Relazione fra la forma corporea fisica e la coscienza dell’io

O.O. 131 – Da Gesù a Cristo – 09.10.1911


 

Se consideriamo anzitutto l’uomo quale ci si presenta nella vita fisica,

• sappiamo che lo sguardo occulto lo vede come una quadruplice unità, però in corso di evoluzione, costituita di corpo fisico, corpo eterico, corpo astrale e io.

• Sappiamo pure che per comprendere l’evoluzione umana occorre conoscere la verità occulta, e cioè che l’io, di cui si diventa coscienti nei sentimenti e nelle sensazioni se ci si astrae semplicemente dal mondo esteriore e si cerca di vivere in noi stessi, per lo sguardo occulto passa da incarnazione a incarnazione.

 

• Sappiamo però anche che in certo modo l’io è avvolto (sebbene « avvolto » non sia un termine giusto, per ora possiamo servircene) dalle altre tre parti costitutive della natura umana: corpo astrale, corpo eterico e corpo fisico.

• Del corpo astrale sappiamo che in un certo senso è un compagno dell’io attraverso le diverse incarnazioni.

 

Sebbene durante il kamaloka gran parte del corpo astrale venga eliminata, nondimeno il corpo astrale ci rimane attraverso le incarnazioni come una specie di corpo di forze che riunisce quel tanto di progresso morale, intellettuale ed estetico che abbiamo accumulato in un’incarnazione.

Quello che è vero progresso viene riunito per mezzo della forza del corpo astrale e trasportato da un’incarnazione nell’altra, per così dire connesso con l’io che, quale base eterna in noi, passa da incarnazione a incarnazione.

 

• Sappiamo inoltre che una gran parte del corpo eterico viene abbandonata immediatamente dopo la morte, ma che nondimeno ce ne rimane un estratto che portiamo con noi da un’incarnazione all’altra.

Succede che, nei primi giorni immediatamente dopo la morte, noi abbiamo una specie di visione retrospettiva: ci appare come in un grande quadro la nostra passata vita e di quella visione retrospettiva prendiamo con noi la sintesi, l’estratto, quale risultato eterico.

Il rimanente del corpo eterico ritorna al mondo eterico universale in una forma o nell’altra, a seconda dell’evoluzione della persona in questione.

 

Se indirizziamo lo sguardo alla quarta parte costitutiva dell’entità umana, al corpo fisico, sembra a tutta prima che esso semplicemente sparisca nel mondo fisico. Del resto si potrebbe dire che questo può venir dimostrato anche esteriormente nel mondo fisico perché, per lo sguardo esteriore il corpo fisico viene condotto in un modo o nell’altro alla dissoluzione.

Il problema, e chiunque si occupi di scienza dello spirito dovrebbe porselo, è ora il seguente: tutto ciò che la conoscenza esteriore fisica ci può dire della sorte del nostro corpo fisico non è forse tutto maya? In sostanza la risposta non è tanto lontana per chi abbia incominciato a comprendere la scienza dello spirito.

 

Quando si sia cominciato a comprendere la scienza dello spirito, si riconosce che è maya, illusione esteriore, tutto ciò che ci presenta l’apparenza sensibile.

Come ci si può aspettare che sia realmente vero, nonostante quest’apparenza, che il corpo fisico, abbandonato alla tomba o al fuoco, sparisca senza lasciar traccia di sé?

Forse dietro alla maya esteriore che appunto si palesa all’apparenza sensibile, si nasconde qualcosa di molto più profondo.

Ma procediamo oltre.

 

Pensiamo che,  per comprendere l’evoluzione della Terra, dobbiamo conoscere le passate incarnazioni del nostro pianeta; dobbiamo studiare le incarnazioni di Saturno, del Sole e della Luna.

Dobbiamo dire che come ogni singolo uomo, anche la Terra ha attraversato le sue incarnazioni, e che il nostro corpo fisico è stato preparato nell’evoluzione umana fin dallo stato saturnio della Terra.

 

Mentre di corpo eterico, corpo astrale e io umani, nel senso odierno, non si può affatto parlare al tempo di Saturno, il germe per il corpo fisico viene invece già posto durante l’evoluzione di Saturno, viene in certo qual modo incorporato nell’evoluzione.

Durante lo stato solare della Terra quel germe viene trasformato, e in tale sua forma trasformata viene incorporato il corpo eterico.

Durante lo stato lunare della Terra il corpo fisico viene nuovamente trasformato, e a lato del corpo eterico, che si presenta pure con forma modificata, gli viene incorporato il corpo astrale. Durante lo stato terrestre gli vien poi incorporato l’io.

 

Se l’apparenza sensibile fosse giusta, dovremmo ora dire: ciò che ci venne incorporato durante lo stato saturnio, e che è diventato il nostro corpo fisico, viene semplicemente disciolto o bruciato negli elementi esteriori, dopo che attraverso milioni e milioni di anni, durante gli stati di Saturno, del Sole e della Luna, importantissimi sforzi sovrumani, cioè di entità divino-spirituali, furono fatti per produrre appunto il corpo fisico!

Ci si presenterebbe il fatto strano che, attraverso quattro o anche tre gradini planetari (Saturno, Sole e Luna), una intera schiera di spiriti lavori alla produzione di un elemento cosmico, quale il nostro corpo fisico, affinché esso, durante lo stato terrestre, sia destinato a sparire ogni volta che un uomo muore. Sarebbe uno strano spettacolo se avesse ragione la maya, e l’osservazione esteriore non conosce che questa.

Ora chiediamoci: la maya può forse aver ragione?

 

A tutta prima sembra indubbiamente che in questo caso la conoscenza occulta dia ragione alla maya perché, strano a dirsi, l’osservazione occulta sembra concordare in questo caso con la maya. Se ricordiamo quel che ci viene descritto dalla conoscenza spirituale sull’evoluzione dell’uomo dopo la morte vedremo che effettivamente in tale descrizione non viene quasi tenuto conto del corpo fisico.

È detto che il corpo fisico vien deposto, abbandonato agli elementi della terra.

 

Poi si parla del corpo eterico, del corpo astrale e dell’io, e non viene ulteriormente considerato il corpo fìsico; sembra quasi che per il silenzio della conoscenza spirituale si dia ragione alla conoscenza della maya. Così sembra, e in certo modo è giusto che la scienza dello spirito parli così, per la semplice ragione che il resto deve essere lasciato alle considerazioni più profonde della cristologia perché, nei riguardi del corpo fìsico, non possiamo affatto parlare giustamente di quello che trascende la maya, se l’impulso del Cristo, e tutto ciò che vi si riconnette, non viene prima sufficientemente spiegato.

Se osserviamo anzitutto il corpo fisico quale esso si presenta alla coscienza umana in momenti decisivi, ci risulta qualcosa di molto singolare.

 

Osserviamo ora la coscienza di tre popoli diversi, tre forme di coscienza umana, e vediamo quale coscienza essi abbiano avuto appunto in epoche decisive dell’evoluzione dell’umanità, riguardo a tutto ciò che è connesso col nostro corpo fisico.

Cominciamo con i greci.

 

Sappiamo che i greci sono quel popolo importante che; svolse il periodo giusto della sua evoluzione nel quarto periodo di civiltà postatlantica. Sappiamo che il quarto periodo di civiltà postatlantica inizia per noi a un dipresso col settimo, ottavo e nono secolo prima della nostra èra, e termina nel tredicesimo, quattordicesimo e quindicesimo secolo della nostra èra, cioè dopo l’evento di Palestina. Si può senz’altro avvalorare con facilità quel che è stato appena detto riguardo a questo periodo con le comunicazioni, le tradizioni e i documenti esteriori.

Vediamo che le prime notizie appena un po’ chiare sulla Grecia risalgono soltanto al sesto e settimo secolo prima della nostra èra, mentre ci pervengono notizie leggendarie da tempi anche più remoti. Sappiamo però anche che quel che forma la grandezza del periodo storico greco proviene ancora da tempi antecedenti, quando appunto si svolgeva anche in Grecia il terzo periodo di civiltà postatlantica.

 

Così le ispirazioni di Omero risalgono ai tempi che precedettero il quarto periodo postatlantico; ed Eschilo, che visse in tempi così remoti tanto che molte delle sue opere sono andate completamente perdute, ci ricorda i drammi dei misteri di cui egli ci offre solo una eco.

Così il terzo periodo postatlantico estende la sua influenza nel periodo greco, ma il quarto periodo di civiltà postatlantica si esprime completamente nella Grecia. Dobbiamo quindi dire che la mirabile civiltà greca è la più pura espressione del quarto periodo postatlantico.

 

Un detto mirabile ci risuona dalla Grecia, parole che ci permettono di guardare profondamente nell’anima degli uomini che sentivano completamente nel senso greco. Ci risuonano le parole dell’eroe: « Meglio essere un mendicante sulla terra, che un re nel regno delle ombre! ».

Sono parole che rivelano sentimenti profondissimi dell’anima greca. Si potrebbe dire: tutta la bellezza classica e la grandezza classica per il perfezionamento dell’ideale umano nel mondo esteriore che ci sono rimaste dal periodo greco, risuonano in certo modo da quelle parole. Ci fanno riflettere, ricordando i tempi greci, sul mirabile sviluppo del corpo umano nella ginnastica greca, nei grandi giuochi della Grecia, nei giuochi che attualmente, come in caricatura, vengono imitati soltanto da chi non intende affatto che cosa fu veramente la Grecia.

 

Bisogna tener conto che ogni tempo deve avere i propri ideali se si vuol comprendere come quell’educazione del corpo fìsico esteriore, quale si presenta nella sua forma sul piano fìsico, fosse uno speciale privilegio dello spirito greco; e come inoltre l’espressione dell’ideale artistico plastico dell’uomo, l’importanza data alla figura umana esteriore nella scultura, dovesse essere a sua volta un privilegio della Grecia.

 

Se inoltre osserviamo lo sviluppo della coscienza umana, come si manifesta per esempio in un Pericle, con la quale l’uomo tendeva a ciò che è universalmente umano, rimanendo d’altra parte solidamente piantato con i piedi sul terreno e sentendosi signore e re nell’àmbito della sua città, se lasciamo agire su di noi tutto questo, dobbiamo dire che il vero amore era diretto alla forma umana quale si presentava sul piano fisico, e che anche l’estetica era rivolta al perfezionamento di quella forma.

 

Dove era talmente amato e compreso quel che dell’uomo risiede sul piano fisico, ci si poteva abbandonare anche al pensiero: quando ciò che dà all’uomo questa bella forma sul piano fisico viene tolto alla natura umana, il residuo che rimane non può venir apprezzato quanto ciò che ci viene tolto dalla morte! Questo grande amore della forma esteriore conduceva necessariamente a considerare con occhio pessimistico quel che rimane dell’uomo dopo aver varcato la porta della morte.

 

Possiamo quindi comprendere bene l’anima greca se il medesimo occhio, che guardava con tanto amore la forma esteriore, si sentiva triste al pensiero che tale forma venisse tolta all’individualità umana e che essa proseguisse la sua vita senza quella forma. Prendiamo quindi quello che così ci è risultato, per ora solo dal lato del sentimento, e diciamo che in Grecia gli uomini amavano e apprezzavano soprattutto la forma esteriore del corpo fisico e sentivano tutta la tristezza del suo tramonto nella morte.

 

Consideriamo ora un’altra coscienza che si è sviluppata press’a poco contemporaneamente.

Consideriamo la coscienza del Buddha che poi è passata dal Buddha nei suoi seguaci. All’incirca abbiamo il contrario della Grecia. Basta ricordare l’essenza delle quattro grandi verità del Buddha: in esse ci vien detto che l’individualità umana viene portata dalle passioni in questa esistenza in cui si trova avvolta nella forma fìsica esteriore. In quale esistenza? In un’esistenza della quale l’insegnamento del Buddha dice: la nascita è dolore, la malattia è dolore, la vecchiaia è dolore, la morte è dolore.

 

L’essenza del buddismo tende quindi a dire che, per mezzo di tutto quanto ci avvolge in un involucro esteriore corporeo, la nostra individualità, che con la nascita discende da altezze divine spirituali e a quelle risale nuovamente quando l’uomo varca la porta della morte, viene consegnata al dolore dell’esistenza, alla sofferenza dell’esistenza; per diventare liberi dall’esistenza esteriore e gettare l’involucro esteriore, in sostanza non vi può essere che un solo rimedio per gli uomini, quello espresso nelle quattro grandi sante verità del Buddha: trasformare l’individualità al punto che essa si trovi presto in condizioni di poter gettare via l’involucro esteriore.

 

Qui dunque opera il sentimento opposto a quello sentito dai greci. Quanto fortemente il greco amava e apprezzava l’involucro esteriore corporeo e sentiva con tristezza il suo abbandono, altrettanto poco il seguace del Buddha apprezzava l’involucro corporeo e lo considerava come qualcosa di cui bisogna spogliarsi al più presto. Da questo risultava che venisse osteggiata la tendenza all’esistenza, avvolta in un involucro corporeo.

 

Vediamo ora di penetrare più profondamente appunto in queste idee del Buddha. In esse ci si presenta quella che esiste nel buddismo come una specie di concezione teorica delle successive incarnazioni dell’uomo. Non si tratta di quel che una singola persona pensa della teoria del Buddha, ma piuttosto di ciò che è penetrato nella coscienza del buddista.

 

Già spesso l’ho caratterizzato dicendo che la migliore occasione per sentire che cosa deve provare un buddista circa le successive incarnazioni dell’uomo, è quella di approfondire il discorso tramandatoci fra il re Milinda e un saggio buddista.

Al re Milinda, arrivato in carrozza, viene insegnato dal saggio buddista Nagasena di riflettere se la carrozza abbia qualcosa in più, oltre le ruote, il timone, la cassa, il sedile e così via.

• « Se sei venuto nella tua carrozza, o gran Re » dice il saggio Nagasena « rifletti che tutto quanto hai dinanzi a te nella carrozza non sono altro che le ruote, il timone, la cassa, il sedile eccetera; niente vi è oltre ad una parola che comprende le ruote, il timone, la cassa, il sedile e così via. Non puoi cioè parlare di una speciale individualità della carrozza, ma devi renderti conto che carrozza è una parola vuota, se pensi a qualcosa di diverso dalle sue parti ».

 

Nagasena il saggio sceglie anche un altro paragone per il re Milinda: « Osserva la mandorla che cresce sull’albero e rifletti che da un altro frutto era stato preso il seme che era stato posto nella terra a imputridire; che da esso è cresciuto l’albero e quindi il frutto, la nuova mandorla. Puoi tu dire che il frutto sull’albero abbia qualcosa di comune, oltre il nome e la forma esteriore, con il frutto che era stato preso come seme e posto nella terra a imputridire? ».

 

Nagasena intende dire che l’uomo ha altrettanto in comune con l’uomo delle sue precedenti incarnazioni quanto la mandorla sull’albero con l’altra mandorla che era stata posta quale seme nella terra.

Chi credesse che quello che ci si presenta come uomo e che viene portato via con soffio dalla morte sia qualcosa d’altro che nome e forma, penserebbe il falso, quanto chi nella carrozza, nel nome carrozza credesse contenuto qualcosa di diverso dalle parti della carrozza: ruote, timone, e così via. Dalla precedente incarnazione non passa nella nuova quel qualcosa che l’uomo chiama il suo io.

 

Questo è importante e va ripetuto sempre di nuovo: non si tratta di interpretare in un modo o nell’altro questa o quella parola del Buddha, ma di osservare come il buddismo abbia agito nella coscienza del popolo e che cosa esso ha dato alle anime. E quel che ha dato alle anime viene espresso in modo straordinariamente chiaro e significativo nel paragone che il saggio buddista fa al re Milinda.

Di quello che noi chiamiamo io e di cui diciamo che viene anzitutto sentito e percepito dall’uomo quando riflette sulla propria interiorità, il buddista dice: in conclusione è qualcosa che scorre e che appartiene alla maya come tutto il resto, qualcosa che non passa da un’incarnazione nell’altra.

 

Già una volta ho detto che un saggio cristiano, per far un parallelo col saggio buddista, avrebbe parlato diversamente al re Milinda.

Il saggio buddista diceva al Re: • « Osserva la carrozza con le ruote, il timone e così via; sono parti della carrozza, e oltre ad esse la carrozza non è che nome e forma; nella carrozza, con il nome di carrozza, non ti vien dato niente di reale; se vuoi arrivare al reale devi nominare le parti ».

 

Nel medesimo caso il saggio cristiano avrebbe parlato nel modo seguente:

• « O saggio re Milinda, tu sei venuto adesso in carrozza. Osservala: vi puoi scorgere solamente le ruote, il timone, la cassa e così via. Ma ti chiedo ora se puoi essere condotto qui dalle sole ruote, se puoi essere condotto qui solo dal timone, se puoi essere condotto qui solo dal sedile. Tu non puoi dunque esser condotto qui su nessuna delle singole parti della carrozza. In quanto sono parti, esse formano la carrozza, ma sulle parti non puoi venir condotto qui. Se l’insieme delle parti forma la carrozza, occorre però qualcosa oltre ad esse; per la carrozza occorre cioè il ben determinato pensiero che lega fra loro ruote, timone, cassa e così via. Il pensiero della carrozza è qualcosa di assolutamente necessario; non lo puoi vedere, ma lo devi pur riconoscere ».

 

Il saggio sarebbe poi passato all’uomo e avrebbe detto:

• « Del singolo uomo puoi vedere soltanto il corpo esteriore, le azioni esteriori e le esperienze animiche esteriori; in lui vedi altrettanto poco il suo io, quanto vedi il nome carrozza nelle sue singole parti. Ma come vi è qualcosa del tutto diverso nelle parti, e cioè quel che ha potuto condurti qui, così pure nell’uomo, in tutte le sue parti, vi è qualcosa del tutto diverso che forma appunto l’io. L’io è qualcosa di reale, di soprasensibile, che passa da incarnazione a incarnazione ».

 

Come dobbiamo raffigurarci a un dipresso lo schema della dottrina buddistica della reincarnazione, conformemente alla sua pura teoria?

Con il cerchio vogliamo indicare la comparsa di un uomo fra nascita e morte. Poi l’uomo muore. Il momento della sua morte viene indicato con la linea AB. Che cosa rimane di tutto ciò che è racchiuso nell’esistenza attuale fra nascita e morte?

 

 

Rimane una somma di cause, i risultati delle azioni, tutto ciò che l’uomo ha fatto di buono o di cattivo, di bello o di brutto, di abile o di stolto. Quel che rimane continua ulteriormente la sua azione come causa, e forma un nucleo di cause C per l’incarnazione successiva.

 

                                                                                                      A

Attorno a questo nucleo di cause si organizzano nella successiva incarnazione D dei nuovi involucri corporei; questi sperimentano nuovi fatti e nuove esperienze conformemente al passato nucleo di cause. Di queste esperienze rimane per la successiva incarnazione nuovamente un nucleo di cause E che può includere quel che in essa deriva dalla precedente incarnazione, e poi quello che vi si aggiunge di completamente indipendente durante questa incarnazione, in modo da formare a sua volta il nucleo di cause per l’incarnazione successiva e così di seguito.

 

In altre parole, ciò che passa attraverso le incarnazioni si esaurisce in cause ed effetti che, senza che un io comune tenga insieme le incarnazioni, estendono la loro azione da una incarnazione nell’altra. Se dunque in questa incarnazione mi denomino io, non è perché il medesimo io già esistesse nell’incarnazione precedente; della incarnazione precedente vi sono infatti solo i risultati karmici; quello che chiamo il mio io è soltanto una maya dell’attuale incarnazione.

Chi conosce veramente il buddismo lo deve rappresentare in questo modo, e deve rendersi conto che quello che noi chiamiamo io non trova affatto posto nel buddismo.

 

Esaminiamo ora quello che sappiamo dalla concezione antroposofica.

Da che cosa l’uomo è in condizione di formare il suo io?

A seguito dell’evoluzione terrestre.

Soltanto nel corso dell’evoluzione terrestre l’uomo è arrivato a formare il suo io.

Al corpo fisico, al corpo eterico e al corpo astrale si è aggiunto sulla terra l’io.

 

Orbene, se ci ricordiamo di quanto è stato detto sulle fasi di evoluzione dell’uomo durante i periodi di Saturno, Sole e Luna, sappiamo che durante l’evoluzione lunare il corpo fisico umano non aveva una forma determinata, e che soltanto sulla Terra egli acquisì tale forma. Di conseguenza parliamo anche dell’esistenza terrestre come dell’epoca in cui gli spiriti della forma, per la prima volta, intervennero e trasformarono il corpo fisico dell’uomo in modo che ora esso ha la sua forma.

 

Tale formazione del corpo umano fisico era però necessaria perché l’io potesse affermarsi nell’uomo, perché il corpo fisico terreno si contrapponesse formato alla terra fìsica e offrisse una base per la nascita dell’io che noi conosciamo. Se riflettiamo a questo non ci riuscirà difficile comprendere anche il seguito.

A proposito della valutazione data all’io presso i greci, abbiamo detto che esso trova la sua espressione esteriore nella forma esteriore umana.

 

Passiamo ora al buddismo e ricordiamoci che il buddismo, con la sua conoscenza, vuol respingere e superare al più presto possibile la forma esteriore del corpo fisico umano. Vi è quindi ancora da meravigliarsi se nel buddismo non è affatto apprezzato quel che lega alla forma del corpo umano?

Quanto poco nell’intima essenza del buddismo viene apprezzata la forma esteriore del corpo fisico, altrettanto poco viene apprezzata la forma esteriore che occorre all’io per arrivare all’esistenza, viene anzi completamente respinta.

Il buddismo ha dunque perduto la forma dell’io come conseguenza della valutazione data alla forma del corpo fisico.

 

Vediamo così queste due correnti spirituali contrapporsi polarmente:

la corrente greca della quale sentiamo che vantava soprattutto la forma esteriore del corpo fisico qual forma esteriore dell’io,

• e il buddismo, il quale richiede che la forma esteriore del corpo fisico, con qualsiasi aspirazione all’esistenza, venga superata al più presto possibile, e eh nella sua teoria ha perciò perduto completamente l’io.

 

• Fra queste due opposte concezioni del mondo vi è quell’antica ebraica.

Essa è ben lontana dal dare così poco valore all’io come il buddismo. Basta ricordarsi che nel buddismo è eresia riconoscere la continuità di un io da una incarnazione all’altra. Ma l’antichità ebraica si attiene molto a questa eresia. A nessun seguace dell’antichità ebraica sarebbe venuto in mente di credere che la scintilla divina vivente nell’uomo a cui collegava il suo concetto dell’io, potesse andar perduta quando l’uomo varca la soglia della morte.

 

Se ci vogliamo rendere conto dell’atteggiamento dell’ebreo antico a questo riguardo, dobbiamo dire che egli si sente interiormente unito alla Divinità, intimamente unito; che in certo qual modo egli sa di essere legato con i migliori fili della sua vita animica all’essere della Divinità. L’antico ebreo ha dunque un concetto dell’io del tutto diverso da quello del buddista, ma d’altra parte anche molto diverso da quello del greco.

Se si esamina l’intera antichità si trova che la valutazione della persona e quindi anche la valutazione della forma umana esteriore, proprie dei greci, non esistono nell’antichità ebraica.

 

Al greco sarebbe sembrata una vera assurdità il dire: « Non ti fare nessuna scultura, né immagine del tuo Dio ». Egli non avrebbe compreso se qualcuno gli avesse detto di non farsi un’immagine del suo Zeus o del suo Apollo. Egli aveva infatti il sentimento che la forma esteriore fosse la cosa più nobile, e che il massimo onore che l’uomo potesse tributare agli Dei fosse quello di rivestirli della forma umana, da lui tanto apprezzata; nulla gli sarebbe sembrato più assurdo del comandamento: « Non ti fare nessuna scultura, né immagine di Dio ».

L’artista greco diede la propria forma umana anche ai suoi dèi. Per diventare poi veramente quel che pensava di essere, cioè un’immagine della Divinità, egli si dava alla lotta, alla ginnastica e così via.

 

L’antichità ebraica aveva però il comandamento: « Non ti fare nessuna scultura, né immagine di Dio » perché l’antico ebreo non apprezzava la forma esteriore come i greci, perché l’avrebbe considerata indegna dell’essere della Divinità. Per quanto dunque l’antico ebreo fosse lontano dal buddista, il quale avrebbe preferito abbandonare completamente la forma esteriore nel passaggio della morte, altrettanto egli era lontano dal greco.

L’antico ebreo riteneva che tale forma esprimesse appunto i comandamenti, le leggi dell’Entità divina, e si rendeva conto che colui che era veramente un uomo « giusto » trasmetteva alle successive generazioni, attraverso la discendenza, quanto aveva raccolto di giusto. Non l’estinzione della forma, ma la trasmissione della forma attraverso la discendenza era presente all’antico ebreo.

 

La concezione dell’appartenente all’antico popolo ebreo si trovava come terza, nel centro, fra la concezione del buddista, che aveva perduto il valore dell’io, e quella del greco che vedeva nella forma corporea quanto vi è di più elevato, e che sentiva tristezza nella sparizione della forma corporea con la morte.

Così si contrapponevano le tre concezioni.

 

Per comprendere meglio l’antichità ebraica dobbiamo renderci conto che per l’antico ebreo ciò che egli apprezzava coma io, in un certo senso era al contempo l’io divino.

• Iddio continuava a vivere nell’umanità, viveva dentro l’uomo.

• Nell’unione con Dio l’antico ebreo sentiva al contempo il proprio io.

• L’io che egli sentiva coincideva così con l’io divino.

• L’io divino lo portava; l’io divino era però anche attivo in lui.

 

• Se il greco diceva di dare un valore così grande al suo io da considerare con orrore quello che sarebbe diventato dopo la morte, se il buddista diceva che la causa della forma esteriore umana doveva staccarsi il più presto possibile dall’uomo,

il seguace dell’antichità ebraica diceva:

• « Io sono unito a Dio, questo è il mio destino, e finché sono unito con lui io porto il mio destino.

• Io non conosco nient’altro che l’identificazione del mio io con l’io divino ».

• In questo modo di pensare dell’antico ebraismo, in mezzo fra pensiero greco e buddismo, non vi è, a priori, come in Grecia, la disposizione alla tragicità di fronte al fenomeno della morte, sebbene tale tragicità vi si trovi in modo indiretto.

 

Se è conforme al sentimento greco quel che dice l’eroe: « Meglio essere mendicante sulla terra (cioè con la forma corporea umana) che re nel regno delle ombre », l’antico ebreo non avrebbe potuto dire altrettanto perché sapeva che, se nella morte la sua forma corporea si distaccava, egli rimaneva tuttavia unito con Dio; non poteva abbandonarsi a un atteggiamento tragico solo per il fatto della morte.

Nondimeno, sebbene indirettamente, la tendenza alla tragicità esisteva nell’antichità ebraica ed è espressa nel racconto drammatico più mirabile che mai sia stato scritto nell’antichità, nel racconto di Giobbe.

 

In esso vediamo come l’io di Giobbe si senta attaccato al suo Dio, e si trovi in conflitto con il suo Dio, ma in modo diverso da quello dell’io greco. Ci viene raccontato come una disgrazia dopo l’altra piombi su Giobbe, sebbene egli sia cosciente di essere un uomo giusto e di aver fatto tutto quel che poteva per conservare il nesso del suo io con l’io divino. Mentre poi sembrava che la sua esistenza fosse benedetta e dovesse esserlo, il destino tragico piomba su di lui.

 

Egli è cosciente di non aver commesso alcun peccato; è cosciente di aver fatto quello che un uomo giusto deve fare nei riguardi del suo Dio. Gli viene annunziato che le sue sostanze e i suoi averi sono rovinati e che è stata uccisa tutta la sua famiglia; allora anche lui stesso, il suo corpo esteriore, la forma divina, viene afflitta dalla malattia e dalle calamità. Egli giace malato con la coscienza: • « Quel che in me è in relazione con il mio Dio si è sforzato di essere giusto nei Suoi riguardi; il destino che mi è stato imposto da Dio è ciò che mi ha messo nel mondo. Pure le azioni di Dio mi hanno colpito così severamente! ».

 

Al suo fianco ha la moglie che lo incita con parole strane e rinnegare il suo Dio.

Le parole sono tramandate correttamente e corrispondono completamente a quelle che ci riferisce la cronaca dell’akasha: • « Rinnega il tuo Dio poiché devi soffrire tanto e perché egli ti ha portato queste sofferenze, e muori! ».

 

Quale profondità infinita vi è in queste parole! Perdi la coscienza del tuo nesso col tuo Dio; allora esci dal nesso divino, ti stacchi come una foglia dall’albero, e il tuo Dio non ti può più castigare! La perdita del nesso con Dio è però al contempo la morte, perché fino a quando l’io si sente legato con Dio, la morte non può raggiungerlo. Deve prima strapparsi dal suo nesso con Dio, e allora soltanto può arrivare la morte.

 

L’apparenza esteriore parla in modo che in sostanza tutto sembra contro Giobbe il giusto; sua moglie vede le sue sofferenze e gli consiglia di rinnegare Iddio e morire; i suoi amici vengono e dicono che egli deve aver commesso dei peccati, perché Iddio non castiga i giusti. Egli è però cosciente che, per quanto riguarda la sua coscienza personale, non ha commesso nessuna azione men che giusta. Di fronte a quello che gli si presenta nel mondo esteriore Giobbe si trova davanti a una tremenda tragedia, la tragedia di non poter comprendere tutta l’entità umana, quella di sentirsi legato con Dio, e di non capire come possa fluire da Dio quello che egli sperimenta.

 

Pensiamo ora al peso che preme con immensa forza sopra un’anima umana, e pensiamo che da quell’anima prorompono le parole tramandateci nel racconto di Giobbe: • « Io so che vive il mio Redentore, so che di nuovo sarò rivestito delle mie ossa, della mia pelle, so che vedrò il mio Dio con il quale sono unito! ». Questa coscienza dell’indistruttibilità dell’individualità umana prorompe, malgrado sofferenze e dolori, prorompe dall’anima di Giobbe, tanto forte era penetrata la coscienza dell’io nell’interiorità dell’antica religione ebraica.

 

Ci si presenta proprio qualcosa di molto strano. « Io so che vive il mio Redentore » dice Giobbe: « Io so che di nuovo sarò rivestito della mia pelle e che vedrò con i miei occhi lo splendore del mio Dio! ». Giobbe ricollega all’idea del Redentore il corpo esteriore, la pelle, le ossa e gli occhi che vedono fisicamente.

È strano che ad un tratto, nell’antica coscienza ebraica che sta in mezzo fra la Grecia e il buddismo, si affacci la coscienza del significato della forma corporea fisica in relazione con l’idea del Redentore, diventata poi terreno e base per l’idea del Cristo.

 

Se osserviamo la risposta della moglie di Giobbe si chiariscono meglio tutte le parole di Giobbe: « Rinnega il tuo Dio e muori ». Vale a dire: chi non rinnega il suo Dio, non muore. Ecco il significato di quelle parole.

Ma che significa « morire »?

 

Morire significa abbandonare il corpo fisico.

La maya esteriore sembra dire che il corpo fisico passa negli elementi della terra e per così dire vi sparisce. Nella risposta della moglie di Giobbe vi è dunque il concetto: « Fai quello che occorre affinché il tuo corpo fisico sparisca ». Né potrebbe significare altro, se no le successive parole di Giobbe non avrebbero senso.

 

Potremo comprendere questa cosa soltanto se comprendiamo ciò per mezzo di cui Dio ci ha posti nel mondo, vale a dire l’importanza del corpo fisico. Giobbe stesso dice, perché questo appunto è nelle sue parole: so perfettamente che non occorre che io compia quel che fa sparire completamente il mio corpo fisico, ciò che è solo apparenza esteriore.

 

Vi è una possibilità che esso possa venir salvato, per il fatto che il mio Redentore vive, e posso esprimerla soltanto con le parole: • «In avvenire avrò di nuovo ricomposte la mia pelle e le mie ossa e con i miei occhi vedrò lo splendore del mio Dio; potrò ricevere l’ordinamento del mio corpo fisico ma per questo occorre che io abbia la coscienza che il mio Redentore vive ».

 

Nel racconto di Giobbe, si potrebbe dire, ci si presenta per la prima volta una relazione fra la forma corporea fisica (che il buddista vorrebbe abbandonare e che il greco vede distaccarsi provandone tristezza) e la coscienza dell’io. Ci si presenta per la prima volta l’aspettativa di una salvezza della forma fisica corporea, quale venne elaborata dalle gerarchie spirituali sull’antico Saturno attraverso Sole e Luna, fin sulla Terra; se tale forma deve essere conservata, se di essa si deve dire che quello che ci è dato nelle ossa, nella pelle, negli organi sensori, ha un risultato, si rende necessario aggiungere: « Io so che il mio Redentore vive ».

 

Qualcuno potrebbe chiedersi, dopo quello che ora è stato detto, se non sia strano che in qualche luogo del racconto di Giobbe risulti che il Cristo risveglia i morti, salva la forma del corpo che i Greci credevano sparisse. Vi si trova forse che, per l’evoluzione complessiva dell’umanità, non è vera, nel pieno senso della parola, la sparizione totale della forma corporea esteriore? Sarà essa in qualche modo intessuta nell’intero processo di evoluzione dell’umanità?

Ha tutto questo una funzione nell’avvenire, e dipende dall’entità del Cristo?

 

La domanda è posta, e occorre quindi ampliare quello che abbiamo finora udito dalla scienza dello spirito.

• Abbiamo udito che, quando varchiamo la porta della morte, conserviamo per lo meno il corpo eterico,

• mentre deponiamo completamente il corpo fisico, lo vediamo abbandonato agli elementi esterni.

Ma la sua forma, che venne elaborata per milioni e milioni di anni, va perduta nella sua essenza o viene conservata in qualche modo?

 

Questa domanda va considerata come il risultato delle nostre osservazioni odierne; domani esamineremo il problema in quale relazione si trovi l’impulso del Cristo, per l’evoluzione dell’umanità, col significato del corpo fisico esteriore, tenuto conto che esso, durante l’intera evoluzione terrestre, è stato abbandonato alla tomba, al fuoco o all’aria, e che la conservazione della sua forma è necessaria per l’avvenire dell’umanità