L’evento della morte in rapporto col Cristo

O.O. 215 – Filosofia, Cosmologia e Religione – 12.09.1922


 

Nelle prossime conferenze mi propongo di esporre il problema della morte dell’uomo, dell’immortalità dell’anima, in rapporto col Cristo e con l’evoluzione del cristianesimo; oggi dovrò però illuminare nuovamente, da un punto di vista diverso, parte di ciò che ho già esposto in precedenza.

 

Osservando con la coscienza ordinaria le due condizioni che si alternano nella vita giornaliera dell’uomo, la veglia e il sonno, si presenta anzitutto il fatto che durante il sonno è eliminata la percezione sensoriale, ma è spento anche tutto l’insieme delle esperienze psichiche costituite dal pensare, dal sentire e dal volere.

 

Nel sonno risulta in realtà spento tutto ciò che durante la veglia si riassume nel nome del nostro sé.

Ora, mediante l’immaginazione, l’ispirazione e l’intuizione

si riaccende, pezzo per pezzo, ciò che nel sonno risulta spento.

 

Per suscitare il pensare immaginativo, la meditazione deve dapprima valersi del pensiero ordinario. Ho già esposto come si usino pensieri per giungere, meditando, alla conoscenza immaginativa.

Proprio con riferimento al problema della morte è necessario esporre ancora una volta e più chiaramente ciò che la conoscenza iniziatica sperimenta sulla sua via: solo così risulterà evidente il rapporto in cui l’uomo viene a trovarsi col proprio corpo fisico e con la propria natura animico-spirituale, una volta sopravvenuta la morte.

Se si tratta il pensare nel modo che ho descritto, si fa per prima l’esperienza che, sentendosi con tutta la propria anima fuori dall’organismo fisico, per un certo tempo non si può pensare affatto: per un breve intervallo di tempo, il pensare viene meno.

 

Per sperimentare questo momento in piena consapevolezza, sono necessari un certo coraggio, una certa energia interiore e anche una certa presenza di spirito.

Poi però destandosi si osserva di sperimentare in sé un’attività psichica molto più intensa di quella che si svolgeva prima: il pensare riprende.

 

Il progresso si compie dunque in questo modo:

• dapprima si ha la coscienza ordinaria

(e va sottolineato che nella vera immaginazione la coscienza ordinaria permane):

ma bisogna di continuo trasferirsi nell’altra condizione e poi di nuovo ritornare a quella di partenza.

 

• Ma mentre per la coscienza ordinaria si conserva naturalmente il consueto quadro terreno,

entrando nell’altra condizione si perde in certo senso la facoltà di produrre pensieri;

continuando però a meditare, si manifesta un’attività accresciuta e si consegue ora un’esperienza di pensiero rafforzata.

 

• Mentre nella coscienza ordinaria i pensieri vengono per lo più sperimentati come relativi al mondo esterno,

o a dei ricordi, o come pensieri confusi emergenti dalla sfera dei sentimenti e delle emozioni,

ora si mette in moto un pensare differente, del quale ho pure già parlato:

• si riesce grazie ad esso ad accogliere attivamente nella coscienza il corso della propria vita,

dalla nascita al momento attuale, e si tratta veramente di uno strato più profondo di quello dominato abitualmente.

 

Ho già detto che non si tratta dei ricordi che si hanno anche nella coscienza ordinaria, ma di uno strato più profondo.

Si getta realmente lo sguardo in un divenire eterico

che edifica e compenetra l’organismo fisico e lo ha sempre compenetrato.

 

Tutto quello che si è svolto a partire dalla nascita,

• l’accrescimento prodotto nell’organismo fisico, l’elaborazione plastica dei singoli organi,

quella delle nostre facoltà di pensiero, di sentimento e di volontà, tratte dalle profondità dell’organismo,

tutto quanto sta in rapporto con una vita reale abitualmente nascosta alla coscienza:

tutto emerge sotto forma di pensieri attivi, sostanziali e sperimentati interiormente.

 

• Partendo dal pensare abituale si passa per così dire oltre un abisso,

per giungere a un pensare che sperimenta il proprio corpo eterico.

 

Nello scoprire in tal modo il pensare immaginativo, occorre prestare molta attenzione a quanto ci viene a mancare, nei momenti in cui ci si trova in questo tipo di pensiero.

La prima cosa che viene a mancare sono i ricordi. Si hanno i ricordi nella coscienza ordinaria, accanto alla quale però si sviluppa l’altra coscienza, quella immaginativa: in questa non esistono ricordi. Si può cercare di comprenderlo, tenendo presente quanto segue.

Anche quando ci si ricorda, come avviene in tutte le esperienze della coscienza ordinaria, in realtà si vive nel presente.

Si percepisce quello che attualmente si trova di fronte a noi; si pensa sulle cose presenti; e quando ci si ricorda di cose passate si tratta pur sempre di un’immagine che nel momento presente si riferisce al passato.

La coscienza ordinaria sperimenta dunque il presente.

 

La coscienza immaginativa sperimenta il corso della propria vita

in modo che le sue diverse parti vengono vedute tutte insieme,

cioè come se le cose che si sono svolte nel tempo fossero disposte quali sono disposte le cose nello spazio.

 

Come di solito nella percezione sensoriale si sperimenta una cosa accanto all’altra,

contemporaneamente, così si sperimenta contemporaneamente il proprio passato terrestre.

Il tempo diventa come lo spazio.

Si trovano allora davanti all’anima gli eventi vissuti all’età di trenta, di diciotto, di dieci, di sette anni, di cinque anni,

gli uni accanto agli altri.

 

• In questo dunque le esperienze della coscienza immaginativa si distinguono da quelle della coscienza ordinaria:

quest’ultima vive nel presente, per il passato essa possiede soltanto il ricordo.

• La coscienza immaginativa invece vive in tempi diversi,

ma in modo che i tempi si presentano all’anima tutti in una volta.

 

Come ho detto, i ricordi, i pensieri-ricordo vengono a mancare, in un primo momento: è realmente così.

Il fatto di avere una memoria, dei ricordi, tanto utile per la vita nella coscienza ordinaria,

viene a mancare nella coscienza immaginativa.

Siccome si ha con sé il proprio essere umano naturale, ovviamente si conserva nell’uomo ordinario la facoltà del ricordo, quale era in precedenza; ma non si ha la memoria per quello che si sperimenta in quel momento.

Supponiamo che un tale voglia sperimentare mediante la coscienza immaginativa il corso della vita e che si proponga di sperimentarlo in tre giorni. Egli non potrà ricordare, al secondo giorno, ciò che avrà sperimentato nel giorno precedente; dovrà ripetere le stesse operazioni che lo portano a sperimentare immaginativamente il corso della propria vita. Dovrà rinnovare lo sforzo per giungere a quella esperienza.

 

Proprio come un oggetto fisico reale non si ripresenta materialmente quando lo si ricorda, ma per trovarselo di fronte occorre riportarsi nella condizione di poterlo percepire, così non si può semplicemente evocare mediante il ricordo neppure ciò che adesso si sperimenta nella immaginazione, cioè il proprio corpo eterico, proprio per il fatto che è qualcosa di reale. Esso deve venire nuovamente percepito.

Questo è un fatto che delude molte persone che compiono tali esercizi dell’anima. Esse si esercitano per un certo tempo, raggiungono anche qualche risultato, possono percepire qualcosa. A questo punto, credono che questa veggenza rimanga loro possesso permanente, credono di poterla in ogni momento risvegliare nel ricordo. Ma non possono farlo, e rimangono delusi.

 

Gli sforzi necessari a riprodurre interiormente quelle esperienze vanno ripetuti sempre di nuovo. Eccone un esempio: ammettiamo che una persona tenga una conferenza, fondandosi sulla moderna scienza della meditazione; essa non potrà avere tradotto in precedenza in idee astratte tutto quanto ha da dire, ma parlerà con la visione diretta delle cose. Perciò non potrà prepararsi alla conferenza nel modo solito, imparando a memoria il contenuto dei suoi appunti.

 

• Si possono imparare a memoria le cose relative al mondo fisico,

ma non quelle che si riferiscono a una coscienza immaginativa,

perché queste debbono essere prodotte sempre di nuovo.

Si può anche prepararsi, ma questa preparazione è una specie di esercizio.

 

È come quando ci si esercita per acquistare una capacità: in questo modo il rimeditare, il riesercitarsi riesce utile per poter comunicare qualcosa dai mondi spirituali. Però, se il contenuto deve veramente scaturire vivo dal mondo spirituale, deve essere prodotto al momento stesso. In questo modo la sua espressione, la sua formulazione risente direttamente della matrice spirituale.

Mi si vorrà perdonare se, parlando di queste cose, toccherò anche una nota personale. Io posso aver già parlato su un certo tema trenta o quaranta volte, ma non mi riesce affatto più facile il parlarne per la trentesima vòlta. Incontro esattamente la stessa difficoltà della prima volta, poiché si tratta sempre dello stesso processo.

La base necessaria per questo processo è il raccoglimento, la quiete, perché l’anima possa produrre quello che si cerca.

 

Forse non sarebbe necessario ma per maggiore chiarezza vorrei fare un’osservazione: dal punto di vista di cui sto parlando, un uditorio che si aspetta che una persona gli esponga qualcosa dal mondo spirituale è spesso veramente crudele verso l’oratore.

Nel senso (e naturalmente i presenti sono sempre esclusi!) che prima di una conferenza di natura spirituale capita che molti dei presenti si facciano avanti con domande d’ogni genere.

Questo non sarebbe niente di grave nel caso di una conferenza di tipo accademico, ma nel nostro caso sarebbe opportuno tener conto del fatto che un istante più tardi certe conoscenze dovranno essere ricavate dal mondo spirituale.

Ho dunque cercato di esporre l’esperienza soggettiva della coscienza immaginativa.

 

• Per il fatto di sapere in se stessi come emerga quel pensare attivo e vivente che ha per contenuto il corso della propria vita, si conosce pure ciò che per sua natura è il pensare ordinario.

Prendendo le mosse dalla coscienza immaginativa si può ora guardare indietro al pensare ordinario, e si giunge a riconoscere che esso non ha in sé alcuna realtà.

 

Di fatto, ogni uomo si vale della facoltà dell’immaginazione; solo che lo fa incoscientemente, avendo in sé questo pensare sostanziale.

Siccome però non ha rafforzato a sufficienza le forze dell’anima, egli è animicamente troppo debole per portarsi a coscienza quanto sta dentro di lui: perciò quando vuole pensare si vale sempre del suo corpo. Questo diventa per lui la base per il pensare ordinario. Ma che cosa avviene in realtà?

Quell’attività interiore che è un immaginare incosciente (anche nella coscienza ordinaria) si rivolge verso l’organismo fisico e s’immerge in esso.

 

Ciò che nella conoscenza immaginativa si illumina come pensare attivo, ma che abitualmente si ignora e rimane incosciente, nella coscienza abituale si rifugia nell’organismo fisico e di esso si serve; é viene poi riflesso sotto forma di immagini speculari interiori, appunto, perché non conosce la propria natura e rimane incosciente.

Quelle immagini speculari sono i pensieri ordinari: essi sono privi di realtà, come lo sono le immagini dello specchio, in confronto agli oggetti rispecchiati.

Qualcosa ci viene riflesso dal nostro corpo fisico: si tratta dei pensieri che entrano nella coscienza ordinaria, mere immagini rispecchiate.

Chi sperimenta questi pensieri non sperimenta quindi alcuna realtà sostanziale.

 

Nei pensieri della coscienza ordinaria non esiste succo vitale, né forza reale.

• Invece è presente sostanza nel pensare, dal momento in cui si mette in moto il pensare attivo nella immaginazione.

In ogni pensiero scaturito dall’immaginazione vi è sostanza, succo e forza.

Sperimentandolo, si sa di vivere entro la forza che ci ha portati dall’essere stati bambini all’essere adulti.

 

La conquista del pensare immaginativo significa infatti

passare intanto dalla realtà ordinaria alla realtà eterica.

 

Con ciò si acquista però il primo accenno di una conoscenza del corpo fisico: si scopre nel corpo fisico una specie di specchio che ci riflette i pensieri, In tal modo si comincia ad accostarsi al problema della morte: non è infatti possibile affrontare questo problema prima di avere come oggetto il proprio corpo fisico.

 

Se dopo la morte l’uomo esiste ancora sostanzialmente, non è certo presente nel suo corpo fisico.

Se quindi durante la vita si vuole risolvere il problema della morte,

bisogna trovarsi fuori del corpo fisico e osservarlo oggettivamente,

come lo si ha al proprio fianco, fuori di sé, dopo la morte.

Questa è la caratteristica del modo in cui si può cominciare ad avviarsi verso una soluzione del problema della morte.

 

• Mediante una conoscenza del tipo di quella che ho descritta, ci si mette in grado di giudicare veramente

quale sia il rapporto della parte animico-spirituale dell’uomo con la componente fisico-corporea.

• Solo mediante la visione oggettiva dell’organismo fisico, dell’organismo eterico e dell’animico-spirituale mediante la conoscenza immaginativa e anche gli altri metodi dell’osservazione soprasensibile, solo così si può giungere a conoscere il rapporto fra le due parti nelle diverse condizioni della vita.

 

• Perciò è eccezionalmente importante il tener presente che, nella conoscenza soprasensibile della quale io sto parlando, l’uomo conserva, accanto a tutte le altre esperienze conoscitive, la coscienza ordinaria della vita desta diurna.

Se dunque si osserva, già nella coscienza immaginativa, qualche particolare della propria vita passata (ad esempio il modo come certe disposizioni si sono delineate quando avevamo nove o dieci anni, o come si sono mostrate certe tendenze morali, ecc.), si contemplano questi fatti avendo presente l’unità del fisico e dell’animico intorno al decimo anno d’età. Si guarda a ciò che si è svolto nell’organismo in quel periodo della vita.

Occorre però conservare intatta la coscienza ordinaria: bisogna cioè saper osservare quel periodo della vita con un tipo di conoscenza che trasmette qualcosa che di solito rimane incosciente; ma d’altra parte bisogna poter sapersi rappresentare subito volontariamente i normali ricordi che ci riportano a quegli anni.

• Bisogna sempre essere in grado di confrontare una cosa con l’altra: la coscienza superiore e la coscienza ordinaria.

 

• Come nella coscienza ordinaria si passa da un pensiero all’altro,

così bisogna poter passare da quanto si sperimenta nella coscienza immaginativa

a quello che si sperimenta con la coscienza ordinaria.

Questa caratteristica della coscienza superiore di cui qui si intende parlare è particolarmente importante.

 

Tutti coloro che giudicano solamente dall’esterno l’indagine antroposofica credono spesso che il contenuto dell’immaginazione debba essere respinto, come un qualsiasi contenuto di coscienza di un visionario o di un allucinato.

Bisogna invece rilevare la differenza radicale che esiste fra la vera immaginazione e la visione.

Certo, anche la visione presenta all’uomo un contenuto di immagini, ma egli si identifica del tutto con la sua visione; finché questa dura, la sua coscienza è trasportata del tutto nella visione, ed egli è incapace di passare volontariamente da quella alla coscienza ordinaria.

 

Il soggetto della conoscenza immaginativa al contrario non ha trasformato in una visione la propria coscienza ordinaria, ma ha arricchito la coscienza ordinaria con la coscienza immaginativa.

Il contenuto di quest’ultima si è semplicemente aggiunto a ciò che si possiede già nella coscienza ordinaria.

Perciò proprio il soggetto della immaginazione respinge decisamente la comune esperienza visionaria, pur essendo in grado di comprendere la situazione in cui si trova chi ha una visione.

 

Chi ha raggiunto il livello di conoscenza di cui si sta ora trattando, può infatti distinguere esattamente l’attività dell’anima e come essa si serva dell’organismo fisico per farsi rispecchiare i pensieri.

Colui che esplica la conoscenza immaginativa e quella ispirata conosce quale sia il rapporto fra l’anima e il corpo fisico nella coscienza ordinaria normale; perciò è in grado di giudicare anche la condizione del visionario.

In quest’ultimo l’anima non si è affatto liberata dal corpo fisico.

Chi esplica l’immaginazione sa che cosa significa che l’anima sia libera dal corpo fisico, poiché egli ha veramente tratto fuori dal proprio corpo fisico l’anima, rendendola attiva. Contemplando invece un visionario, egli vede che l’anima è immersa nel corpo fisico più a fondo del solito, di quando cioè essa percepisce il mondo esterno nella coscienza ordinaria.

 

Ecco la differenza fra chi esplica l’immaginazione e il visionario: quest’ultimo è immerso nelle funzioni del corpo più profondamente che nella vita ordinaria, mentre nell’esplicazione della immaginazione si verifica una vera fuoruscita dall’organismo fisico, pur rimanendo del tutto conservato il normale contenuto dell’anima nell’organismo fisico.

Se non si distingue l’enorme importanza di tale differenza, si farà sempre confusione tra l’immaginazione e l’esperienza visionaria.

La immaginazione è sottoposta di continuo al rigoroso controllo del pensare ordinario, mentre l’esperienza visionaria non è sottoposta a nessun controllo: in essa l’uomo si trova immerso più a fondo nel suo corpo fisico, sì che ciò che gli appare come una visione può essere soltanto un’indisposizione del suo fegato o dello stomaco alla quale va soggetto anche nella vita ordinaria, ma in cui ora è completamente immerso.

 

Chi esplica la conoscenza immaginativa non ha invece niente a che fare con i suoi organi, ma guarda coscientemente una parte dell’anima che prima era incosciente. In tal modo la coscienza immaginativa non allontana dalla coscienza ordinaria, verso un’esperienza visionaria, come molti credono; al contrario, la disciplina per conseguire la coscienza immaginativa è un mezzo per prevenire ogni esperienza di tipo visionario.

Non ci si sviluppa in direzione delle visioni, ma nella direzione opposta: per liberarsi dall’organismo fisico, per aggiungere all’uso dell’organismo fisico quello dell’anima (cominciando da quello dell’eterico), ai fini di un’esperienza sostanziale.

 

Nella vita ordinaria, il sostanziale è il corpo fisico; ciò che si possiede in più del corpo fisico, sono i pensieri puramente riflessi, privi di sostanza e di una reale attività interna. Proprio il contrasto fra le esperienze percettive soprasensibili, quali sono qui intese, e le esperienze visionarie può mettere nella giusta luce ciò che si deve intendere come immaginazione, come ispirazione e come intuizione nella coscienza superiore.

Si può poi rendersi conto come da questo tipo di conoscenza si apprenda gradualmente quale sia il rapporto dell’animico-spirituale con il fisico-corporeo.

Si riconosce che una vita visionaria ha origine per il fatto che in una data persona, durante l’esistenza terrena, l’anima si immerge più profondamente che di norma nel corpo fisico. Però si riconosce pure che cosa significhi trovarsi fuori del proprio corpo fisico e quale sia, in tale condizione, l’esperienza dell’anima.

 

• In questa esperienza psichico-spirituale fatta fuori del corpo

si sente e si prefigura come si debba vivere quando non si ha più un corpo fisico.

Si tratta di risolvere il problema della morte durante l’esistenza terrena fisica,

mediante il trasferimento in una condizione di vita qual’è quella in cui non si dispone più di un corpo fisico.

 

Prego di voler comprendere che sto cercando di mostrare come si possa, con ogni cautela di pensiero, delineare il problema della morte; è infatti un problema, questo della morte, che oggi per lo più viene affrontato in modo dilettantesco.

Vorrei invece mostrare come proprio l’indagine antroposofica lo affronti realmente con ogni possibile cautela di pensiero. Perciò non ho esitato a condurre la conferenza odierna in modo più rigoroso, per creare una base solida allo studio del problema della morte.

Ho spiegato come, ricorrendo alla conoscenza immaginativa, ispirativa, ecc. si pervenga a distinguere da un lato l’elemento animico-spirituale, dall’altro quello corporeo-fisico, e come si riesca a scorgere, in ogni situazione della vita umana, il rapporto reciproco fra l’uno e l’altro.

 

Qualche giorno fa ho descritto come l’uomo, quando discende dal mondo spirituale, cooperi alla formazione del proprio organismo fisico, come poi l’organismo gli sfugga e come egli lo ritrovi in altro modo, attraverso la concezione e la nascita.

Ho esposto inoltre come si presenti il problema della nascita, quando lo si affronti dal punto di vista dell’esistenza preterrena.

Adesso però, in questo preciso momento, vorrei concentrare l’attenzione sull’esistenza terrena stessa, in quanto essa si interpone fra l’evento della nascita e quello della morte; se si vuole a poco a poco giungere a comprendere la morte, si deve poterla collegare, attraverso l’esistenza terrena, con la nascita, o per l’esattezza con la concezione.

 

• Proprio se si riconosce il rapporto della componente animico-spirituale nell’esistenza preterrena con il corpo fisico che si possiede durante la vita terrena, si scopre che una parte dell’animico-spirituale (e precisamente una parte che si possiede anche nell’esistenza preterrena) si trasforma completamente, passando per la concezione e per la nascita.

Questa precisa parte dell’animico-spirituale in realtà scompare; è ancora presente nella esistenza preterrena, e si tratta di quella parte dalla quale si sviluppa il pensare. Nell’esistenza preterrena è ancora presente, ma scompare (in quanto animico-spirituale) nel momento in cui si scende sulla Terra.

Nel bambino in tenera età ne permangono ancora dei residui,

ma poi questa parte dell’animico-spirituale scompare gradualmente.

 

Che cosa ne è avvenuto?

La parte che in tal modo scompare si è trasformata

nella vita e nella forma dell’organizzazione della testa.

 

Bisogna dunque capire con precisione che

• sarebbe del tutto errato credere che nell’esistenza preterrena

esista tutto quanto forma l’animico-spirituale dell’uomo,

e che poi sulla Terra esso riceva come una casa il proprio corpo,

che l’animico-spirituale vi penetri e poi si trovi là dentro.

 

Per la parte dell’anima della quale sto ora parlando, una tale concezione sarebbe del tutto sbagliata.

Quella parte scompare e si trasforma in qualcosa di veramente materiale, di fisico,

cioè nella organizzazione del nostro capo.

• La vita e la forma dell’organizzazione della testa sono la trasformazione fisica

di una parte animico-spirituale della nostra esistenza preterrena.

 

• L’intera organizzazione della testa, col suo contenuto, con tutti i nervi che vi penetrano, coi suoi vasi sanguigni, tutto questo è il prodotto di trasformazione di una parte dell’esistenza preterrena dell’uomo.

Questa parte della vita animica preterrena si trasforma nell’organizzazione del capo.

E per il fatto di tale trasformazione, per il fatto di avere nella testa una vera riproduzione fisica della nostra esistenza preterrena, per questo il capo è un vero e proprio specchio capace di riflettere pensieri. Esso è divenuto tale, in quanto si è formato e ha ricevuto vita, come cosa fisica, dai pensieri sperimentati nell’esistenza preterrena.

Per questo è diventato lo specchio per i pensieri che noi ci formiamo sulle percezioni.

 

Sull’altra faccia per così dire della vita psichica va invece emergendo quella parte dell’anima

che, nel passare attraverso la concezione e la nascita, non si trasforma in un corpo fisico,

ma viene a trovarsi solo in un tenue legame con l’organizzazione del nostro ricambio e degli arti.

• Si tratta di quella parte della vita dell’anima il cui riflesso si sperimenta come volontà nella coscienza ordinaria.

 

Si confronti il volere col pensare.

Nella vita del pensiero l’uomo è sempre pienamente cosciente, è desto:

in fondo, vegliare vuol dire vivere in rappresentazioni. Non così per il volere.

 

Si osservi la più semplice delle volizioni, l’atto di sollevare un braccio o una mano: che cosa se ne trova nella nostra coscienza desta? Prima di tutto il pensiero: io alzo la mano. Poi avviene qualcosa che si svolge nelle profondità della nostra organizzazione; se ne sperimentano, è vero, delle sensazioni oscure, talora anche delle emozioni, ma quello che poi si torna a sperimentare in modo veramente chiaro e desto è il risultato dell’azione: la mano è alzata.

La cosa è chiarissima: la vera essenza del volere, che ha luogo nelle profondità dell’organismo fra l’una e l’altra di quelle due condizioni coscienti, rimane altrettanto inconscia per la coscienza comune, quanto gli eventi durante il sonno.

 

Nella nostra vita di pensiero siamo desti;

nella vera e propria volizione, dormiamo, anche se siamo svegli.

Questa vita di sonno parziale che si manifesta nel nostro volere compenetra dunque anche il nostro stato di veglia.

In una parte della nostra anima noi dormiamo sempre, anche quando siamo desti,

e precisamente nella parte in cui ha radice il volere.

 

Questa è proprio la parte dell’anima che non si trasforma in organizzazione fisica,

quando passa attraverso la concezione e la nascita.

Dopo la nascita, una parte dell’anima riappare qui nel mondo fisico come organizzazione della testa.

L’organismo del ricambio e delle membra invece non è una riproduzione diretta dell’altra parte dell’anima:

esso è nato dal mondo fisico e l’altra parte dell’anima gli è solo debolmente congiunta,

sì che l’organismo del ricambio e delle membra non rispecchia le esperienze dell’anima.

 

Ecco perché l’uomo dorme, per quanto concerne il suo volere, e anche per quanto riguarda il suo sistema del ricambio: sotto questi due aspetti, egli dorme anche quando è desto.

Per l’osservazione soprasensibile questa parte dell’anima (considerata nel suo rapporto con l’organismo fisico) è del tutto simile a come sono, nell’organismo fisico dell’uomo, l’io e il corpo astrale durante il sonno.

 

L’uomo è per l’appunto un essere molto più complicato di quanto si creda di solito. Esistono certe descrizioni del soprasensibile che si limitano ad affermare: quando l’uomo è sveglio, il suo animico-spirituale si trova dentro l’organismo fisico-eterico; quando dorme, è fuori. Ma le cose non sono così semplici: in questo modo ci si può al massimo esprimere per l’organizzazione della testa, non per la rimanente organizzazione dell’uomo. Infatti, per quanto riguarda la rimanente organizzazione, una parte dell’anima dorme anche quando l’uomo è sveglio.

Questa parte della vita dell’anima dorme dunque, ed essa emerge da oscure profondità dell’organizzazione umana soltanto in determinate rappresentazioni; si riesce a percepirla nel momento in cui si raggiunge la conoscenza più alta, l’intuizione, la quale, come ho già detto, è appunto un risultato di esercizi della volontà.

Per mezzo suo s’impara a guardare in una zona che di solito nella vita di veglia è sempre velata, s’impara cioè a guardare entro i misteri del volere umano.

 

Il volere è un mistero anche per la vita di veglia, un mistero che la ispirazione manifesta in parte,

ma che solo l’intuizione svela.

E per quanto paradossale possa sembrare,

una volta che l’uomo sia riuscito a scoprire la vera natura del proprio volere,

gli si schiude anche il mondo divino-spirituale.

 

Nella organizzazione del capo il mondo spirituale si cela come trasformazione fisica:

in quella parte dell’uomo quindi ben poco del mondo spirituale si può scoprire.

In fondo, la testa è la parte meno spirituale dell’uomo.

Nel restante organismo invece si trova nascosta la vita animica inalterata quale è propria dell’uomo

anche nell’esistenza preterrena, quando non c’è né l’organizzazione fisica, né quella eterica.

 

In quanto di lui vive alle basi del volere,

l’uomo è completamente spirito anche fra la nascita e la morte,

sì che per mezzo dell’intuizione si può conoscere come stiano le cose riguardo allo spirito.

 

• Questa componente spirituale, che si svela alla intuizione come l’entità che sta a fondamento del volere,

si manifesta come ciò che ha raccolto tutte le attività e gli impulsi psichici intellettuali,

tutti gli impulsi e le inclinazioni morali dell’anima, messi in opera durante l’esistenza terrena.

 

L’ho già fatto osservare una volta da un altro punto di vista:

• tutto ciò diventa la parte più giovane dell’anima,

la parte che durante la nostra attuale esistenza terrena si comporta come in una specie di vita embrionale:

diventa la parte che si trova all’inizio di un divenire.

 

• Osservandola, si scorge qualcosa nell’interiorità umana

che vive andando incontro alla morte, per nascere veramente mediante la morte,

• come nell’esistenza preterrena l’anima vive andando incontro alla vita terrena,

per nascere alla vita terrena attraverso la concezione e la nascita.

 

Al disotto del nostro volere vive un embrione animico che se riconosciuto nella sua vera natura, rappresenta una vita embrionaria, e mostra che con la morte nascerà a una nuova vita spirituale: proprio come nell’esistenza preterrena l’anima umana mostra che con la nascita entrerà nella vita terrena.

 

Per conoscere l’esistenza fisica

si tratta dunque di imparare a conoscere anzitutto entro l’esistenza soprasensibile

l’entità animica che sta a fondamento del volere.

 

Con queste considerazioni abbiamo compiuto un altro passo per accostarci al problema della morte; le porterò avanti, proponendomi di mostrare nella conferenza successiva il rapporto fra questo problema e il problema del Cristo.

• Una conoscenza come quella svolta nelle considerazioni che precedono permette di dominare con lo sguardo l’evoluzione del nucleo essenziale eterno dell’uomo attraverso l’esistenza preterrena, l’esistenza terrena e l’esistenza dopo la morte.

 

A un’osservazione spregiudicata si presenta qui un enigma poderoso; esso risulta dall’osservazione di come si acquista la coscienza dell’io.

Dalla conferenza precedente è risultato che la coscienza dell’io è dipendente dall’organismo fisico, dato che nel corso dello sviluppo terreno dell’uomo essa nasce soltanto nel momento in cui egli può servirsi nella coscienza ordinaria esclusivamente del suo organismo fisico.

 

Proprio su questo punto la conoscenza immaginativa, ispirativa e intuitiva insegna con ogni evidenza

• che noi uomini acquistiamo la nostra coscienza dell’io qui nel mondo fisico, fra nascita e morte,

• e che l’acquisizione di tale coscienza dell’io è connessa con l’uso del corpo fisico.

Senonché il corpo fisico ci viene meno dopo la morte.

 

• Secondo una concezione come quella che ho caratterizzato anche in questa conferenza odierna,

la vita animica sperimentata dall’umanità terrestre prima che si sviluppasse la coscienza dell’io

non può manifestarsi, nella sua essenza eterna, che come procedente

dall’esistenza preterrena attraverso l’esistenza terrena fino all’esistenza successiva alla morte:

cioè in altre parole, sotto forma di ripetute vite terrene.

 

• Ma per la coscienza dell’io, quale viene a un certo punto acquistata, esiste senz’altro una certezza assoluta:

la coscienza dell’io si acquista mediante l’uso del corpo fisico,

e anzi si è appreso a usare il corpo fisico

in modo da far scaturire la coscienza dell’io solo nel corso dell’evoluzione dell’umanità,

e precisamente nel tempo in cui ebbe luogo anche il mistero del Golgota.

• Perciò è altrettanto certo, poiché perveniamo alla coscienza dell’io mediante il corpo fisico,

che si debba temere di perdere tale coscienza dopo la morte.

Questo è uno dei problemi che la morte pone.

 

• Abbiamo veduto che il nucleo essenziale eterno, quale ci si rivela nel pensare, nel sentire e nel volere,

si manifesta trasformato nel pensiero, come mera immagine speculare,

e che in esso non vi è che la vita animica passata, trasformata nell’organizzazione della testa;

• abbiamo poi veduto che il volere è il riflesso di ciò che nel restante organismo umano

conduce un’esistenza embrionaria, per nascere solo dopo la morte.

 

Se dunque siamo in grado di comprendere effettivamente sotto questo riguardo la vita dell’anima,

dobbiamo invece provare una vera paura, e non per moventi affettivi deteriori,

ma proprio una paura fondata sulla conoscenza.

La paura nasce dalla domanda: che cosa portiamo oltre la morte del nostro organismo fisico?

Il corpo fisico con la morte va infatti distrutto.

 

Se per mezzo suo abbiamo acquistato la coscienza dell’io, ecco che nasce la paura

(una paura scientificamente del tutto giustificata) dovuta al problema:

in che modo portiamo oltre la morte la coscienza del nostro io?

 

Solo il mistero del Golgota può risolvere questo problema.

• L’umanità non potrebbe mai portare al di là della morte la coscienza dell’io sviluppatasi entro il corpo fisico,

se questa coscienza non si congiunge col Cristo.

Egli la mantiene viva quando essa dovrebbe dissolversi dall’anima umana insieme al corpo fisico.

 

La coscienza dell’io viene acquisita mediante il corpo fisico.

Insieme a quest’ultimo essa andrebbe dissolta nella morte,

se l’io non fosse congiunto col Cristo, conforme al pensiero paolino

«Non io, ma il Cristo in me»: infatti il Cristo la prende e la porta attraverso la morte.

 

Cercherò nel seguito di queste conferenze di chiarire nei particolari come ciò avvenga,

come il Cristo sia l’entità che ci consente di salvare oltre la porta della morte la coscienza del nostro io.

 

• Solamente a un’indagine antroposofica qual’è qui intesa si svela

tutto il significato del problema del Cristo per la vita umana.

 

Del resto, l’importanza di una tale conoscenza ha inizio già con la comune filosofia.

La filosofia ordinaria viene destata a una vera vita interiore e consegue una vera conoscenza di se stessa

solo se può essere nutrita dalla conoscenza immaginativa.

 

Si voglia tener presente quello che ho esposto all’inizio di questa odierna conferenza: ho detto che

se mediante la meditazione si procede alla conoscenza immaginativa,

si passa per così dire sopra un abisso.

Il pensare cessa: fra il pensare ordinario e il pensare immaginativo, attivo e pieno di vita,

vi è un non-pensare.

 

Alcuni filosofi hanno avuto sentore di questo non-pensare, ma non sono stati capaci di interpretarlo giustamente:

così ad esempio Sant’Agostino e Cartesio.

Essi parlano del dubbio che sta all’inizio del filosofare.

Il dubbio di cui parlano Agostino e Cartesio non è che il riflesso nella coscienza ordinaria

di quella condizione di «non-pensare» in cui ci si trova fra il pensare ordinario e quello immaginativo.

 

Poiché né Agostino, né Cartesio avevano realmente immerso la loro anima in quel «non-pensare»,

essi non scoprirono l’esperienza stessa, ma solo il riflesso rispecchiato di ciò che si sperimenta quando

(fra il pensare ordinario e il pensare immaginativo)

viene meno il pensare in genere, e in particolare quello fondato sul ricordo.

 

Il dubbio di un Agostino o di Cartesio è solo l’immagine (riflessa nella coscienza ordinaria) dell’esperienza che si fa solo nel trapassare alla coscienza immaginativa. Così si riesce a comprendere giustamente quello che si mostra in modo indistinto nella mera filosofia delle idee, se lo si osserva alla luce della filosofia immaginativa.

 

Ho pure mostrato come con la conoscenza che permette di sperimentare il proprio corpo eterico, si riesca a scorgere come un’unità il corso della propria vita, e come si presentino gli uni accanto agli altri i fatti che nel tempo formano il corso della vita.

Grazie a questo tipo di conoscenza, si scorge contemporaneamente ciò che di solito si sperimenta successivamente, come di solito avviene per gli oggetti nello spazio.

Questo è stato sentito per esempio dal Bergson, quando ha sviluppato la sua idea della «durata». Essa ha una parte importante nella filosofia del Bergson, ma nel modo in cui egli la presenta è solo un presagio della verità.

• La verità è la visione immaginativa del tempo come di un che di contemporaneo, di cose una accanto all’altra.

 

Bergson giunge solo fino al sentimento astratto che, se si penetra più a fondo nella cosa, si possa andare al di là di questo mondo attuale, ma nel presente, sì da sperimentare la durata come tale.

Poiché però il Bergson non vuole portarsi sul terreno di una conoscenza antroposofica, anch’egli arriva solo fino a un’immagine riflessa di quello che nella conoscenza immaginativa si sperimenta, relativamente al tempo vissuto come contemporaneità: e quell’immagine riflessa egli la chiama «durata», durée. Essa assume grande importanza nel suo pensiero. Da qualunque parte si prenda la filosofia, possiamo scoprire che essa riacquisterà vera vita e sostanza se la sua sostanza verrà afferrata nel modo in cui l’ho mostrato anche oggi.

 

Ho pure già accennato che anche la cosmologia e la conoscenza della religione riacquisteranno allo stesso modo la loro vera sostanza, e nei prossimi giorni vorrei mostrarne gli addentellati col problema del Cristo.

Si vedrà allora come per l’uomo moderno ogni conoscenza superiore

sia in fondo un appello al mistero del Golgota per trovare la propria essenza umana.

Nella adesione al mistero del Golgota, e accogliendo nuovamente nella coscienza umana l’entità del Cristo in tutta la sua piena realtà soprasensibile, si perverrà anche mediante una filosofia spirituale e una cosmologia spirituale, a fondare una conoscenza soprasensibile moderna, base non solo di una vita soprasensibile in genere, ma in particolare di un cristianesimo spirituale.