

• Tramite la nostra organizzazione del capo abbiamo una concezione incompleta della natura, di quello che chiamiamo il mondo esterno,

• e tramite la nostra organizzazione interna, quella dell’uomo restante,  •  abbiamo una incompleta conoscenza di noi stessi

 

 

In mezzo manca, esula da noi, ciò in cui potremmo vedere contemporaneamente un processo dell’universo e un processo di noi stessi.

Ora si tratta di dover raggiungere di nuovo ciò che è andato perduto, ma questa volta in maniera cosciente.

Vale a dire che dobbiamo di nuovo pervenire a comprendere qualcosa che è nell’intimo dell’uomo, che appartiene contemporaneamente al mondo esterno e all’interiorità, che torna a incrociarsi (vien tracciata una forma a otto intorno alle due fatte in precedenza).

L’aspirazione del quinto periodo di civiltà postatlantico  dev’essere di trovare di nuovo nell’interiorità dell’uomo qualcosa in cui ciò che troviamo in noi costituisca nello stesso tempo un processo esterno.

 

Forse si ricorderà che ho già alluso a questo fatto importante nel mio ultimo articolo apparso sul periodico « Soziale Zukunft » (Il futuro sociale), nel quale esplicitamente ho trattato dell’importanza di queste cose per la vita sociale, ma in cui viene indicato con chiarezza che si deve trovare qualcosa in cui l’uomo raggiunga in sé un elemento  che possa in pari tempo venir riconosciuto come processo Universale.

• In quanto uomini di oggi non lo possiamo raggiungere riportandoci alla concezione yoga che è qualcosa appartenente al passato. Il processo stesso della respirazione si è infatti mutato: non lo si può naturalmente dimostrare clinicamente, ma il processo di respirazione dell’uomo è divenuto un altro dopo il terzo periodo di civiltà postatlantico.

 

Parlando grossolanamente si potrebbe affermare che nel terzo periodo di civiltà postatlantico l’uomo respirava ancora anima e che ora egli respira aria.

Non solo le nostre rappresentazioni sono divenute materialistiche: la realtà stessa ha perduto la sua anima.

 

• Raccomando di non considerare irrilevante quanto ora dico.

Pensiamo infatti che cosa vuol dire che la realtà stessa in cui vive l’umanità sia tanto cambiata che l’aria che respiriamo è un’altra cosa da come era circa quattromila anni fa.

Non solo la coscienza dell’umanità è cambiata; oh no, nella atmosfera della Terra c’era anima ed era l’aria a essere anima.

Ora non lo è più, oppure lo è in altro modo.

 

Vi penetrano di nuovo le entità spirituali di natura elementare di cui ho parlato ieri; e si può respirarle esercitando la respirazione yoga.

Ma non può più essere ottenuto artificialmente ciò che tremila anni fa si otteneva con la respirazione normale.

Che lo si possa riottenere è la grande illusione degli orientali.

Quello che dico adesso corrisponde assolutamente a una realtà: l’aria che circonda l’uomo non è più compenetrata di anima.

 

• Per questo gli esseri, che potrei chiamare antimicheliani e di cui ho parlato ieri, possono penetrare nell’aria e attraverso questa nell’uomo; in questa maniera entrano nella umanità, come l’ho descritto ieri.

Noi li possiamo scacciare se invece dello yoga applichiamo quel che va bene oggi.

• Dobbiamo aver ben chiaro in noi che a questo si deve tendere, e lo si può fare se diveniamo coscienti di una relazione assai più sottile dell’uomo con il mondo esterno, cosicché nel nostro corpo eterico avvenga qualcosa che deve sempre più entrare nella nostra coscienza in modo analogo al processo di respirazione.

• Con il processo respiratorio noi aspiriamo aria fresca ossigenata ed espiriamo anidride carbonica inservibile; un processo analogo ha luogo in tutte le nostre percezioni sensorie.

 

• Immaginiamo di vedere qualcosa e prendiamo il caso di vedere una fiamma, di guardare una fiamma. Qui succede un fatto paragonabile, ma è molto più sottile, all’atto dell’inspirazione. Chiudiamo poi gli occhi (l’esperimento si può fare con ognuno dei sensi), e avremo l’immagine della fiamma che anzi si altera un po’ per volta e, come dice Goethe, riecheggia. A questo processo dell’accogliere l’impressione luminosa e del successivo riecheggiare dell’immagine partecipa molto il corpo eterico umano, anche a prescindere dal lato fisiologico. Ma in questo processo è insito qualcosa di grandissimo significato: vi è ormai l’elemento animico che tremila anni fa si inspirava e si espirava con l’aria.

 

• Dobbiamo imparare a considerare il processo sensorio come pervaso d’anima

• in maniera analoga a come tremila anni fa si considerava il processo respiratorio.

 

Questo dipende dal fatto che, si può affermare, l’uomo di tremila anni fa viveva in una specie di cultura della notte. Jahve si manifestava ai suoi profeti nei sogni della notte.

Noi invece dobbiamo configurare le nostre sottili relazioni con il mondo in modo che, nell’accoglierne le impressioni, non si abbiano solo delle percezioni sensorie, ma vi si aggiunga un elemento spirituale.

 

• Dobbiamo convincerci che con ogni raggio di luce, con ogni suono, con ogni sensazione di calore e con il loro riecheggiare,

• noi entriamo in vicendevole scambio animico con il mondo, e che tale relazione animica deve divenire importante per noi.