L’origine del male

O.O. 155 – Cristo e l’anima umana – 30.05.1912


 

Sommario: L’origine del male. Le virtù delle anime: senziente, razionale e cosciente. L’impulso del Cristo per la futura evoluzione dell’umanità. I futuri involucri del Cristo: fede, meraviglia, amore, coscienza

 

Ieri abbiamo cercato di riconoscere l’origine degli impulsi morali nella natura umana

e di dimostrare, coi fatti che abbiamo trattati, come essenzialmente la base della moralità, la base del bene

giacciano sul terreno stesso della natura dell’anima umana

e come l’uomo, proprio soltanto nel corso dell’evoluzione, nel suo passare da un’incarnazione all’altra,

si sia traviato dalla sua originaria disposizione al bene;

e da ciò il male, l’ingiustizia, l’immoralità siano penetrati nell’umanità.

 

Se questo è vero, dobbiamo stupirci veramente che il sorgere del male sia stato possibile e domandarci come mai il male sia divenuto possibile nel corso dell’evoluzione.

Una risposta esauriente si può avere soltanto se rivolgiamo lo sguardo agli elementari insegnamenti morali che sono stati dati all’umanità dai tempi più antichi. I discepoli dei misteri che avevano come più alto ideale di approfondire sempre meglio le grandi verità e conoscenze spirituali dovettero, dove si lavorava rettamente nel senso dei misteri, agire sulla base di un fondo morale; così la proprietà della natura morale dell’uomo fu rivelata a questi discepoli dei misteri in un modo del tutto particolare.

 

Per dirla in breve,

veniva mostrato ai discepoli dei misteri che la natura umana può essere guastata in due modi,

e che l’uomo, proprio per il fatto di poter andare in due direzioni diverse,

è nella possibilità di sviluppare il libero volere;

poiché la vita umana può svolgersi in senso giusto

soltanto se queste due possibilità di errore vengono considerate come i due piatti della bilancia,

dei quali, quando uno sale, l’altro si abbassa e viceversa.

Il giusto equilibrio è solo possibile quando i due bracci della bilancia sono orizzontali.

 

Il giusto comportamento poteva soltanto esser raggiunto se l’uomo, ad ogni istante della sua vita, si trovava nella situazione di esser trascinato ora da una parte e ora da quell’altra, in modo che egli stesso potesse trovare l’equilibrio, il giusto mezzo fra le due.

 

Prendiamo ad esempio le virtù di cui abbiamo parlato: il coraggio, il valore. Un lato verso il quale l’anima umana può eccedere è la temerarietà; cioè l’operare affannoso, sfrenato nel mondo che abusa fino all’estrema tensione delle forze disponibili. Questa è una delle due parti: la temerarietà. L’altro piatto della bilancia è la viltà. L’uomo può eccedere in queste due direzioni, e al discepolo dei misteri veniva mostrato che l’uomo perde se stesso e lascia che il suo sé venga frantumato dalle ruote della vita, quando si abbandona alla temerarietà.

 

Quando invece egli erra dal lato della viltà, questo lo indurisce e lo isola dal rapporto con le cose e gli esseri. Diviene un essere chiuso in sé, caduto fuori dall’insieme, poiché le sue azioni e i suoi gesti non sono in armonia col tutto. Questo era indicato ai discepoli dei misteri in relazione a ciò che l’uomo può fare. Egli può agire così da essere demolito, lacerato dal mondo esteriore perché egli vi ha disperso il proprio sé, o può anche, non soltanto riguardo al coraggio, ma in ogni azione, comportarsi così da indurirsi, disseccarsi.

 

Perciò nel codice morale dei misteri stavano scritte le parole piene di significato:

• « Devi trovare il punto medio, così non ti perderai nel mondo, attraverso le tue azioni, né il mondo perderà te ».

Questi sono i due poli opposti nei quali l’uomo può imbattersi:

o egli può andare perduto per il mondo che lo afferra e lo dilania come nella temerarietà;

oppure il mondo può andar perduto per lui, perché egli si è indurito nel suo egoismo, come nel caso della viltà.

 

Così si diceva agli scolari dei misteri: non ci può essere un vero unico bene fisso verso il quale anelare, ma piuttosto sorge un bene soltanto per il fatto che l’uomo incessantemente, come un pendolo, può oscillare da due lati, e può, per forza interiore, trovare; la possibilità dell’equilibrio, della giusta misura.

 

Questo ci dà la possibilità di comprendere la libertà del volere e l’importanza della ragione e della saggezza nelle azioni umane. Se fosse stato conforme all’uomo di aderire ai princìpi morali eterni, sarebbe bastato per lui appropriarsi questi principi morali, ed egli avrebbe potuto tranquillamente andare con itinerario uniforme attraverso la vita. Ma la vita non è mai così.

 

La libertà della vita sta piuttosto nel fatto che l’uomo ha sempre la possibilità di errare in due direzioni.

E da ciò viene anche la possibilità del male.

Il male è ciò che nasce quando l’uomo si perde nel mondo o quando il mondo perde l’uomo.

• Nell’evitare questi due mali sta quello che noi possiamo chiamare bene.

Il male è diventato possibile nel corso dell’evoluzione

perché gli uomini, procedendo da un’incarnazione all’altra, errarono nell’uno o nell’altro senso,

e siccome non seppero sempre trovare l’equilibrio,

divenne necessario, in un tempo futuro, il pareggio karmico delle loro azioni.

 

Quello che non si raggiunge in una vita, perché non ci si è sempre mantenuti nel mezzo, viene raggiunto nel corso dell’evoluzione, nella quale l’uomo che ha errato in un senso è spesso obbligato nella vita successiva a spostarsi nell’altra direzione e così a creare un pareggio.

 

Ho esposto qui una regola aurea degli antichi misteri. Come avviene sovente, noi troviamo anche in questo caso, presso i filosofi dell’antichità, un’eco di questo principio fondamentale dei misteri. In Aristotele, dove egli parla della virtù, troviamo un detto che sarebbe incomprensibile se non si tenesse presente che ciò di cui abbiamo parlato, cioè quel fondamentale principio dei misteri, era stato tramandato ad Aristotele, ed egli l’aveva incorporato nella sua filosofia.

La meravigliosa definizione di Aristotele è questa:

• « La virtù è una capacità umana guidata da un esame ragionato

che, rispetto all’uomo, mantiene il giusto mezzo tra il troppo e il troppo poco ».

 

In questo caso Aristotele dà della virtù una definizione che da nessuna filosofia successiva è stata raggiunta. Perché Aristotele aveva la tradizione dei misteri, nella quale poteva veramente trovare il giusto. Cioè la famosa via di mezzo che deve venir mantenuta se l’uomo ha da essere veramente virtuoso, se la forza morale deve dare impulso al mondo.

Ma adesso possiamo anche rispondere alla domanda: perché deve esistere una morale? Che cosa accadrebbe se non vi fosse alcuna morale, se il male trionfasse, se il troppo o il troppo poco, il perdersi dell’uomo nel mondo, o il perder l’uomo da parte del mondo si avverassero? In ognuno di questi casi sempre qualcosa viene distrutto.

 

Ogni male, ogni immoralità è una distruzione, un processo distruttivo,

e nell’istante in cui l’uomo vede che egli non può far altro che distruggere,

che togliere al mondo qualche cosa quando fa il male, agisce nell’uomo,

in modo straordinariamente potente, inizia il momento del bene.

 

Questo è appunto il compito della concezione antroposofica

che ora ha appena cominciato il suo ingresso nel mondo: essa cioè deve chiarire agli uomini

che ogni male agisce come un processo di distruzione, toglie al mondo qualche cosa che ha la sua ragione di essere.

 

Se ora, nel senso della nostra concezione del mondo, ci atteniamo a questo principio,

quello che noi sappiamo sopra la natura dell’uomo ci porta ad una visione particolare del bene e anche del male.

 

• Noi sappiamo che l’anima senziente si è sviluppata nell’umanità durante l’antica civiltà caldaica,

cioè nel terzo periodo di civiltà postatlantica.

La vita di oggi non ha nessuna idea di questo periodo di evoluzione;

nella storia esteriore si arriva a mala pena a ritroso ai tempi dell’Egitto.

• Così sappiamo pure che l’anima razionale si è sviluppata nel quarto periodo postatlantico, nell’epoca greco-latina,

• e che oggi, nel tempo in cui viviamo, dobbiamo sviluppare l’anima cosciente.

• Il sé spirituale si affermerà nel sesto periodo dell’evoluzione postatlantica.

 

Ora cerchiamo di indagare come possa deviare nell’uno o nell’altro senso l’anima senziente.

Essa è quella parte dell’anima umana che mette l’uomo nella condizione di sperimentare,

di sentire il mondo delle cose, di accoglierle in sé, di partecipare ad esse;

non attraversare il mondo rimanendo ignorante riguardo alle cose,

ma entrare in rapporto con ognuna di esse: così opera l’anima senziente.

 

Uno dei due sensi in cui l’uomo può errare possiamo trovarlo per l’anima senziente se ci chiediamo

che cosa è, in generale, che rende possibile all’uomo di avere un rapporto con le cose.

Quello che crea un rapporto fra gli uomini e le cose è quello che noi chiamiamo l’interesse per le cose.

Con questa parola « interesse » abbiamo detto qualche cosa di infinitamente importante nel senso della morale.

 

È più importante penetrare nel significato morale della parola « interesse »

che di proporsi mille e mille, sempre belle, quand’anche soltanto ipocrite e meschine, regole morali.

I nostri impulsi morali vengono guidati all’azione nel miglior modo

quando noi portiamo un giusto interesse verso le cose e gli esseri.

 

Questo deve esser ben chiaro. Nella conferenza di ieri abbiamo parlato in un senso così profondo dell’amore come impulso, che è impossibile essere fraintesi quando noi ora diciamo che il solito declamare di amore, amore e amore non può sostituire l’impulso morale che sta in ciò che si può indicare con la parola « interesse ».

 

Poniamo per esempio di avere un bambino davanti a noi. Qual è la condizione preliminare per dedicarci a questo bambino, che cosa dobbiamo predisporre per poterlo far progredire? La premessa necessaria è di avere interesse per il suo essere. Denota già uno stato non sano dell’anima umana quando l’uomo si ritrae di fronte a qualcosa che deve interessarlo.

 

Quanto più procediamo verso ciò che sta a base della morale, invece che attenerci soltanto alle prediche,

tanto più dovremo riconoscere che l’impulso dato dall’interesse

è del tutto straordinario e prezioso nel senso della morale.

• Se noi allarghiamo il nostro interesse, se troviamo la possibilità

di trasferirci pieni di comprensione nelle cose e negli esseri,

questo richiama le nostre forze interiori anche di fronte agli uomini.

• Pure la compassione viene nel giusto modo risvegliata quando noi abbiamo interesse per una creatura.

 

E quando noi, come antroposofi, ci poniamo il compito di allargare sempre e sempre più il nostro interesse, di far diventare sempre e sempre più vasto il nostro orizzonte, in conseguenza di ciò aumenterà, l’universale fraternità umana. Non possiamo progredire con le prediche sull’amore umano universale, ma piuttosto per il fatto che noi nutriamo interessi sempre più vasti, così che l’anima si rivolga con comprensione verso i più svariati temperamenti, i più diversi tipi di caratteri o particolarità di razze e di nazionalità, o verso le diverse concezioni religiose e filosofiche.

 

Il giusto interessamento, la giusta comprensione, fa scaturire dall’anima la giusta azione morale.

 

Anche qui è necessario tenersi in equilibrio fra due estremi.

• Uno è l’apatia del sentimento che si tiene estranea a tutto e provoca nel mondo infinite catastrofi,

poiché vive solo in se stessa e sta fissa testardamente ai suoi principi, sì da dire continuamente :

« Questo è il mio punto di vista ».

L’avere un « punto di vista » nel campo della morale è già qualcosa di male.

 

L’essenziale per noi è di avere gli occhi aperti per tutto quello che ci circonda.

L’ottusità del sentire, l’apatia, ci pone fuori del mondo, mentre l’interesse ci trasporta in mezzo ad esso.

Il mondo perde noi a causa della nostra apatia, e noi diventiamo immorali.

Vediamo così che l’apatia e l’assenza di interesse per il mondo

sono al massimo grado, moralmente, dei mali.

 

L’antroposofia, però, rende lo spirito sempre più sveglio, ci aiuta a pensare meglio ciò che è spirituale e a portarlo in noi. Come è vero che dal fuoco scaturisce calore quando accendiamo la stufa, così è vero che sorge interesse per ogni uomo e per ogni essere quando noi facciamo nostra la saggezza antroposofica.

 

La saggezza è il combustibile che genera interessamento,

e noi possiamo dire semplicemente, anche se a prima vista non sembra così,

che quando l’antroposofia studia le cose più remote

come l’insegnamento sull’antico Saturno, l’antico Sole, l’antica Luna, il karma, ecc.,

in noi, come conseguenza e contraccolpo, sorge interesse per tutto.

 

Accade realmente che l’interessamento è ciò che sorge come prodotto di trasformazione delle conoscenze antroposofiche, mentre dalle conoscenze materialistiche sorge quello che noi oggi, purtroppo, vediamo crescere attorno a noi e che, in modo radicale, deve venir designato come apatia. Se questa dovesse veramente dominare da sola nel mondo, produrrebbe immani disastri.

 

Si pensi a quanti girano il mondo e incontrano questa o quella persona senza in fondo conoscere mai nessuno, perché sono del tutto chiusi in sé. Così avviene spesso che due uomini, dopo un lungo periodo di amicizia, la chiudano e improvvisamente arrivino alla rottura. Questo avviene perché l’impulso della loro amicizia aveva un carattere materialistico, e, dopo un certo tempo, i due si accorgono di certi aspetti non simpatici dei rispettivi caratteri che fino allora essi non avevano osservato. Pochi uomini hanno occhi aperti per ciò che parla da uomo a uomo.

 

E in questo proprio deve agire l’antroposofia: nell’aprire i nostri sensi

in modo da avere occhi aperti e anima aperta per tutto quanto di umano è attorno a noi,

affinché noi possiamo andare per il mondo non apaticamente, ma invece col giusto interesse.

 

Si può anche evitare l’estremo opposto mantenendo il giusto mezzo, distinguendo chiaramente tra il vero e il falso interesse. Darsi all’eccesso ad ogni cosa, così come « gettarsi le braccia al collo » è un perdersi passionale negli esseri e non un reale interesse. Facendo così noi ci perdiamo nel mondo.

 

• Con l’apatia il mondo perde noi,

• con l’insensata passionalità che si annebbia nella dedizione, noi ci perdiamo nel mondo.

• Con un sano interesse ci consolidiamo moralmente nel punto di mezzo, nel punto dell’equilibrio.

 

Nel terzo periodo postatlantico, l’egizio-caldaico, viveva ancora sulla terra, nella maggioranza della popolazione, un certo impulso a mantenere l’equilibrio fra l’apatia e la stordita passionale dedizione al mondo; e questo è ciò che negli antichi tempi, e ancora presso Platone e Aristotele, troviamo indicato come « saggezza ».

 

Ma gli uomini vedevano in essa un dono di esseri sopraumani, poiché, fino a quel tempo, erano attivi gli antichi impulsi della saggezza. Da questo punto di vista, perciò, il terzo periodo di civiltà postatlantica, rispetto agli impulsi morali, ci appare come un’epoca nella quale la saggezza agisce istintivamente. E quando studiamo questo periodo si può sentire la verità dell’esposizione data l’anno scorso, sia pure con intenzioni del tutto diverse, nelle conferenze di Copenaghen, pubblicate poi sotto il titolo La direzione spirituale dell’uomo e dell’umanità, e cioè che gli uomini di una volta stavano ancora vicini alle potenze divine spirituali. E per il fatto che gli uomini stavano più vicini alle potenze divine spirituali, nella terza civiltà postatlantica vi era la saggezza istintiva.

 

La facoltà di raggiungere con le proprie azioni la giusta misura fra l’apatia e la dedizione esagerata era sentita, allora, come un dono divino. Questo compenso, questo equilibrio, veniva ottenuto, a quel tempo, anche con gli ordinamenti esteriori. Non vi era ancora quella generale mescolanza dell’umanità, che si produsse nel quarto periodo di civiltà postatlantica, il greco-latino, attraverso le migrazioni dei popoli. Gli uomini erano ancora chiusi in popoli e stirpi.

 

Gli interessi degli uomini erano regolati dalla loro stessa natura, e così saggiamente che i giusti impulsi morali potevano compenetrarli, e, d’altra parte, l’esistenza della consanguineità nelle stirpi metteva un argine alla passionalità insensata. Dall’osservazione della vita risulta che anche oggi si trova un particolare interesse reciproco dove c’è parentela di sangue e di stirpe. Ma ne è esclusa la passionalità insensata.

Siccome poi nell’epoca egizio-caldaica gli uomini erano riuniti in piccoli territori, era facile mantenere il saggio giusto equilibrio.

 

Ma il senso del progresso dell’umanità consiste nel fatto

che ciò che era, primitivamente, istintivo, ancora soltanto divino spirituale, a poco a poco scompare,

e che gli uomini diventano indipendenti dalle potenze divine spirituali.

 

Già nel quarto periodo di civiltà postatlantica, nell’epoca greco-latina,

tanto i filosofi Platone e Aristotele, come pure l’opinione pubblica, in Grecia,

consideravano la saggezza non più un dono divino, ma una cosa da conquistare.

La prima virtù, per Platone, è la saggezza,

ed è immorale, per Platone, colui che non anela alla saggezza.

 

Ci troviamo ora nel quinto periodo di civiltà postatlantica. E siamo ben lontani dal momento in cui la saggezza, che fu istillata in forma istintiva come un divino impulso nell’umanità, sarà di nuovo in essa, ma cosciente. Proprio per questo fatto esiste ai nostri tempi, in modo del tutto speciale, la, possibilità di errare nelle due direzioni di cui abbiamo parlato. E quindi è tanto più necessario che sia fatto un lavoro contro i gravi pericoli di questo momento, per mezzo di una spirituale, antroposofica concezione del mondo, che dia all’uomo la possibilità di trasformare in saggezza cosciente quello che una volta aveva avuto come saggezza istintiva.

 

L’essenza stessa del movimento antroposofico sta nel rendere possibile all’uomo

di conquistare come un tesoro di saggezza quello che prima aveva avuto in modo istintivo.

La differenza sta dunque nel fatto che

• gli dei diedero una volta all’anima umana incosciente la saggezza come qualcosa di istintivo,

• mentre ora sono gli uomini che debbono far propri i tesori di saggezza sul cosmo e sull’evoluzione dell’umanità.

Gli ordinamenti antichi sono stati fatti secondo i pensieri degli dei.

Noi vediamo l’antroposofia nel giusto senso se la consideriamo come la ricerca dei pensieri divini.

 

In quel tempo questi erano istintivamente insufflati negli uomini; oggi dobbiamo ricercarli e farli diventare nostro sapere. In questo senso l’antroposofia deve essere per noi qualcosa di divino. Noi dobbiamo però poter avere un atteggiamento pieno di devozione di fronte al fatto che i pensieri che ci sono trasmessi dall’antroposofìa sono veramente qualcosa di divino che noi uomini possiamo pensare, che noi possiamo portare oltre col nostro pensiero, poiché essi erano i pensieri divini, secondo i quali il mondo è stato organizzato. Se, per noi, l’antroposofia è veramente questo, noi staremo davanti alle cose in modo da sentire che esse ci sono date per compiere la nostra missione.

 

Quando noi studiamo quello che ci è trasmesso sopra l’evoluzione di Saturno, Sole, Luna, sopra la reincarnazione, lo sviluppo delle epoche e così via, diventiamo partecipi di potenti enigmi. E ci poniamo allora in giusto atteggiamento se diciamo a noi stessi : « I pensieri che noi cerchiamo sono i pensieri secondo i quali la divinità ha guidato l’evoluzione. Noi, quindi, pensiamo l’evoluzione degli dei ». Se si comprende ciò rettamente, allora nasce anche in noi qualcosa di profondamente morale. Ciò non può mancare.

 

E allora potremo concludere:

negli antichi tempi gli uomini avevano ricevuto dagli dei una saggezza in forma di istinto:

la stessa saggezza secondo la quale la divinità ha creato il mondo.

Perciò era loro possibile un agire morale.

Ora dobbiamo riconquistare coscientemente la saggezza, con l’antroposofia.

Quindi possiamo aver fiducia che la saggezza si trasformerà in noi in impulsi morali,

perché non assimiliamo soltanto saggezza antroposofica, ma, attraverso l’antroposofia, anche impulsi morali.

 

Ora in quali impulsi morali si trasformerà, proprio nel campo della saggezza, questo sforzo antroposofico? Qui dobbiamo toccare un punto di cui possiamo certamente prevedere lo sviluppo, e il significato, e il peso morale; un punto dell’evoluzione, ancora molto lontano da quello di oggi: e cioè richiamiamoci a quello che Platone designò come saggezza ideale. Egli poteva definirla così, con parole abituali là dove la « saggezza » viveva ancora istintivamente negli uomini, con parole che noi invece faremo bene a sostituire con altre. Faremo bene a sostituirle con la parola « veracità », perché noi siamo divenuti più individuali, perché ci siamo allontanati dalla divinità, e perciò dobbiamo di nuovo tendere verso di essa. Dobbiamo imparare a sentire il pieno peso della parola « veracità », e ciò sarà un risultato, in campo morale, della concezione antroposofica del mondo e dell’atteggiamento antroposofico. Gli uomini impareranno a percepire la veracità per mezzo dell’antroposofia.

 

Gli antroposofi di oggi dovranno perciò comprendere quanto sia necessario sentire pienamente questo elemento morale ; della « veracità » in un’epoca in cui il materialismo ha portato al fatto che si può bensì parlare di veracità, ma la vita in generale è, invece, molto lontana da sentire e intuire il giusto in questo campo.

 

Oggi non può essere diversamente.

La verità è qualche cosa che nella civiltà odierna deve mancare in alto grado

a causa di una determinata caratteristica assunta dalla civiltà moderna.

 

Io mi domando che cosa sente l’uomo odierno se in un quotidiano o in uno stampato qualunque trova una determinata notizia di cui si sa in seguito che semplicemente non era vera, così come era stata detta. Pensiamoci un momento. Non si può dire che ciò avvenga ad ogni passo, ma addirittura ad ogni piè sospinto. Dovunque: si esplica la vita moderna la «non veracità » è diventata una caratteristica della nostra epoca attuale, ed è comunque impossibile asserire che la « veracità » sia una sua caratteristica.

 

Si prenda un uomo, di cui si sappia che egli ha detto o scritto qualche cosa di falso, e glielo si faccia notare. Si troverà che, di regola, oggi, egli non ha affatto il sentimento di aver fatto qualche cosa di non giusto. Immediatamente userà una scappatoia, e dirà che ha detto quello che ha detto in buona fede.

Dire il falso, sia pure in buona fede, non può esser considerato morale dagli antroposofi.

 

Gli uomini devono capire sempre più che si deve arrivare a sapere che è anche veramente accaduto ciò che si afferma. Si può dunque dire o comunicare qualcosa soltanto dopo che si è sentito ed esplicato l’obbligo di provare se ciò è vero, servendosi dei mezzi disponibili. Solo quando questo diventa un obbligo interiore si può sentire la veracità come impulso morale. Allora non avverrà più che qualcuno, dopo aver messo nel mondo qualcosa di falso, possa dire : « Io pensavo così, l’ho detto in buona fede. » Poiché egli imparerà che il suo dovere non è soltanto di dire ciò che si crede di riconoscere come giusto, ma bensì di dire esclusivamente ciò che è vero, ciò che è giusto.

 

Dovrà intervenire necessariamente a poco a poco, a questo proposito, un radicale cambiamento nella nostra vita civile.

La rapidità delle comunicazioni, la sete di notizie sensazionali

e, in generale, tutto ciò che deriva come conseguenza di un’epoca materialistica, sono nemici della veracità.

Nel campo morale l’antroposofia diverrà un’educatrice dell’umanità al dovere della veracità.

 

Non è oggi mio compito di dire se e quanto la veracità si sia realizzata fra gli antroposofi. Ma devo dire che quello che ho esposto oggi deve essere, come principio, un alto ideale antroposofico. L’evoluzione morale nel movimento antroposofico avrà molto da fare prima che l’ideale morale della veracità venga pensato, sentito e attuato in tutte le direzioni.

 

Questo ideale morale della veracità sarà, oggi,

quello che susciterà nel giusto modo la virtù nell’anima senziente dell’uomo.

Dall’insegnamento antroposofico risulta

che la seconda parte costitutiva dell’anima umana è l’anima razionale o affettiva.

Essa si è affermata soprattutto nel quarto periodo di civiltà postatlantica, l’epoca greco-latina.

La virtù che è in particolare caratteristica di questa parte dell’anima (l’abbiamo già spesso ripetuto)

è il coraggio, l’audacia, il valore.