Passaggio dall’epoca atlantica all’epoca postatlantica

O.O. 103 – Il Vangelo di Giovanni – 29.05.1908


 

Abbiamo imparato che nel vangelo di Giovanni incontriamo le più profonde dottrine sul cristianesimo, quelle che potremmo definire anche come le dottrine universali della sapienza.

Solo cogliendo così questo profondo significato della dottrina cristiana abbiamo potuto comprendere perché il Cristo dovette inserirsi nell’evoluzione dell’umanità proprio in un ben determinato momento, quello appunto che sta all’inizio della nostra èra.

 

Sappiamo come si sia svolta a grado a grado questa evoluzione nell’età postatlantica: abbiamo accennato a come, dopo il diluvio atlantico, si sia svolto un primo grande periodo di civiltà, quello paleo-indiano, caratterizzato, come abbiamo detto, dal ricordo e dalla nostalgia che dominavano gli animi umani. Abbiamo caratterizzato in che cosa consistettero quel ricordo e quella nostalgia. Erano rimaste vive le tradizioni d’un’età precedente il diluvio atlantico, nella quale l’uomo aveva posseduto ancora per sua natura una specie di chiaroveggenza crepuscolare: grazie a questa, egli era in grado di avere un’esperienza diretta del mondo spirituale, come l’umanità odierna conosce i regni della natura fisica.

 

Abbiamo pure veduto che in quell’età precedente il diluvio atlantico non c’era ancora una così netta separazione fra lo stato di coscienza diurno dell’uomo e quello notturno di sonno. A quei tempi, quando l’uomo la sera era caduto nel sonno, le sue esperienze interiori non erano così oscure e incoscienti come oggi; infatti mentre si spegnevano per lui le immagini della vita diurna, si accendevano quelle della vita spirituale.

 

Quando poi al mattino rientrava nel suo corpo fisico, gli si ottenebravano le esperienze e le verità del mondo divino-spirituale, ed emergevano intorno a lui le immagini della realtà odierna, quelle del regno minerale, del vegetale, dell’animale, ecc.

 

Solo dopo il diluvio atlantico, nella nostra età postatlantica, si stabilì la demarcazione precisa fra l’incoscienza notturna e lo stato diurno di veglia. Allora l’uomo si trovò per così dire tagliato fuori (per quanto riguarda la percezione immediata) dalla realtà spirituale e sempre più esposto alla realtà puramente fisica. Era rimasto solo il ricordo d’un altro regno, d’un regno di entità e processi spirituali: e a quel ricordo era seguita la nostalgia delle anime di ritrovare l’accesso, grazie a qualche stato di coscienza eccezionale, ai regni dai quali l’umanità era discesa.

 

Quegli stati di coscienza eccezionali furono conferiti solo a pochi eletti, gli iniziati, ai quali venivano dischiusi i sensi interiori nelle di dei misteri, in modo che potevano percepire il mondo spirituale. Essi potevano rendere noto e testimoniare agli altri (che non erano in grado di percepire essi stessi) che i mondi spirituali erano realtà.

 

Lo yoga era, nell’antichissima civiltà paleo-indiana, il processo mediante il quale l’uomo si riportava nell’antico stato di chiaroveggenza crepuscolare. Quando poi singole nature d’eccezione erano state iniziate, esse divenivano così le guide dell’umanità, i testimoni del mondo spirituale.

 

Sotto l’influsso di quei ricordi e di quella nostalgia, in seno alla civiltà paleo-indiana pre-vedica andò appunto formandosi lo stato che scorgeva nella realtà esteriore solo maya, cioè illusione. Ci si diceva: la vera realtà sta proprio solo nel mondo spirituale, nel quale possiamo ritornare solo grazie a uno stato eccezionale, allo yoga. Quel mondo di esseri e processi spirituali è reale. Ma tutto quanto l’uomo vede con gli occhi è irreale, è illusione, è maya. Questo fu il primo stato d’animo religioso fondamentale nell’epoca postatlantica, e lo yoga fu la prima forma d’iniziazione in quest’epoca. Non v’era ancora nulla, in quella civiltà, che suonasse comprensione per la missione dell’età postatlantica, poiché non era certo missione dell’umanità il considerare come illusione, come maya, la realtà che noi chiamiamo sensibile, il fuggirla e l’estraniarsene.

 

Ben diversa era la missione dell’età postatlantica: cioè quella di conquistare sempre più la realtà fisica, di impadronirsi del mondo dei fenomeni fisici. È tuttavia anche ben comprensibile che l’umanità, quando venne per la prima volta a trovarsi sul piano fisico, considerasse a tutta prima come maya o illusione ciò che nel passato non affiorava quasi neppure entro la realtà spirituale, e che soltanto ora essa poteva percepire. Ma questo atteggiamento nei riguardi della realtà non doveva perdurare; questa concezione della realtà fisica come illusione non poteva restare il nucleo vitale dell’epoca postatlantica. Abbiamo potuto seguire come, a pezzo a pezzo, l’umanità postatlantica si sia andata conquistando il suo connesso con la realtà fisica.

 

Nella civiltà che noi chiamiamo paleo-persiana (e della quale la civiltà persiana o zaratustrica di cui parla la storia non è che l’ultima eco), in questo secondo periodo di civiltà, gli uomini compirono il primo passo per superare l’antico principio indiano, alla conquista della realtà fisica. Non che esista già un’amorevole immersione entro la realtà fisica, e neppure qualcosa che assomigli a uno studio del mondo fisico: però c’è già, in quella direzione, qualcosa di più che durante la civiltà paleo-indiana.

 

Persino ciò che di questa antichissima civiltà si trasmise ai tempi più recenti ci mostra ancora gli echi di quell’atteggiamento, che considerava la realtà fisica come illusione.

Perciò la nostra civiltà odierna non avrebbe mai potuto svilupparsi da quella indiana. In seno a quest’ultima, ogni saggezza distoglieva lo sguardo dal mondo fisico per innalzarlo ai mondi spirituali ch’erano ancora presenti nel ricordo, e lo studio e l’elaborazione della realtà fisica apparivano privi di valore.

 

Ecco perché il vero principio indiano non potè mai produrre una scienza utile al nostro mondo terreno: mai esso avrebbe potuto condurre a quel dominio sulle leggi naturali che costituisce la base della nostra civiltà. Tutto questo non avrebbe mai potuto scaturire dall’antica civiltà indiana: perché, infatti, indagare le forze d’un mondo fondato solo sull’illusione? Se più tardi anche nella stessa civiltà indiana le cose mutarono, questo derivò da influssi stranieri posteriori e non da quella civiltà stessa.

 

Alla civiltà paleo-persiana la realtà fisica esteriore si presentava come un campo d’attività. Essa viene ancora considerata come l’espressione d’una divinità ostile, ma è già fiorita la speranza di poter penetrare, con l’aiuto della divinità luminosa, nel campo della realtà fisica, di poterlo compenetrare interamente di potenze spirituali e divinità buone. A questo modo l’uomo paleo-persiano sentiva già la realtà del mondo fisico, la considerava bensì ancora come dominio del Dio delle tenebre, ma non senza la speranza di poterle incorporare le forze degli dèi buoni.

 

Poi l’umanità procede verso quel periodo che trovò la sua espressione storica nella civiltà babilonese-assiro-caldeo-egiziana; e abbiamo veduto come avvenne che il cielo non fosse più considerato maya, ma come qualcosa che poteva venir decifrato. Nelle luci e nelle orbite stellari, che per gli antichi indiani erano stati solo illusione, maya, gli uomini della terza civiltà postatlantica scorsero l’espressione delle decisioni e intenzioni divine: Si cominciò a vivere nella persuasione che la realtà esteriore non fosse illusione, bensì una rivelazione, una manifestazione delle entità divino-spirituali.

 

Nella civiltà egizia si cominciò ad applicare alla suddivisione della Terra stessa ciò che si era appreso a leggere nelle stelle. Perché gli egizi divennero i maestri della geometria? Perché ritenevano che, per mezzo del pensiero che misura e suddivide la Terra, si potesse anche dominare la materia; che la materia, una volta afferrata dallo spirito dell’uomo, potesse venire trasformata.

 

A questo modo una umanità più recente compenetrò il mondo materiale, che prima era stato considerato come illusorio, lo compenetrò con lo spirito che andava sempre più emergendo anche nell’interiorità dell’uomo.

Abbiamo veduto che solo verso la fine dell’epoca atlantica gli uomini furono in grado di sentire l’io, o l’« io-sono ». Infatti, fintanto che gli uomini percepivano le immagini spirituali, si rendevano pure conto di appartenere essi stessi al mondo spirituale, di essere immagini fra le immagini.

Ed ora facciamo seguire a questa ricapitolazione lo studio dello sviluppo dell’interiorità umana stessa.

 

Finché l’uomo atlantico rimase in grado di guardar fuori di sé in una specie di coscienza sognante, chiaroveggente,

egli non prestò molta attenzione al proprio intimo.

In quelle condizioni il mondo interiore che si riassume nell’io non aveva ancora per lui dei confini ben definiti;

nella stessa misura in cui andò svanendo la percezione del mondo spirituale,

l’uomo divenne cosciente della propria spiritualità.

 

Nella civiltà paleo-indiana dominava ancora un singolare atteggiamento nei confronti della spiritualità individuale. Ci si diceva: se vogliamo penetrare nel mondo spirituale, sollevandoci al disopra dell’illusione, dobbiamo smarrire noi stessi nel mondo spirituale, spegnere il più possibile l’io-sono, dissolvendoci nello spirito universale, nel Brahman.

 

Perciò nella più antica forma d’iniziazione si trattava soprattutto di perdere l’elemento personale,

d’immergersi impersonalmente nel mondo spirituale.

Ma già nel terzo periodo postatlantico le cose non stavano più così,

poiché nel frattempo l’autocoscienza dell’uomo era andata sviluppandosi sempre più fortemente.

Nella sua interiorità, l’uomo era divenuto sempre più consapevole del proprio io.

 

Nell’affezionarsi sempre più alla materia circostante, approfondendosi in essa mediante le leggi concepite dallo spirito umano stesso, e non tratte da qualche stato crepuscolare di sogno, si andò diventando sempre meglio coscienti del proprio io; finché, presso gli antichi egizi, questa coscienza individuale raggiunse un certo culmine.

 

Tuttavia questa coscienza personale conteneva, per l’uomo di quel tempo, un elemento che la faceva apparire come qualcosa d’inferiore, qualcosa di legato al mondo esterno e che in questo si esauriva, incapace di stabilire un nesso con la sfera dalla quale pure tutti provengono.

 

Dobbiamo delineare due atteggiamenti fondamentali dell’anima,

nel corso dell’evoluzione umana, per poter comprendere tutto il fluire degli eventi.

 

• Da un lato, dobbiamo ricordare

come gli uomini dell’età atlantica e del periodo paleo-indiano anelassero a liberarsi dell’individualità.

Ciò era possibile agli antichi atlanti, in quanto era per essi ovvio il fatto che ogni notte si liberavano dall’individualità per immergersi nella regione degli spiriti. Ed era possibile agli antichi indiani, perché i principi della loro iniziazione li conducevano, per mezzo dello yoga, appunto nella sfera dell’impersonale.

Ciò a cui si tendeva era di adagiarsi entro un elemento divino universale.

 

Questo adagiarsi in un elemento universale si era conservato, nelle ultime propaggini dell’umanità antica, nella coscienza della propria affinità con le generazioni passate, nella coscienza della stretta, intima connessione che legava il singolo, attraverso il sangue, con la serie delle generazioni, su fino al capostipite.

 

Questa consapevolezza era andata formandosi dall’atteggiamento dell’anima che si sentiva spiritualmente accolta entro la sfera divino-spirituale. Si giunse così al punto che gli uomini normalmente evoluti cominciarono bensì, durante il terzo periodo di civiltà, a sentirsi come individui singoli, ma allo stesso tempo sapevano d’essere parte d’un gran tutto divino-spirituale, sapevano di essere collegati attraverso la consanguineità con tutta la serie degli avi e che un Dio viveva per loro nel sangue fluente per le generazioni.

 

• Abbiamo poi già veduto come nel popolo dell’Antico Testamento questa consapevolezza abbia raggiunto una certa perfezione: « Io e il padre Abramo siamo uno ». Il singolo si sentiva cioè inserito in tutto il connesso che risaliva fino al capostipite, al padre Abramo. Questo era a un dipresso lo stato d’animo fondamentale di tutte le stirpi normalmente evolute di quel terzo periodo di civiltà.

 

Ma solo ai seguaci dell’Antico Testamento era stato profeticamente annunciato che esisteva qualcosa di spirituale ancora più profondo di quel divino principio paterno, fluente nel sangue attraverso le generazioni. Abbiamo già indicato quale fosse il grande momento dell’evoluzione dell’umanità, in cui quell’annuncio profetico fu dato: quando Mosè udì le parole: « Quando annuncerai il mio nome, tu dirai: Me lo ha detto l'”Io-sono” », allora per la prima volta risuonò l’annuncio e la rivelazione del Logos, del Cristo.

 

Allora per la prima volta venne annunciato profeticamente, a coloro che erano capaci di comprendere,

che nella divinità non viveva solo ciò che si esplica nel nesso di consanguineità, ma anche un quid puramente spirituale.