L’insegnamento del mistero del Golgota

O.O. 139 – Il Vangelo di Marco – 23.09.1912


 

Chi vuol essere materialista

e credere proprio soltanto a ciò che l’esistenza materiale rivela alla coscienza materialistica,

non può trovare la via che conduce al Cristo Gesù.

Tale via è stata preclusa dal fatto che quelli che stavano più vicini al Cristo

Io abbandonarono proprio mentre si compiva il mistero del Golgota, ritrovandolo solo più tardi:

essi non parteciparono dunque a quello che avvenne allora in Palestina sul piano fisico.

 

D’altra parte è noto a tutti che nessuna testimonianza degna di fede ci è giunta da parte degli avversari contemporanei del Cristo. Tuttavia tanto il vangelo di Marco, quanto gli altri vangeli ci descrivono proprio il mistero del Golgota.

 

Quali origini hanno tali descrizioni? È straordinariamente importante fissare l’attenzione su questo problema. Proviamo ad esaminare quelle descrizioni sulla scorta appunto del vangelo di Marco. Sia pure in forma breve e condita, anche il vangelo di Marco accenna chiaramente, dopo la scena della risurrezione, al fatto che il giovinetto in veste bianca, cioè il Cristo cosmico, si è ripresentato ai discepoli dopo il compimento del mistero e ha esercitato su loro determinati influssi.

 

In tal modo gli apostoli, fra cui appunto Pietro, per effetto dell’impulso accolto furono più tardi in grado di sviluppare la visione chiaroveggente; ciò che non avevano potuto vedere con gli occhi fisici, perché erano fuggiti, poterono scorgerlo chiaroveggentemente.

 

A Pietro e agli altri cui fu concesso di essere discepoli dopo la risurrezione del Cristo Gesù,

furono aperti gli occhi della chiaroveggenza,

sì che poterono contemplare spiritualmente il mistero del Golgota.

Sebbene il mistero del Golgota si sia compiuto sul piano fisico,

solo mediante la chiaroveggenza si può giungere alla sua comprensione.

Questo è un fatto che va tenuto per fermo.

 

Il Vangelo vi allude in modo assai chiaro,

mettendo in rilievo che i discepoli eletti fuggirono nell’ora decisiva;

così in un’anima come quella di Pietro, dopo che ebbe accolto l’impulso del Risorto,

si illuminò il ricordo di quanto era avvenuto dopo la fuga.

• Di solito ci si ricorda solo di ciò a cui si ha assistito nell’esistenza sensibile.

Nei discepoli si manifestò invece una forma di chiaroveggenza

per cui (diversamente da quanto avviene nella memoria ordinaria)

si ricordano avvenimenti fisici ai quali però non si ha assistito.

 

Bisogna dunque rendersi conto che nell’anima di Pietro viveva il ricordo di eventi ai quali egli non aveva partecipato direttamente. Così ad esempio Pietro parlava ai suoi ascoltatori del mistero del Golgota, fondandosi sulla sua memoria: insegnava loro quello che ricordava, sebbene non vi avesse partecipato.

 

Così fu insegnato e rivelato il mistero del Golgota. L’impulso trasmesso dal Cristo a Pietro e ad altri discepoli poté poi trasmettersi anche a coloro che divennero a loro volta discepoli degli apostoli. Fu appunto un discepolo di Pietro a comporre (dapprima soltanto oralmente) il cosiddetto vangelo di Marco.

 

In tal modo l’impulso affermatosi in Pietro stesso si trasmise all’anima di Marco il quale contemplò nella propria anima il mistero del Golgota compiutosi a Gerusalemme. Marco fu a lungo discepolo di Pietro. Poi si trasferì in un luogo nel quale trovò l’ambiente veramente adatto per conferire al suo vangelo proprio la sua impronta caratteristica.

 

In tutte le considerazioni che abbiamo fatto sul vangelo di Marco

(e forse si presenterà l’occasione di aggiungervi ancora qualcosa)

è emerso che fra tutti i Vangeli esso è quello che maggiormente mette in risalto

tutta la grandezza e il significato cosmico del Cristo.

 

L’autore originario del vangelo di Marco poté essere indirizzato a questa particolare descrizione della grandezza cosmica del Cristo proprio dal luogo nel quale venne a trovarsi, dopo essere stato discepolo di Pietro. Egli si trasferì ad Alessandria d’Egitto, dove visse in un momento nel quale fioriva una certa erudizione teosofico-filosofica ebraica; al tempo stesso vi poté accogliere gli aspetti migliori della gnosi pagana.

 

Fra le concezioni fiorenti a quel tempo, Marco poté accogliere tutto quello che consentiva la comprensione dell’origine dell’uomo dal cosmo, durante la formazione del nostro pianeta. D’altra parte, proprio perché si trovava in Egitto, Marco poté constatare quanto fosse grande il contrasto fra i destini originari dell’uomo e ciò che l’uomo era poi diventato.

 

Questo contrasto risalta infatti in modo particolare nella civiltà egizia, scaturita dalle rivelazioni più sublimi. Quelle rivelazioni originarie trovarono espressione nella grandiosa architettura egizia, nei palazzi, nei templi, nelle piramidi, nella civiltà fiorita sotto il simbolo della Sfinge.

 

La civiltà egizia andò tuttavia decadendo e corrompendosi sempre più, sì che proprio i frutti più cospicui di essa si deteriorarono rapidamente, ancora durante il terzo periodo di civiltà postatlantico, raggiungendo i peggiori eccessi della magia nera, le peggiori aberrazioni della spiritualità corrotte.

 

In un certo senso chi era dotato di un’adeguata veggenza spirituale poteva ancora scorgere i più profondi segreti, anche in ciò che si svolgeva nell’Egitto della decadenza, in quanto proveniva pur sempre dalla sapienza ermetica pura delle origini; occorreva però, per poterlo percepire, un’anima sempre più forte, capace di scorgere il fondo delle cose, non le manifestazioni corrotte visibili in superficie.

 

Già al tempo di Mosè la corruzione era molto progredita in Egitto, ed egli dovette estrarne quel che di buono vi era rimasto e che era visibile solo a un’anima elevata come la sua: in tal modo il meglio della civiltà egizia poté trasmettersi alla posterità, per il tramite dell’anima di Mosè.

 

Poi però la corruzione in campo spirituale si estese sempre più.

L’anima di Marco vedeva chiaramente

come l’umanità andasse decadendo e precipitando sempre più nel materialismo,

soprattutto nell’ambito delle concezioni, delle opinioni.

 

In particolare egli sperimentava qualcosa che (sia pure in forma diversa, ma anche simile sotto certi aspetti)

si può sperimentare anche oggi, purché si possegga la necessaria sensibilità.