Evoluzione dell’umanità durante l’epoca postatlantica.

O.O. 222 – Azioni e impulsi delle potenze spirituali – 23.03.1923


 

Sommario: L’uomo sentito come immaginazione divina, rivelantesi nella fisionomia, durante il periodo di civiltà indiano; sentito come pensiero divino, rivelantesi attraverso i fenomeni meteorologici concomitanti con la nascita, durante il periodo persiano; come essere cosmico, riconosciuto mediante il calcolo delle congiunzioni astrali, durante il periodo egizio-caldaico; come uomo della Terra, vivente nel sangue, durante il periodo greco. La caratteristica distintiva del periodo attuale: l’uomo concresce con la Terra attraverso il pensiero. Il compito della nostra epoca, presentato nel Parzival di Wolfram von Eschenbach come percorso dell’anima dall’ottusità al dubbio e dal dubbio alla beatitudine. Le possibili conseguenze dell’intellettualizzazione del pensiero umano: distruzione del manto di calore, del manto di aria e dell’elemento fluido della Terra nel quinto, nel sesto e nel settimo periodo di civiltà.

 

Abbiamo potuto constatare come la caratteristica di fondo della nostra epoca attuale, nel contesto dell’evoluzione dell’umanità, sia data dal fatto che l’uomo terreno possiede pensieri astratti, vale a dire pensieri morti per noi, pensieri che, propriamente, non sussistono in noi se non come scoria dell’essere vivente dell’anima nell’esistenza preterrena.

 

Entro l’evoluzione umana, a questo stadio evolutivo dell’umanità in direzione dei pensieri astratti, ossia morti, è legato – come ho spiegato più volte – il raggiungimento della coscienza della libertà. La nostra attenzione sarà rivolta oggi in particolare a questo specifico aspetto della questione. Lo possiamo esaminare considerando un po’ nel suo insieme il decorso dell’evoluzione dell’umanità durante l’epoca postatlantica.

 

Dopo l’immane catastrofe atlantica, come sapete, i continenti sono venuti distribuendosi a poco a poco sulla Terra fino a raggiungere la disposizione attuale, e sulla terraferma così ripartita, ovvero all’interno delle sue partizioni, si sono via via sviluppati, l’uno dopo l’altro, cinque periodi di civiltà o di civilizzazione, che, nella mia Scienza occulta, ho così denominati: paleoindiano, paleopersiano, egizio-caldaico, greco-latino e, infine, il quinto periodo di civiltà, quello corrispondente alla nostra epoca attuale.

 

Questi cinque periodi di civiltà si differenziano l’uno dall’altro precisamente perché l’uomo, nella totalità del suo essere, vi si presenta di volta in volta con una diversa costituzione. Risalendo ai periodi di civiltà più remoti, troviamo che questa costituzione si esprime anche in tutto quanto è aspetto esteriore dell’uomo, nelle sue manifestazioni corporee per così dire. E quanto più veniamo avanti nel tempo, avvicinandoci quindi al nostro periodo di civiltà, tanto più quello che possiamo chiamare il progresso dell’umanità si esprime nella costituzione animica. Di questi argomenti ci siamo in verità occupati a più riprese. Oggi ne tratterò da un punto di vista cui abbiamo dedicato fino ad ora minore attenzione.

 

Se risaliamo al primo periodo di civiltà, quello paleoindiano, che in certa misura era ancora una filiazione diretta, diciamo così, della catastrofe atlantica, troviamo che l’uomo, a quel tempo, si sentiva molto più un cittadino del cosmo extra-terreno che non un cittadino della Terra. E se ci addentriamo nei particolari della vita di allora, che certamente, come vi ho già precisato più volte, rimonta al settimo, ottavo millennio dell’era precristiana, una cosa dobbiamo porre soprattutto in risalto, ed è che in quei tempi antichissimi dell’evoluzione dell’umanità, non tanto sul fondamento di una riflessione intellettiva – che allora, naturalmente, era fuori questione -, quanto piuttosto in base a un sentire profondamente istintivo, si attribuiva un grande valore all’esteriorità, all’aspetto esteriore dell’uomo. Ciò non significa che gli uomini di quel lontano passato si dedicassero a studi di fisiognomica; va da sé che una cosa del genere era loro completamente estranea.

 

La si riscontra solo in epoche nelle quali l’intellettualismo, se anche non è pienamente consolidato, comincia tuttavia a farsi strada. Eppure, essi avevano un senso sottile della fisionomia. Avvertivano profondamente, quegli uomini, che, se uno aveva la tale o la tal altra espressione del viso, ciò stava a indicare che possedeva anche le tali o tali altre qualità musicali. Erano tutti tesi direi quasi a indovinare l’essenza musicale di qualcuno dall’espressione del suo viso, ma anche dai suoi gesti, dall’insieme del suo manifestarsi come essere umano. In quei tempi remoti, nessuno di certo aspirava a forme più rigorose di conoscenza dell’uomo in generale. Se mai si fosse detto loro che una qualunque cosa doveva essere dimostrata, gli uomini di quell’epoca non avrebbero assolutamente capito il perché. Ne sarebbero rimasti infastiditi, ne avrebbero tratto quasi un malessere fisico, e anzi, nel passato più lontano, si sarebbe trattato di un male fisico reale. Dimostrare qualcosa di qualcuno sarebbe come volerlo spezzettare con il coltello – così avrebbero detto. Perché mai ci vorrebbero allora delle dimostrazioni? Sul mondo, infatti, non occorre sapere nulla di tanto sicuro da doverlo basare su una qualche dimostrazione.

 

Un simile atteggiamento era legato al fatto che quegli uomini sentivano ancora in modo vivissimo di venire tutti dall’esistenza preterrena, di uscire tutti dal mondo spirituale. Nel mondo spirituale, quando vi si è dentro, non servono dimostrazioni. Vi domina la consapevolezza che il procedimento dimostrativo è cosa certamente sensata sulla Terra, ma insussistente nel mondo dello spirito. Chi volesse dimostrare qualcosa, lì, sarebbe, per modo di dire, come se avesse un metro; allora, posto che un uomo non debba essere alto né più né meno di tanto, andrebbe a finire come nel mito di Procuste: a chi è troppo alto si taglierebbe via una parte, e chi è troppo basso verrebbe stirato quanto serve. In tutto il contesto del mondo spirituale, il dimostrare equivarrebbe pressappoco a un procedimento del genere. Le cose, nel mondo spirituale, non sono tali da poterle spezzettare in dimostrazioni. Le cose, lì, hanno una flessibilità interiore, un’interiore fluidità.

 

E a un uomo dell’epoca paleo-indiana, ben saldo nella propria coscienza di essere sceso dal mondo spirituale, di essersi semplicemente ravvolto nell’essere umano esteriore, a un uomo di tal fatta, dunque, sarebbe parso quanto mai strano trovarsi eventualmente di fronte alla pretesa che fosse necessario dimostrare qualcosa. Questa gente prediligeva piuttosto ciò che oggi indichiamo con il termine “indovinare”. Lo prediligeva perché voleva fermare l’attenzione su quel che si manifestava nell’ambiente che aveva intorno a sé. E trovava in questa attività, in questo indovinare, un certo appagamento interiore.

 

Così pure aveva un certo istinto per riconoscere da questo o quel volto un uomo accorto, oppure uno sciocco da un volto diverso, o per indovinare dal portamento, diciamo, un’indole flemmatica e cose simili. A quei tempi, l’indovinare teneva il posto di quello che oggi, per noi, è il conoscere per via dimostrativa. E, nell’ambito dei rapporti umani, l’insieme dei comportamenti reciproci portava immediatamente a desumere l’effettiva qualità morale di un uomo dal suo atteggiamento animico, dai suoi gesti, dal suo portamento, dal suo modo d’incedere.

Nei primi tempi della civiltà indiana, nell’epoca paleo-indiana, non esisteva affatto quella che sarebbe stata più tardi la divisione in caste.

 

È pur vero che, in connessione con i misteri paleoindiani, v’era addirittura una specie di articolazione sociale degli uomini fondata sulle fisionomie e sui gesti. Cose come questa, nei tempi più remoti dell’evoluzione dell’umanità, erano possibili proprio perché gli uomini erano portati anche da un certo istinto ad adeguarsi a simili articolazioni. La formazione delle caste, quale apparve con l’andar del tempo nell’ambito della civiltà indiana, era già una sorta di classificazione schematica, diciamo così, di quell’articolazione molto più individuale che si basava in origine sulla fisionomia sentita in modo istintivo. E non vi era nessuno, in quei tempi lontani, che si sentisse ferito per il fatto – se così posso esprimermi – di venir inquadrato qui o là in base ai tratti del volto, dato che gli uomini si avvertivano appunto, e totalmente, come esseri posti da Dio sulla Terra. E l’autorità di cui erano investiti coloro che, sul fondamento dei misteri, provvedevano a questa articolazione, era illimitata.

 

Solo nei successivi periodi di civiltà postatlantici venne poi lentamente formandosi il sistema delle caste, e in altre conferenze ho già delineato anche i precedenti del suo sviluppo.

 

Nei tempi più antichi, precisamente nel periodo paleoindiano,

quel che si avvertiva con forza era che l’uomo aveva a suo fondamento una immaginazione divina.

 

Vi ho parlato estesamente di come, in origine, esistesse una forma di chiaroveggenza istintiva, di chiaroveggenza onirica. Se però risaliamo a tempi remotissimi del periodo postatlantico, ebbene, gli uomini allora non affermavano soltanto di vedere immaginazioni oniriche, ma dicevano:

• nella particolare configurazione che il corpo fisico dell’uomo ha quando l’uomo entra nell’esistenza terrena, vive una immaginazione divina.

 

Quando l’uomo scende sulla Terra, viene posta a suo fondamento una immaginazione divina. In base a questa l’uomo costruiva quindi, sin dall’infanzia, la sua fisionomia; in base a questa costruiva, in generale, tutta quanta la sua espressione fisica di uomo.

Dunque, non soltanto si guardava alla fisionomia in modo istintivo, come ho accennato poc’anzi, ma si vedeva nella fisionomia l’immaginazione degli dèi. Ci si diceva: gli dèi hanno immaginazioni, e queste immaginazioni le imprimono nell’essere umano fisico. Tale era la primissima concezione di ciò che l’uomo è in quanto essere inviato sulla Terra dagli dèi.

 

Con l’avvento del secondo periodo di civiltà postatlantico, quello paleopersiano,

il senso istintivo della fisionomia si attenuò rispetto al periodo precedente.

Non si guardava più, adesso, alle immaginazioni degli dèi, ma ai loro pensieri.

Precedentemente, ci si basava in sostanza su questo presupposto:

in qualche entità divina, prima che un uomo scenda sulla Terra, vive una immagine reale dell’uomo.

 

Successivamente, dominò l’idea che a fondamento del singolo essere umano stessero i pensieri,

quei pensieri che formavano poi tutti insieme il Logos

– così designato solo più avanti nel tempo.

• In questo secondo periodo postatlantico si teneva in gran conto la circostanza

– oggi potrà anche sembrarci paradossale, ma era proprio così –

che un uomo fosse nato, per esempio, col bel tempo,

che fosse nato di notte oppure di giorno, d’inverno oppure d’estate.

 

Non era questione di intelletto, ma di sensazione, e la sensazione che si aveva era questa: se gli dèi, quando inviano dall’alto un uomo sulla Terra, fanno sì che vi siano determinate condizioni del cielo, che vi sia tempo sereno o nevischio, che sia giorno o notte, questo esprime i loro pensieri, esprime i corrispondenti pensieri divini. E allorché, per esempio, la nascita di un bambino coincideva col passaggio d’un temporale, o con altre condizioni meteorologiche di carattere eccezionale, quali che fossero, la circostanza era considerata, già fra la gente del popolo, come l’espressione di questo o quel pensiero divino assegnato al nuovo nato.

 

Se così succedeva fra la gente del popolo, quando si trattava poi dei sacerdoti, che dipendevano a loro volta dai misteri, e che tenevano per così dire un protocollo delle nascite – da non intendere però nel senso burocratico che il termine ha oggi -, ci si basava su queste combinazioni di condizione del tempo, ora del giorno, stagione dell’anno e via dicendo per vedere quale fosse la dotazione di pensieri divini di cui un uomo era stato provvisto. Così stavano le cose nel secondo periodo postatlantico, quello paleopersiano.

 

Nella nostra epoca, di un simile stato di cose è rimasto ben poco. Oggi, quando noi diciamo di qualcuno che “parla del tempo”, sottintendiamo che ci sta annoiando tremendamente. Pensate solo al senso di insopportazione che si esprime, oggi, dicendo di qualcuno: “È veramente un noioso, non sa parlare d’altro che del tempo”.

Questo, la gente dell’epoca paleo-persiana non l’avrebbe capito, avrebbe trovato oltremodo noioso proprio chi non fosse stato capace di dire nulla d’interessante sul tempo.

 

In realtà, se di fronte ai fenomeni meteorologici non si avverte più un che di propriamente umano, vuol dire che ci si è totalmente estraniati dall’ambiente naturale. Era un’intensa partecipazione all’ambiente cosmico quella che si esprimeva nel fatto di concepire qualunque evento – e la nascita di un uomo era un evento ben importante – in correlazione con ciò che stava contemporaneamente accadendo nel mondo naturale.

 

Avremmo senz’altro un progresso, se gli uomini – senza limitarsi semplicemente a frasi fatte come: “c’è bel tempo” o “c’è brutto tempo”, che è un parlare molto astratto – ridiventassero capaci di non dimenticare, quando si raccontano fra loro questo o quel fatto, quali fossero le condizioni del tempo, quali fossero in generale i fenomeni della natura che accompagnavano l’evento da loro vissuto.

 

È straordinariamente interessante quando, nel caso di fenomeni spettacolari, qua o là ancora li si ricorda, come ad esempio nella descrizione della morte di Kaspar Hauser, dove si ricorda, poiché era un fenomeno spettacolare, che da una parte il sole tramontava mentre, dall’altra, sorgeva la luna. E via esemplificando.

 

Così, possiamo ancora immedesimarci nell’essere umano di questo secondo periodo postatlantico.

Nel terzo periodo postatlantico,

gli uomini avevano in gran parte ormai smarrito quell’istinto per il quale si vedeva l’elemento spirituale,

si vedevano i pensieri divini nel tempo atmosferico, e cominciarono a poco a poco a impratichirsi nel calcolo.

 

In questo periodo, alla capacità di cogliere intuitivamente i pensieri divini caratterizzanti l’uomo nella configurazione della natura subentrò, quindi, l’attitudine a calcolare le congiunzioni astrali, e in relazione a un uomo, quando veniva al mondo, si calcolava appunto la posizione degli astri, la congiunzione di stelle fisse e pianeti.

 

Era questo l’aspetto sostanziale del terzo periodo, del periodo egizio-caldaico, nel quale il massimo dell’importanza era attribuito al fatto di poter desumere dal calcolo delle congiunzioni astrali le condizioni nelle quali un uomo era entrato dalla vita preterrena in quella terrena.

 

Dunque, sussisteva pur sempre una coscienza del fatto

che la vita terrena dell’uomo è il prodotto dell’ambiente extra-terreno.

Tuttavia, quando entra in gioco il calcolo, vuol anche dire che è ormai giunto il momento

in cui il legame fra l’essere umano e le entità divino-spirituali comincia a farsi meno evidente.

 

Vi basti solo pensare a come tutto quanto il processo spirituale dell’uomo sia veramente esteriore, nel caso del calcolo. Non intendo certo giustificare la pigrizia mentale dei giovani nei confronti dei calcoli aritmetici, e neppure l’eventuale disattenzione degli adulti. Non sia mai. Ma ben altra cosa, naturalmente, è il mettere in primo piano quei metodi esteriori di ragionamento che, in realtà, non hanno più molto a che fare con l’uomo nella sua totalità, e che sono i metodi di calcolo. Questi metodi di calcolo vennero introdotti in ogni ambito della vita precisamente durante il terzo periodo postatlantico. Ma il calcolo si riferiva pur sempre a quanto era extra-terreno, e per lo meno attraverso il calcolo l’uomo veniva inserito nella sfera extra-terrena.

 

Il calcolare degli Egizi e dei Caldei non era un procedimento astratto come il nostro;

ciò che era oggetto di calcolo era insieme e interamente oggetto di un profondo sentire.

Oggi, nel calcolare c’è a volte profondità di pensiero,

e altre volte neppure questo, ma unicamente sottigliezza di metodo.

Spesso, infatti, alla base del calcolo oggi non vi sono dei contenuti, ma soltanto dei metodi.

E la distanza che, nel campo della matematica, si crea talvolta dal contenuto,

risolto in mero procedimento metodologico,

è ai giorni nostri non dico volutamente scellerata, ma veramente spaventosa.

Invece, durante il periodo egizio-caldaico, nel calcolare era ancora insito certamente qualcosa di umano.

 

Il successivo periodo greco-latino fu il primo periodo di civiltà postatlantico

nel quale l’uomo sentì propriamente di vivere in tutto e per tutto sulla Terra,

di essere unito in tutto e per tutto alle forze terrene.

 

Il rapporto dell’uomo con i fenomeni atmosferici si era già ridotto a materia di narrazione mitologica. Ciò con cui l’uomo sentiva ancora un legame vivente nel secondo periodo postatlantico, nell’epoca di civiltà paleo-persiana, aveva finito col diventare il mondo lontano degli dèi. Quanto a se stesso, l’uomo non si chiedeva più se potesse significare qualcosa il salire all’Olimpo, ficcando la testa nella nebbia lassù in cima; ora lasciava che fossero i suoi dèi, che fossero Zeus, Apollo, a starsene con la testa immersa nella nube olimpica. Esaminando i miti di questo periodo di civiltà greco-latino, sarà ancora possibile avvertire come gli uomini, un tempo, sentissero di avere un rapporto di unione con le nubi e i fenomeni celesti, e come però questo rapporto l’abbiano poi delegato agli dèi. Era Zeus, adesso, che si muoveva accompagnato dalle nubi, oppure Hera che si dava da fare con esse. Prima, questo lo faceva l’uomo, con la propria anima. I Greci – lo diremo in termini che, sia pure da non prendere alla lettera, rendono tuttavia la situazione – hanno esiliato Zeus nella regione delle nubi, nella regione della luce.

 

L’uomo dell’epoca paleo-persiana si sentiva ancora inserito in questa regione con la propria anima. Non avrebbe potuto dire: “Zeus vive nelle nubi” o “nella luce”; avrebbe detto invece: “Zeus vive in me”, poiché sentiva la propria anima immersa nel dominio delle nubi e dei venti.

 

L’uomo greco fu il primo, nell’era postatlantica, a sentirsi interamente uomo della Terra e, anche in questo caso,

ciò non avvenne che lentamente e per gradi.

Di conseguenza, nell’epoca greco-latina venne meno, per la prima volta,

anche il senso del legame con l’esistenza preterrena.

In tutti e tre i precedenti periodi di civiltà postatlantici

gli uomini avevano sentito con forza il loro legame con l’esistenza preterrena.

Non sarebbe stato possibile, con gli uomini di quelle epoche, formulare un dogma che negasse la preesistenza.

 

Peraltro, non è possibile formulare dogmi simili se non nella prospettiva che vengano accettati; basta allora avere l’accortezza di enunciare in forma di dogma proprio ciò cui una moltitudine di persone sia stata preparata dall’evoluzione umana.

 

Ma i Greci finirono a poco a poco con lo smarrire il senso dell’esistenza preterrena,

giungendo a sentirsi interamente uomini terreni.

Certo, nel sentirsi uomini terreni, come ho spiegato in precedenti conferenze,

si sentivano ancora pervasi dall’elemento divino-spirituale,

e tuttavia legati, per l’appunto, a tutto ciò che vive solo sulla Terra.

 

Non deve sfuggire il perché una certa mitologia abbia potuto svilupparsi solo nell’epoca greca, dopo che si era smarrita la coscienza del rapporto fra l’anima e i fenomeni ultraterreni.

Possiamo dire così: se questa è la Terra – faccio un disegno schematico -, nel primo periodo postatlantico l’uomo si sentiva il prodotto dell’immaginazione divina, che egli cercava interamente nella sfera spirituale-animica. Poi si sentì il prodotto dei pensieri divini, che cercava nei fenomeni celesti, e nel vento, nel tempo atmosferico e così via. In seguito, smarrì sempre di più la coscienza capace di proiettarsi nelle vastità del cosmo, e sempre più venne restringendo questa coscienza alla sola Terra.

 

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Nel terzo periodo, nell’epoca egizio-caldaica, l’uomo ci si presenta come essere cosmico quale risulta dal calcolo.

Nel quarto periodo infine, quello greco-latino, egli è in tutto e per tutto uomo della Terra.

 

Se torniamo di nuovo al terzo periodo postatlantico, vi scopriamo un’epoca nella quale gli uomini, benché intenti a calcoli sulla propria esistenza celeste, sentivano ancora intensamente il luogo, il dove della loro nascita sulla Terra. È un fatto, questo, particolarmente interessante. Dell’esistenza celeste, finché non era oggetto di calcolo, non si aveva ricordo; occorreva appunto che prima divenisse oggetto di calcolo. E questa fu l’epoca dei calcoli astrologici.

 

Ma un uomo, se anche non aveva un calcolo per la sua data di nascita, sentiva nondimeno il risultato di questo calcolo. Uno che fosse nato nel sud sentiva il risultato del calcolo nell’esperienza di vita che poteva trarre dal sud; ciò, per lui, era ben più importante del calcolo stesso. Per uno che fosse nato nel nord, il calcolo della nascita era diverso. Ora, certamente gli astrologi potevano calcolarla, ma l’uomo sentiva il risultato di questo calcolo. E come lo sentiva?

 

Lo sentiva, in quanto la sua intera costituzione animica e corporea di uomo era legata in effetti al luogo in cui era nato, alle peculiari circostanze geografiche e climatiche della sua nascita, poiché, in questo terzo periodo di civiltà postatlantico, l’uomo si avvertiva principalmente come creatura della respirazione. Si respira diversamente, al sud e al nord. L’uomo era uomo della respirazione. Naturalmente, la civiltà esteriore non era tanto avanti da offrire i termini adatti a esprimere cose simili; ma quel che viveva nell’anima umana era un prodotto del processo della respirazione, e il processo della respirazione era un prodotto della località della Terra dove si era nati, del luogo in cui si viveva.

 

Per i Greci non fu più così.

Nell’epoca greca, il processo della respirazione e il legame con la terra natale non sono più l’elemento decisivo, mentre il legame del sangue, il sentimento della stirpe, il senso di appartenenza alla stirpe sono ciò che dà origine alla coscienza dell’anima di gruppo.

 

Nel terzo periodo postatlantico, avere coscienza delle anime di gruppo significava sentirle collegate al tal luogo della Terra. In questo periodo, anzi, ci si figurava che, dovunque esistesse un santuario, vi fosse all’interno il dio che rappresentava l’anima di gruppo e che, pertanto, era legato al luogo.

 

Durante l’epoca greca cessò di essere così. Insieme con la coscienza terrena, insieme con il legarsi alla Terra dell’intera costituzione umana, con tutti i sentimenti e tutte le sensazioni della vita istintuale dell’uomo, sorse allora il senso della comune appartenenza nel sangue. Così, l’uomo finì con l’essere calato interamente sulla Terra. Con la sua coscienza, egli non vedeva più al di là della Terra, ma si sentiva apparentato nel sangue alla propria stirpe, al proprio popolo.

 

E quanto a noi, uomini del quinto periodo postatlantico, come stanno le cose?

Ce lo mostra quasi da sé questo disegno schematico, che ho abbozzato con piena aderenza ai fatti.

Ecco, noi ci siamo insinuati entro la Terra.

Noi siamo rimasti privi delle forze extra-terrene, e non viviamo più, né dobbiamo più vivere,

neppure delle sole forze terrene che vibrano nel sangue,

ma siamo ormai dipendenti da forze sotterranee, da forze che stanno dentro la Terra.

 

Che anche dentro la Terra si trovino forze considerevoli, potete apprenderlo da quel che succede con le patate. Certo sapete che i contadini, d’inverno, sotterrano le patate entro delle buche; qui le patate si conservano intatte, mentre in condizioni normali si guasterebbero. Dentro la Terra, le condizioni sono appunto diverse. Lì il calore del Sole, durante l’inverno, si mantiene vivo.

 

D’altra parte, la vita stessa delle piante non si può assolutamente spiegare se non sapendo che, di anno in anno, il ciclo vitale di una pianta sino alla fioritura è il risultato dell’anno precedente. È il prodotto delle forze interne alla Terra. Solamente il fiore si sviluppa per azione diretta del Sole. Di questo ho già parlato qui una volta.

 

Che cosa significa allora, per noi esseri umani, il divenire dipendenti da forze sotterranee, da forze che stanno dentro la Terra?

Non certo quel che significa nel caso delle patate: non è che d’inverno pure noi veniamo messi dentro delle buche, per superare la stagione invernale nelle migliori condizioni.

Significa in verità una cosa totalmente diversa, e precisamente che la Terra ci sottrae all’influsso del mondo ultra-terreno. Per opera della Terra noi veniamo esclusi da questo influsso ultraterreno.

 

L’uomo, nella propria coscienza, è stato dapprima immaginazione divina,

poi pensiero divino, poi risultato del calcolo, e poi uomo della Terra.

• I Greci sentivano pienamente di essere uomini della Terra e di vivere nel sangue.

• Noi, dunque, dobbiamo imparare a sentirci indipendenti da ciò che è ultraterreno,

ma indipendenti anche da ciò che ha sede soltanto nel nostro sangue.

 

Questo nasce dal fatto che, precisamente fra il ventunesimo e il ventottesimo anno di età,

noi viviamo in modo diverso da come si viveva una volta:

non ci destiamo più alla seconda esperienza di cui si è detto ieri,

non abbiamo più quei pensieri viventi che erano il risultato della coscienza influenzata dal mondo ultraterreno,

ma abbiamo pensieri svuotati ormai del tutto di vitalità interiore, e perciò morti.

 

Proprio la Terra, con le forze che ha al suo interno,

uccide i nostri pensieri allorché diveniamo uomini della Terra.

E ci si delinea un’immagine singolare: come uomini della Terra,

quel che rimane dell’uomo nel dominio fisico noi lo seppelliamo, consegniamo il cadavere agli elementi della Terra.

 

La Terra agisce anche nei resti incinerati, la decomposizione è solo una lenta incinerazione.

Quanto ai nostri pensieri, ciò che avviene – e sta appunto qui la singolarità del quinto periodo postatlantico –

è che gli dèi, quando nasciamo, quando veniamo inviati quaggiù sulla Terra, li consegnano alla Terra.

I nostri pensieri vengono sepolti, in senso proprio sepolti, allorché diveniamo uomini della Terra.

È così dal principio del quinto periodo postatlantico.

 

Essere improntati dall’intellettualismo significa avere un’anima con pensieri sepolti nella Terra,

con pensieri, cioè, che le forze interne alla Terra privano degli impulsi celesti.

Quel che propriamente ci caratterizza come uomini della nostra epoca

è che noi, nel nostro essere animico più profondo,

appunto attraverso il nostro pensiero, concresciamo con la Terra.

 

Per altro verso, tuttavia, ciò vuol anche dire che solo oggi, nel quinto periodo di civiltà postatlantico,

noi abbiamo la possibilità di ritrasmettere al cosmo

i pensieri cui diamo nuova vita, in noi, con il nostro vivere terreno,

nel modo ieri accennato a conclusione della conferenza.

 

Simili impulsi evolutivi sono profondamente sedimentati nelle opere di valore della civiltà umana. E certo rimaniamo intimamente colpiti dalla circostanza che, proprio nel tempo in cui l’umanità europea si approssima al quinto periodo di civiltà postatlantico, compaiano opere di poesia come quella di Wolfram von Eschenbach, come il Parzival. Abbiamo trattato a più riprese del poema in quanto tale, ma oggi vogliamo puntare il nostro sguardo, lo sguardo dell’anima, su qualcosa che ci si fa incontro, in questo poema, come un grandioso segno dei tempi. Osservate la sorprendente caratterizzazione che affiora non solo in Wolfram von Eschenbach, ma in genere dovunque si desti, negli uomini di quell’epoca, la forza della creazione poetica.

 

Ci si avvede, con un senso direi quasi di irrequietezza, di tre stadi nell’evoluzione dell’anima umana.

• La prima cosa che si osserva nell’uomo quando si fa dentro al mondo, quando si abbandona alla vita, quando vive ingenuamente il suo rapporto col mondo, la prima cosa che si osserva, dunque, è la sprovvedutezza, l’ottusità.

• La seconda cosa, però, è il dubbio.

E il dubbio, proprio in quell’epoca segnata dall’avvicinarsi del quinto periodo postatlantico, è vividamente descritto. Se il dubbio è dono del cuore, per l’uomo la vita diverrà necessariamente amara: tale è il sentire di quell’epoca.

Ma è presente anche un altro sentimento:

attraverso il dubbio, l’uomo deve aprirsi la strada verso la Saelde,  la beatitudine.

E si dà il nome di beatitudine allo stato dell’uomo che immette nuovamente la vita divina nei pensieri,

in quei pensieri cui è venuto a mancare il divino, che si sono fatti completamente terreni, che sono perciò pensieri morti.

 

• Si identifica lo stato del dubbio in questo sprofondarsi dell’uomo, con i propri pensieri, nel dominio terreno.

• E si avverte la Saelde, la beatitudine, come un distacco dal mondo terreno,

reso possibile dal fatto che si dà nuova vita ai pensieri.

 

• sprovvedutezza = ottusità      • dubbio       • beatitudine

 

Questo appunto è il sentire che sta come a fondamento dei poemi composti nei secoli dodicesimo, tredicesimo, quattordicesimo, nei quali ci si inerpica verso il quinto periodo postatlantico.

 

Vorrei dire che la sensibilità per i primi albori di questo quinto periodo postatlantico

era più viva allora che non negli uomini d’oggi,

ormai stanchi di meditare su cose simili, ormai troppo pigri per farlo.

Eppure, bisognerà che gli uomini d’oggi riprendano a meditare profondamente su queste cose,

e, soprattutto, a sentirle profondamente.

Se così non fosse, l’ascesa stessa dell’umanità diverrebbe impossibile.

 

E che cosa accade in effetti?

Vi è un percorso discendente dell’uomo dal mondo celeste verso quello terreno, finché egli è totalmente sulla Terra.

Ma qual è la situazione dell’uomo?

È precisamente questa: è come se la Terra, per lui, fosse uno specchio.

 

L’uomo non è destinato semplicemente a una crescita sotterranea.

I pensieri, in quanto elemento morto, penetrano nella Terra,

comprendono ciò ch’è morto, e che appartiene come tale solo all’elemento terreno.

• Ma, quanto all’uomo stesso, allorché vivifica i suoi pensieri egli li rimanda nel cosmo come immagini speculari.

Cosicchè, tutti i pensieri viventi che sorgono nell’uomo, tutti questi pensieri,

gli dèi li vedono splendere di ritorno dall’uomo che si evolve.

 

In quanto gli si chiede di vivificare i suoi pensieri, l’uomo è chiamato a essere co-creatore dell’universo.

Questi pensieri, infatti, vengono riflessi dalla Terra e tornano a uscire nell’universo,

devono riprendere la strada che porta fuori nell’universo.

 

Di qui, se afferriamo intimamente il senso complessivo dell’evoluzione dell’uomo e del mondo, già arriviamo a sentire che in una data maniera noi ci riportiamo alle epoche già vissute nel passato.

Nell’epoca egizio-caldaica si appurava con il calcolo la condizione dell’uomo sulla Terra; mediante il calcolo, tuttavia, l’uomo era messo altresì in relazione con il circostante mondo degli astri.

 

Oggi noi facciamo la stessa cosa in termini storici, prendendo le mosse dall’uomo, che ci si offre come punto di partenza per un’indagine simile a quella che trovate impostata nella mia Scienza occulta, ove in effetti rimandiamo fuori i pensieri umani vivificati, e guardiamo a ciò che diventano quando li seguiamo nell’ambiente cosmico come si allontanassero da noi, quando impariamo a vivere con i pensieri viventi nelle vastità cosmiche.

 

Questi nessi mostrano quale profondo significato abbia il fatto che l’uomo si sia affidato a pensieri morti, che sia incappato per così dire nel rischio di legarsi totalmente alla Terra.

E andiamo ancora avanti con l’immagine. Con immaginazioni valide, andare ulteriormente avanti è possibile. Solo con immaginazioni escogitate artificiosamente non è possibile.

 

Pensate dunque a uno specchio.

Noi diciamo che lo specchio rimanda la luce;

l’espressione non è perfettamente corretta, ma, in ogni caso, la luce non può passare dietro di esso.

Qual è il solo e unico modo per cui la luce possa passare dietro lo specchio?

È che lo specchio venga infranto.

 

E di fatto, se non vivifica i suoi pensieri,

se rimane fermo ai pensieri meramente intellettualistici, ai pensieri morti,

l’uomo non può che distruggere la Terra.

 

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La distruzione comincerebbe di sicuro dall’elemento più rarefatto, dal calore.

E nel quinto periodo postatlantico,

sviluppando in misura crescente, sempre crescente, i meri pensieri intellettualistici,

si avrebbe modo soltanto di rovinare il manto di calore della Terra.

 

• Ma con l’avvento del sesto periodo postatlantico, se fino ad allora

l’umanità non si fosse convertita dall’intellettualismo all’immaginazione,

si inizierebbe la rovina non solamente del manto di calore della Terra, ma anche del suo manto di aria,

poiché, con i pensieri meramente intellettualistici, gli uomini avvelenerebbero l’aria.

 

E gli effetti dell’aria avvelenata si ripercuoterebbero sulla Terra,

col distruggere innanzi tutto la vegetazione (si veda il disegno sotto).

E nel settimo periodo postatlantico l’uomo arriverebbe ormai a guastare l’acqua, le cui esalazioni,

in quanto portato dei pensieri meramente intellettualistici, passerebbero nell’universale elemento fluido della Terra.

 

Dall’azione dell’universale elemento fluido della Terra

deriverebbe innanzi tutto la deformazione dell’elemento minerale della Terra stessa.

Non v’è alcun dubbio perciò che l’uomo, se non vivifica i suoi pensieri

e non restituisce in tal modo al cosmo quanto dal cosmo ha ricevuto, possa arrivare a distruggere la Terra.

 

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Dunque, ciò che nell’uomo è animico ha una stretta connessione con l’esistenza naturale.

E il sapere meramente intellettualistico di oggi non è altro che un prodotto arimanico,

teso a sviare ingannevolmente l’uomo da queste cose.

 

• Indurre l’uomo a credere che i suoi pensieri siano solo ed esclusivamente pensieri,

senza alcun rapporto con gli accadimenti del mondo,

significa ottenebrarlo, dandogli a intendere che non possa avere influenza alcuna sull’evoluzione della Terra,

e che, con o senza il suo intervento, la Terra un giorno avrà fine nel tale o nel tal altro modo,

proprio secondo i dettami della sola scienza fisica.

• Ma la Terra non finirà per effetto di mere leggi fisiche;

la fine della Terra sarà precisamente quella che l’umanità stessa avrà cagionata.

 

Ecco dunque un altro di quei punti che ci mostrano come l’antroposofia ristabilisca il nesso del mondo morale-animico con il mondo fisico-sensibile, laddove oggi questo nesso è del tutto assente, e anzi la teologia di più fresca data trova addirittura preferibile accordare alla sfera morale una completa indipendenza dalla sfera fisica.

 

E i filosofi, che oggi si trascinano ansanti e ripiegati su di sé, con la schiena curva, sotto il peso dei risultati delle scienze naturali, i filosofi sono ben contenti di poter dire che, sì, fin dove si tratta di natura c’è la scienza, ma la filosofia deve spaziare nel campo dell’imperativo categorico – nel campo delle cose di cui non si può sapere niente.

 

Concezioni del genere, oggi, per lo più non escono dai confini delle scuole.

Ma faranno presa sulla vita, se l’umanità non diviene consapevole del fatto che

l’elemento animico-spirituale è co-creativo nell’elemento fisico-sensibile,

e il futuro dell’elemento fisico-sensibile dipenderà

da quello che l’uomo avrà deciso di sviluppare nell’elemento animico-spirituale.

 

Su queste basi,

• da un lato è già possibile acquistare coscienza dell’infinita importanza della vita animica dell’umanità,

• e, dall’altro, è altresì certamente possibile riacquistare coscienza

del fatto che l’uomo non è semplicemente una creatura che si aggiri a piacere sulla Terra,

ma appartiene all’intero universo.

 

Ma giuste immaginazioni, miei diletti amici, portano senza dubbio al giusto.

Se l’uomo perciò non vivifica i suoi pensieri, ma li lascia continuamente morire l’uno dopo l’altro,

questi pensieri si insinuano strisciando nella Terra,

e, alla fine, in rapporto all’universo l’uomo si riduce allo stato di un lombrico,

perché i suoi pensieri s’inoltrano nei posti abitati dai lombrichi.

 

Abbiamo, anche qui, un’immaginazione pienamente valida.

La civiltà umana dovrebbe scongiurare l’eventualità che l’uomo si riduca allo stato di un lombrico,

perché altrimenti la Terra verrebbe fatta a pezzi,

e il fine del mondo, manifesto con tutta chiarezza nelle potenzialità umane, non sarebbe raggiunto.

 

Queste sono cose che noi non possiamo limitarci a inquadrare nelle nostre teorie, nelle nostre astrazioni,

ma che dobbiamo accogliere nel fondo dei nostri cuori, poiché l’antroposofia è questione di cuore.

E quanto più capiremo che è questione di cuore, tanto meglio riusciremo a comprenderla.