Lo stato d’animo fondamentale verso il karma umano.

O.O. 130 – Cristianesimo esoterico e la guida spirituale dell’umanità – 08.02.1912


 

Non è privo di significato che al termine delle due conferenze pubbliche

io abbia rilevato con sempre maggior forza che l’antroposofia non deve essere una teoria, una mera scienza,

qualcosa che nel senso corrente si definisce conoscenza,

bensì qualcosa che nella nostra anima può trasformarsi

da semplice conoscenza, da mera teoria in vita immediata, in elisir di vita.

 

L’antroposofia non ci comunica, dunque, solo delle nozioni,

perché quelle che fa affluire in noi sono soprattutto delle forze,

che non aiutano solo nella vita consueta che conduciamo qui nell’esistenza fisica,

ma anche nella vita intesa nella sua interezza, cioè

• sia quella che viviamo nell’esistenza fisica

• sia quella che conduciamo quando siamo disincarnati tra la morte e una nuova nascita.

 

Più si intensifica in noi il sentimento che l’antroposofia ci apporta forze ristoratrici,

elementi che promuovono la vita, più la comprendiamo meglio.

 

Ora, nel sentire queste parole, qualcuno potrebbe avvertire il forte impulso a formulare il seguente interrogativo: si dice che l’antroposofia ci infonda forza, che ci sostenga nella vita, ma allora perché dobbiamo acquisire un numero così grande di conoscenze d’ogni specie e all’apparenza teoriche? Perché, quando ci ritroviamo nelle nostre sedi, ci vengono inflitte, per così dire, nozioni d’ogni sorta sulle precedenti incarnazioni planetarie della nostra Terra? Perché dobbiamo venire a conoscenza di cose che si sono svolte in tempi remoti?

Perché dobbiamo apprendere, persino nei dettagli più reconditi e sottili, le leggi della reincarnazione, del karma e così via? Qualcuno potrebbe pensare che, in fondo, anche l’antroposofia non sia che una scienza come le altre che vediamo manifestarsi nella vita esterna nel mondo fisico.

 

Ora, considerare questi interrogativi – che abbiamo qui rilevati come domande che, per così dire, possono emergere pressanti – richiede l’esclusione di ogni forma di comodità. Occorre esaminarsi attentamente al fine di accertare se, ponendo domande come queste, non si sia già insinuato in esse qualcosa del solito deprecabile andazzo che – scusate! – si può fin troppo bene esprimere con le seguenti parole:

l’uomo, in realtà, non impara volentieri, non ama apprendere nozioni spirituali, gli fa scomodo occuparsene.

 

Bisogna chiedersi se in tali domande non si sia inserita in qualche misura questo clima psicologico della scomodità. A ben guardare, infatti, noi partiamo dal presupposto che ci fa un po’ credere che quanto di più elevato l’antroposofia può darci si possa conseguire per una via più comoda di quella che, ad esempio, ci viene indicata dalla nostra letteratura, quella che noi coltiviamo.

Spesso si sente anche rilevare, con una certa superficialità, che l’uomo non avrebbe bisogno d’altro che di conoscere se stesso, che gli basterebbe tentare di divenire buono e che così sarebbe già un antroposofo.

 

Ma una conoscenza più profonda noi l’acquisiamo proprio comprendendo

che essere un uomo buono è una delle cose più difficili del mondo,

e che non v’è nulla che richieda maggiore preparazione dell’ideale di essere un uomo buono.

 

Riguardo, poi, alla conoscenza di sé, non è questa davvero una questione cui sia possibile dare risposta in un batter d’occhio, come taluno, invece, amerebbe. Oggi, perciò, affronteremo più da vicino proprio alcuni interrogativi portati spesso ad espressione con le parole suddette.

 

Passiamo a considerare come mai l’antroposofia ci si presenti, anche se solo in apparenza, come una dottrina, una scienza,

sebbene sia proprio essa a coincidere in sommo grado

con quella che si può designare con il nome di conoscenza di sé, autoconoscenza,

e debba altresì coincidere con quello che si definisce un anelito alla bontà dell’uomo.

• A tal fine sarà soprattutto necessario considerare da vari punti di vista il modo in cui l’antroposofia può fluire nella vita.

 

Dalle grandi problematiche della vita sceglieremo un caso preciso. Non mi riferisco alle problematiche che riguardano la ricerca scientifica, ma a quelle che la vita presenta ogni giorno e che ognuno di noi senza alcun dubbio conosce. Parlo della questione del conforto che possiamo ottenere nella vita quando, per una causa qualsiasi, siamo colpiti dal dolore, quando, per questa o quella ragione, la vita non ci soddisfa pienamente. In altre parole, poniamoci la seguente domanda:

in che modo l’antroposofia, ad esempio, può recare conforto ad una persona afflitta nel momento in cui ne ha bisogno?

 

È, però, evidente che è compito di ognuno applicare al proprio caso personale quel che si può dire riguardo ad una questione come questa. Quando si parla a molte persone, non ci si può esprimere che in linea generale.

Perché abbiamo bisogno di conforto nella vita? Proprio perché, per questo o quel motivo, possiamo provare dolore, perché possiamo affliggerci, essere colpiti dalle sofferenze. Ora, è naturale che rispetto al dolore l’uomo senta che qualcosa nella sua interiorità debba respingere quella sofferenza, e formula questo sentimento dicendo a se stesso: perché devo patire queste sofferenze? Perché mi colpisce questo dolore? Perché non posso vivere la mia vita senza soffrire ed essere, invece, contento?

Chi pone così questa domanda, può arrivare ad una risposta solo acquisendo una reale conoscenza della natura del nostro karma umano, del destino dell’uomo.

 

Perché soffriamo nel mondo?

Mi riferisco sia alle sofferenze esteriori sia alle interiori, quelle che salgono dall’organismo interno, che fanno sì che non siamo mai soddisfatti di noi stessi e non riusciamo ad orientarci chiaramente. Mi riferisco a queste sofferenze. Perché ci colpiscono queste cose che ci lasciano insoddisfatti nella vita?

 

Studiando le leggi del karma, ci accorgeremo che la causa delle nostre sofferenze è simile a quella che, nella vita tra nascita e morte, si può spiegare a un dipresso con l’esempio seguente che ho già addotto più volte.

Supponiamo che una persona sia vissuta fino a diciotto anni a carico del padre, sia passata da un divertimento all’altro senza lesinarsi nulla. Poi un giorno il padre perde il suo patrimonio, fa bancarotta. Il giovane deve ora darsi da fare, deve rimboccarsi le maniche. La vita lo investe infliggendogli dolori e privazioni. Possiamo ben comprendere che questo giovane uomo non accolga di buon grado le sofferenze che deve sopportare.

Supponiamo ora che arrivi a cinquant’anni. La lezione appresa in gioventù ha fatto di lui una persona per bene. Ora è saldamente inserito nella vita e può dire a se stesso: allora era comprensibile che io giudicassi in un certo modo i dolori e le pene patiti, ora, però, la penso diversamente, adesso devo dire che le sofferenze non avrebbero potuto cogliermi se già allora fossi pervenuto alla piena maturità, per quanto maturi si possa essere a diciotto anni. Ma se allora le sofferenze non mi avessero colpito, sarei rimasto un buono a nulla. È stato il dolore a trasformare i difetti in virtù. Devo a quel dolore se sono diventato un uomo diverso da quello che ero quarant’anni fa. Che cosa è confluito allora in me? Si sono incontrati la mia imperfezione di quegli anni e il mio dolore. La mia imperfezione è andata, per così dire, alla ricerca del mio dolore perché fosse cacciata e si trasformasse in perfezione.

 

Queste considerazioni possono risultare già da una visione banale della vita tra nascita e morte.

Approfondendo la vita nella sua interezza e ponendoci in questo modo realmente di fronte al nostro karma, come abbiamo

evidenziato in modo particolare nel corso della conferenza dell’altro ieri, perverremo sempre al convincimento che

•  tutte le sofferenze che ci colpiscono, tutti i dolori che ci ostacolano sono ricercati dalla nostra imperfezione.

 

E la stragrande maggioranza delle sofferenze e delle afflizioni

sono ricercate dalle imperfezioni che ci siamo portati qui da incarnazioni precedenti.

Essendo queste imperfezioni in noi,

colui che nella nostra interiorità è più intelligente di noi cerca la via che porta alle sofferenze e ai dolori.

È una regola aurea della vita, quella che vede tutti noi esseri umani

avere sempre nella nostra interiorità qualcuno che è più intelligente, molto più saggio di noi.

È, infatti, meno saggio quello che nella vita consueta denominiamo “io”.

 

Questo “saggio minore”, se fosse lui a poter scegliere tra un dolore ed un piacere, opterebbe per il piacere.

Il “saggio maggiore”, che risiede nelle profondità del nostro subconscio cui la nostra coscienza abituale non si estende,

nasconde al nostro sguardo un facile piacere e accende in noi una forza magica che, a nostra insaputa, conduce ai dolori.

 

Ma che cosa vuol dire “a nostra insaputa”? Vuol dire che

il saggio maggiore si impone sul saggio minore e agisce sempre in noi

in modo da dirigere le nostre imperfezioni ai nostri dolori facendoci soffrire,

perché con ogni pena, interiore ed esteriore, sradichiamo un’imperfezione

e perveniamo ad un maggior grado di compiutezza.

 

Frasi come queste si possono riconoscere in teoria, ma questo non basta. Molto proficui sono, invece, certi momenti di quiete, sottratti agli impegni esteriori, in cui ci si applica con la volontà, e con tutta l’energia di cui si è capaci, a fare di una frase come questa un contenuto vitale dell’anima.

 

La solita vita quotidiana, con il lavoro, la fretta affannosa, le tante faccende da sbrigare, non sempre ce lo consentono. Non è sempre possibile, per così dire, liberarci del nostro saggio minore, della cui presenza dobbiamo comunque prendere atto. Ma se decidiamo di ritagliarci una pausa per la vita – per quanto brevi questi quieti ritagli di tempo possano essere – allora potremo rivolgere a noi stessi delle parole come queste: adesso voglio astrarmi da tutta la rumorosa confusione che imperversa fuori, a cui ho anch’io contribuito, ora voglio considerare i miei dolori sviluppando in me il sentimento che è stato il saggio maggiore dentro di me ad attirarmi ad essi con forza magica, e che sono stato io stesso ad impormi certe sofferenze senza le quali non avrei superato certe imperfezioni.

 

Poi ci sentiremo permeare da una beata sapienza che, per così dire, si identifica in queste parole:

il mondo è pieno di saggezza anche quando appare ricolmo di dolore!

Questa è una conquista dell’antroposofìa per la vita.

 

Potremo anche dimenticarci di questa meditazione riguardo alla vita esteriore, ma se non la dimenticheremo e ne faremo un esercizio che ripeteremo di frequente ci avvedremo di avere posto un seme nella nostra anima, constatando che certe malinconie, certi momenti di sconforto si trasformano in allegrezza, in forza, in un senso di vigore. Il beneficio che trarremo da questi solenni ritagli di tempo riservati alla vita si esprimerà in una maggiore armonia dell’anima e farà di noi esseri umani più forti.

 

Poi potremo anche aggiungere dell’altro

– ma l’antroposofo dovrebbe seguire la regola che gli impone di non concedersi altre pause contemplative,

se non dopo aver reso efficaci nella propria anima i momenti della consolazione delle sofferenze –

potremo considerare le gioie, i piaceri che possiamo sperimentare nella vita.

 

Chi si pone di fronte al destino con animo libero e franco, come se avesse voluto egli stesso i dolori provati, viene a trovarsi in una condizione molto singolare nel momento in cui oggetto della sua considerazione sono i piaceri e le gioie. Gli accade di non riuscire a raccapezzarsi, come invece è in grado di fare rispetto alle sofferenze patite.

Facile è, infatti, trovare conforto del dolore – e chi non ci crede, provi ad immedesimarsi in quello stato -, difficile è, invece, venire a capo della situazione quando si tratta dei piaceri e delle gioie.

 

Per quanto intensa possa essere l’energia che si impiega per immedesimarsi nello stato d’animo che ravvisa nella propria volontà la causa dei dolori di cui si soffre, se la si applica ai piaceri e alle gioie non potrà produrre altro che un senso di vergogna. Si proverà un vero e proprio senso di vergogna, che si potrà superare solo rivolgendo a se stessi parole come queste:

• no, non sono stato davvero io, in base al mio karma, a donarmi i piaceri e le gioie che ho avuto!

 

Questo è l’unico modo per superare questo senso di vergogna

che, altrimenti, può intensificarsi al punto da arrivare a provocare quasi una distruzione nell’anima.

 

L’unica cura possibile consiste nel non attribuire al saggio maggiore presente nella propria interiorità

l’impulso che ci ha condotto a provare gioia.

Questo pensiero permette di riconoscere che la conclusione tratta era quella giusta, perché il senso di vergogna scompare.

 

I piaceri e le gioie che c’è dato di provare nella vita ci sono donati dalla savia guida universale senza apporti da parte nostra.

Occorre accoglierli come un’elargizione di grazia

in cui dobbiamo sempre riconoscere il suo essere destinata ad inserirci nel cosmo intero.

 

Nei solenni ritagli di tempo della vita, nelle ore solitarie,

l’azione che i piaceri e le gioie esercitano su di noi va percepita come grazia,

come grazia elargita dalle onnipotenze cosmiche che ci vogliono ricevere, accogliere, in certo modo, nel loro seno.

 

• Mentre, dunque, i dolori e le sofferenze ci riportano a noi stessi, ci innalzano ad un superiore livello di compiutezza,

i piaceri e le gioie sviluppano in noi – ma solo se li consideriamo una grazia –

un sentimento che non può definirsi in altro modo se non esprimendolo così:

un sentimento di quiete beatificante nell’alvo delle divine potenze e forze universali.

 

E qui l’unico stato d’animo giusto verso piaceri e gioie è quello della gratitudine.

Chi, in momenti di solitudine dedicati alla conoscenza di sé,

attribuisse al suo karma i piaceri e le gioie, non potrebbe comprendere né gli uni né le altre.

Se li ascrivesse al suo karma cadrebbe in quell’errore che indebolisce e paralizza l’elemento spirituale in noi.

Qualsiasi pensiero che ravvisi in un piacere, in una gioia, un nostro merito, ci indebolisce e ci paralizza.

 

Ciò può apparire duro.

Taluno, infatti, per il fatto di attribuire alla propria volontà il dolore provato, dovuto alla propria individualità,

amerebbe essere anche signore dei piaceri e delle gioie che vive.

Ma basta già l’ordinaria osservazione della vita a farci comprendere

come ai piaceri e ai godimenti sia proprio un elemento in qualche misura mortifero.

 

Non v’è forse opera che al pari del Faust descriva con tanta pregnanza questo elemento mortifero dei piaceri e dei godimenti. Queste le parole che caratterizzano con esplicita evidenza l’elemento paralizzante dei piaceri e dei godimenti nella vita umana:

«Dalla brama, così, verso l’ebbrezza vo barcollando;

e nell’ebbrezza, ahimè, una brama ritrovo, in cui mi struggo».

 

Chi rifletta anche solo un poco sull’influsso del piacere, preso a livello personale, potrà constatare

come proprio del piacere sia un elemento che ci induce a vivere in uno stato di ebbrezza e che estingue il nostro sé.

 

Questa non vuole essere affatto una predica contro il piacere, nemmeno una sollecitazione a darsi a pratiche di autoflagellazione come, ad esempio, quella che ci induce a lacerarci le carni con tenaglie ardenti, e via dicendo. Non è questo il senso in cui intendere queste parole.

Se si comprende giustamente una cosa, ciò non significa che si debba rifuggire da essa.

Non ho detto “rifuggire”. Quel che dobbiamo fare, quando ci si presenta, è accoglierla con tranquillità.

Ma lo stato d’animo che dobbiamo sviluppare è quello che la percepisce come grazia, e più è intenso, meglio è, perché tanto più profondamente ci immergeremo nel divino. Queste parole non sono state espresse per predicare l’ascesi, bensì per risvegliare il giusto stato d’animo verso piaceri e gioie.

Chi, però, dicesse: piaceri e gioie hanno qualcosa di paralizzante, di mortifero, perciò io rifuggo da loro – questo è l’ideale del falso ascetismo, dell’automortificazione – rifuggirebbe dalla grazia che gli dei gli donano. E, in fondo, le autoflagellazioni degli asceti, dei monaci e delle suore sono continue rivolte contro gli dèi.

 

È per noi doveroso recepire nel sentimento

• che i nostri dolori ci derivano dal nostro karma,

• e che la  g i o i a  è la grazia per la quale il divino può discendere benignamente a noi.

• Piaceri e gioie siano per noi il segno che il Dio ci ha tratti molto vicino a Sé,

• e dolori e sofferenze siano per noi il segno della lontananza

che separa noi uomini dotati della facoltà della ragione dalle mete che dobbiamo raggiungere.

• Questo è lo stato d’animo sostanziale rispetto al karma, e senza di esso non ci è possibile progredire veramente nella vita.

 

Il bello e il buono che il mondo ci elargisce deve infonderci il sentimento che dietro questo mondo vi sono le potenze di cui la Bibbia dice: e videro che era bello e buono, il mondo.

In quanto capaci di sentire la sofferenza, dobbiamo riconoscere ciò che l’uomo nel corso delle incarnazioni ha fatto di questo mondo che agli inizi era buono, e che cosa deve correggere educandosi all’energica sopportazione di questi dolori.

 

La descrizione che ho fatto non è che un duplice modo di accettare il nostro karma.

Sotto un certo aspetto, il nostro karma è, infatti, costituito da gioie e dolori.

 

Noi ci poniamo di fronte al nostro karma con la giusta volontà, come se lo avessimo voluto veramente,

se siamo in grado di porci nel giusto modo di fronte alle gioie e ai dolori.