Uguaglianza, libertà e fraternità. Gli involucri del cristianesimo e il suo io vivente

O.O. 187 – Come ritrovare il Cristo – 25.12.1918


 

Domenica scorsa accennai qui a un rinnovamento dell’idea del Natale; in tale contesto feci osservare che quando l’essere umano entra nell’esistenza compresa fra la nascita e la morte, lo fa per così dire in condizioni di uguaglianza. Naturalmente mi riferivo al vero uomo interiore proveniente dal mondo spirituale che si congiunge con ciò che gli offre la corrente ereditaria. Dissi che un’osservazione accurata consente appunto di rilevare nel bambino l’esistenza di tale condizione: il bambino piccolo non conosce ancora le differenziazioni che si manifestano nella struttura sociale per effetto del karma individuale.

 

Ricordai anche che un’osservazione obiettiva

mostra che le forze insite in certe doti o facoltà, e perfino il genio,

sono in gran parte da attribuirsi a fattori che agiscono nella linea dell’ereditarietà,

fattori che vanno riconosciuti come di natura luciferica.

• Nel nostro tempo poi, per inserire correttamente nella struttura sociale quelle doti

l’uomo deve considerarle come impulsi luciferici,

e deve essere educato a liberarsi da quell’elemento luciferico, trasformandolo,

sacrificando per così dire sull’altare del Cristo ciò che la natura gli ha trasmesso.

 

Distinguiamo dunque due diversi punti di vista.

• Il primo riguarda il modo di affrontare le differenze che si manifestano nell’umanità,

per effetto del sangue, della nascita.

• L’altro mette in evidenza che, all’inizio della vita terrena,

il vero e proprio nucleo dell’essere umano porta in sé la condizione dell’eguaglianza.

Con tale distinzione si sottolinea che per considerare giustamente l’uomo

bisogna considerarlo nell’intero corso della sua vita,

tenendo d’occhio l’evoluzione temporale che ha luogo fra la nascita e la morte.

 

Proprio qui a Dornach, ma in un diverso connesso, ebbi anche modo di accennare come nel corso della vita si modifichino certi fattori dello sviluppo umano, e in modo ancora diverso lo si troverà descritto nell’articolo da me recentemente pubblicato sulla rivista Das Reich, accennando al modo in cui l’elemento arimanico e quello luciferico operano nella vita dell’uomo. Scrissi allora che l’elemento luciferico svolge un certo suo ruolo nella prima metà della vita, quello arimanico invece nella seconda metà: i due tipi di impulsi agiscono cioè durante tutta la vita, ma in modo diverso.

Oltre all’idea dell’eguaglianza, dissi domenica, nei tempi moderni si sono fatte avanti tumultuosamente altre idee, precorrendo in certo modo, appunto sul piano delle idee, lo sviluppo graduale che dovrebbe riuscire benefico, e non dannoso, all’umanità. All’idea di eguaglianza si sono affiancate altre idee, che si possono esse pure comprendere e apprezzare giustamente solo inserendole in modo corretto nel decorso temporale della vita umana fisica.

A fianco dell’idea di eguaglianza, nel mondo moderno si annuncia l’idea della libertà.

Di questa idea ho parlato qui poco tempo fa, in occasione della nuova edizione della mia Filosofia della libertà. Siamo dunque in grado di valutare tutta l’importanza e la portata dell’idea di libertà, in rapporto con l’intimo nucleo dell’essere umano. Forse però molti sanno che spesso, in seguito a domande rivoltemi, ho dovuto mettere in evidenza il carattere del tutto particolare che nel mio libro ha la concezione della libertà.

 

Ho sempre dovuto mettere in particolare rilievo un certo punto di vista,

e cioè che nei tempi moderni

le diverse concezioni filosofiche sulla libertà hanno commesso l’errore

(se così vogliamo chiamarlo) di porre la questione nel modo seguente:

l’uomo è libero o no? si può attribuire all’uomo il libero arbitrio,

o bisogna invece ritenere che egli si trovi inserito in una rigorosa necessità naturale,

la quale determina anche le sue azioni, le sue decisioni?

Tale impostazione del problema è errata: quella alternativa non esiste.

Non si può dire che l’uomo è libero o non libero,

bensì che sta sviluppandosi dalla non-libertà alla libertà.

 

Nella mia Filosofia della libertà l’impulso alla libertà viene concepito in modo da mostrare come l’uomo diventi sempre più libero, sciogliendosi gradualmente dalla necessità e facendo crescere sempre più in sé gli impulsi che gli rendono possibile di diventare un essere libero entro il complessivo ordinamento del mondo.

 

Testo alternativo generato dal computer: hlefà della v;/à

 

Ecco allora che l’impulso all’eguaglianza ha la propria culminazione alla nascita (anche se non nella coscienza, che in quella fase non è ancora adeguatamente sviluppata); in seguito esso va declinando.

L’impulso all’eguaglianza segue dunque uno sviluppo discendente. Lo si può disegnare schematicamente.

Alla nascita esiste per così dire un massimo di eguaglianza; poi l’eguaglianza segue una curva discendente.

L’inverso si verifica con l’idea della libertà:la libertà si muove in una curva ascendente

e raggiunge il suo culmine con la morte.

 

Con questo non intendo dire che passando per la soglia della morte l’uomo raggiunga il più alto vertice di un essere che agisca in libertà. Solo relativamente, con riferimento alla vita fisica umana, l’uomo sviluppa sempre più l’impulso alla libertà, avvicinandosi al momento della morte, e in questo momento, in cui entra nel mondo spirituale, egli ha acquistato al massimo grado la possibilità di essere un’entità libera.

 

Mentre l’uomo, entrando con la nascita nell’esistenza terrena, porta con sé dal mondo spirituale l’eguaglianza

(la quale poi, durante il corso della vita fisica, va sempre diminuendo),

proprio nel corso della vita fisica egli va sviluppando l’impulso alla libertà,

varcando poi la soglia della morte verso il mondo spirituale, dotato dell’impulso alla libertà

nella massima misura che gli sia possibile conseguire nel corso della vita fisica.

 

Da queste considerazioni risulta ancora una volta quanto spesso l’essere umano venga considerato in modo unilaterale.

Si parla dell’uomo genericamente, in astratto, perché oggi non si gradisce molto affrontare la realtà.

Ma l’uomo non è un essere immoto, bensì in divenire,

ed egli assolve il suo vero compito qui nella vita fisica tanto meglio, quanto più si mette in condizioni di « divenire ».

Le persone che rimangono rigide che hanno poca inclinazione a compiere uno sviluppo,

realizzano solo in piccola parte quella che sarebbe la loro vera missione sulla Terra.

 

Noi oggi non siamo più quelli che eravamo ieri, e domani non saremo più quelli che siamo oggi,

anche se si tratta di piccole sfumature.

Ben vengano almeno le sfumature, perché lo stare fermi è arimanico;

quelle sfumature di differenza dovrebbero proprio esservi!

Nella vita dell’uomo non dovrebbe passare giorno

senza che egli accolga un pensiero che modifichi un poco la sua natura,

che gli consenta di essere in divenire e non soltanto di esistere!

 

Un’osservazione aderente alla vera natura dell’uomo mostra dunque che non si dovrebbe affermare in modo generale, assoluto, che l’uomo può tendere alla libertà o all’eguaglianza; si dovrebbe invece tener conto che l’impulso all’eguaglianza raggiunge il suo culmine all’inizio della vita, mentre quello alla libertà lo trova al termine della vita stessa.

Solo tenendo conto di tali condizioni, e non giudicando astrattamente dell’essere umano complessivo, solo così si percepisce tutta la complessità del divenire umano nel corso della vita. Non si può dunque affermare genericamente che l’uomo ha diritto a trovare nella struttura sociale la libertà, l’uguaglianza e così via. Sono cose che grazie alla scienza dello spirito l’anima umana dovrebbe riscoprire, cose che sono state trascurate dallo sviluppo culturale moderno, tanto imbevuto di astrazioni e quindi tendente al materialismo.

 

Ed ora, il terzo di quegli impulsi: la fraternità.

In un certo senso questa raggiunge il suo apice verso la metà della vita umana.

Si vede come la sua curva vada prima salendo, poi discendendo (cfr. il disegno precedente). Certo, la cosa si può esprimere soltanto così: l’uomo ha la massima predisposizione a sviluppare la fraternità verso il mezzo della vita, quando il rapporto fra l’animico e il corporeo è più labile, cioè più oscillante. Non che l’uomo sviluppi sempre la fraternità, ma in quel periodo della vita ne esistono i presupposti più forti.

Ecco dunque che quei tre impulsi si distribuiscono lungo tutto l’arco della vita umana. Nel tempo al quale andiamo incontro sarà necessario tenerne conto, ai fini della comprensione dell’essere umano e naturalmente anche per la cosiddetta autoconoscenza.

 

Non si giungerà a idee giuste sulla convivenza tra gli uomini, ignorando il modo in cui quegli impulsi si distribuiscono nel corso della vita umana. In certo modo non si potrà vivere giustamente se non si vorrà accogliere tale conoscenza. Si ignorerà infatti il vero rapporto in cui si trova un giovane con un vecchio, o un anziano nei confronti di una persona di mezza età, se non si vorrà tener conto della particolare distribuzione di questi impulsi interiori dell’essere umano.

Vogliamo ora confrontare queste considerazioni con quelle da me svolte qui all’inizio dell’anno corrente, che trattavano di un certo graduale « ringiovanimento » dell’intero genere umano .

 

Avevo allora mostrato che in tempi antichi (sempre però nell’epoca postatlantica)

l’uomo sperimentava fino a un’età avanzata la dipendenza del suo sviluppo animico dalla sfera corporea,

dipendenza che oggi si manifesta solo negli anni della sua prima giovinezza.

Dissi allora che durante la civiltà paleoindiana l’uomo, fino ad oltre i cinquant’anni,

dipendeva dalla propria natura fisica (o cosiddetta fisica) nella misura in cui oggi ne dipende solo nei suoi primi anni.

In questi primi anni l’uomo ora dipende effettivamente in alto grado dal proprio sviluppo fisico:

sappiamo quale importante svolta segni nello sviluppo fisico il periodo della seconda dentizione, e più tardi la pubertà.

 

Nei primi anni della vita constatiamo dunque un’evidente correlazione fra lo sviluppo animico e quello corporeo.

Nelle età successive questo poi scompare. Invece nelle civiltà più antiche dell’epoca postatlantica le cose erano diverse.

 

La possibilità di conseguire una saggezza naturale, dovuta semplicemente al fatto di essere uomini,

la possibilità di raggiungere quella saggezza che era tanto venerata

presso gli Indiani più antichi, presso i Persiani più antichi,

era dovuta a che allora dopo il ventesimo anno l’uomo non diventava come adesso, un essere compiuto e finito,

non più dipendente dalla sua organizzazione fisica.

 

Oggi, all’uomo adulto l’organizzazione fisica non dà più nulla: nei tempi antichi non era così.

Allora l’organizzazione fisica stessa riforniva di saggezza le anime fin oltre i cinquant’anni di età.

Anche nella seconda metà della vita si aveva la possibilità di ricavare, senza alcun particolare sviluppo occulto,

dallo sviluppo corporeo, in modo elementare, un certo grado di saggezza e di maturità della volontà.

 

Era una cosa molto importante, nei tempi dell’antica India o della Persia più antica, e perfino ancora nel periodo egizio-caldaico, che a un giovinetto o ad una fanciulla si potesse dire: quando diventerai vecchio, per questo solo fatto ti verrà largito qualcosa che arricchirà la tua vita, qualcosa che è dovuto semplicemente al tuo sviluppo durante la vita e fino alla morte.

Alla vecchiaia si guardava con reverenza, perché si sapeva che con la vecchiaia veniva ad operare nella vita qualcosa che da giovani non si poteva ancora sapere né volere. Questo conferiva a tutta la vita sociale una certa struttura che venne a cessare solo nel periodo greco-latino, quando quella facoltà regredì fin verso la metà della vita umana.

 

Nella civiltà paleoindiana l’uomo era capace di sviluppo fin dopo la cinquantina;

in seguito, l’età del genere umano andò per così dire ringiovanendo,

vale a dire che quella facoltà di sviluppo regredì fino agli ultimi anni della quarantina nel periodo persiano,

e rimase operante solo fino ai trentacinquequarantadue anni  nel periodo egizio-caldaico.

Durante il periodo greco-latino l’uomo rimase suscettibile di sviluppo

solo fino al ventottesimo-trentacinquesimo anno di età.

 

Nel tempo in cui si compì il mistero del Golgota l’uomo era appunto capace di svilupparsi solo fino all’età di trentatre anni. Questo è uno dei prodigi che si scoprono nella storia dell’evoluzione dell’umanità: che l’età del Cristo Gesù morente sul Golgota coincideva con quella alla quale era ormai regredita la facoltà di sviluppo degli uomini.

 

Ho ricordato altra volta anche che l’umanità diventa per così dire sempre più giovane,

cioè rimane capace di svilupparsi fino a un’età sempre inferiore.

Oggi questo limite è sceso a ventisette anni,

ed è molto significativo che qualcuno possa entrare nella vita pubblica a ventisette anni,

disponendo quindi solamente di quanto può avere accolto dal mondo esterno prima di quel momento.

 

In questo senso la personalità di Lloyd George è rappresentativa del nostro tempo, in quanto aveva iniziato la sua carriera di uomo politico proprio all’età di ventisette anni. È un fatto dal quale derivano molte conseguenze, e lo possiamo trovare registrato nella biografia di Lloyd George. Sono però proprio queste considerazioni a permettere di conoscere intimamente le condizioni esistenti nel mondo.

Qual è ora il risultato più importante dell’accostamento tra questo fenomeno del continuo « ringiovanire » dell’umanità, e le considerazioni che abbiamo svolte proprio in questi giorni sull’idea del Natale?

 

Si è detto che nella fase attuale dell’evoluzione, dopo il mistero del Golgota,

vige la caratteristica che, raggiunta l’età di circa trent’anni,

gli uomini non possono più conseguire nulla grazie alle forze naturali del loro organismo.

Se non fosse sopravvenuto il mistero del Golgota,

si avrebbe in certo senso l’impressione di vivere veramente solo fino all’età di trentadue o trentatre anni.

Fino a quel punto l’organismo ci dà la possibilità di vivere; dopo si potrebbe anche morire!

Infatti non possiamo più ricavare nulla per il nostro sviluppo animico

grazie al decorso naturale dell’esistenza, agli eventi naturali elementari.

 

Questo dovremmo dirci, se non fosse avvenuto il mistero del Golgota. In quel caso la Terra sarebbe piena dei lamenti della gente sull’inutilità della vita dopo il trentatreesimo anno di età! Fino a quel punto è possibile che l’organismo ci dia ancora qualcosa. Da quel punto in avanti potremmo anche essere morti; è quasi come se ci muovessimo sulla faccia della Terra come dei cadaveri viventi. Questo sarebbe il sentimento di molti, se non si fosse compiuto il mistero del Golgota.

 

Ma il mistero del Golgota deve anche venir messo a frutto.

Non basta accoglierlo inconsciamente, come si fa per lo più, ma bisogna invece accoglierlo coscientemente.

Se lo si accoglierà con coscienza,

esso consentirà agli uomini di rimanere giovanilmente freschi fino a un’età avanzata;

si può conservare salute e freschezza, se lo si accoglie coscientemente nel giusto modo.

 

Di questa azione benefica del mistero del Golgota per la nostra vita

si potrà anche acquistare coscienza, e questo è importante.

Il mistero del Golgota può dunque venir considerato

come qualcosa di molto attivo entro il corso della nostra vita terrena.

 

Ho detto poco fa che gli uomini hanno la massima disposizione alla fraternità verso il mezzo della loro vita terrena, intorno al trentatreesimo anno; sennonché essi non sviluppano sempre la fraternità.

 

Adesso ho accennato alla ragione di questo fatto:

quelli che non la sviluppano, o nei quali la fraternità è insufficiente, sono scarsamente permeati dall’impulso del Cristo.

Siccome verso la metà della vita oggi l’uomo in un certo senso muore, per quanto concerne le forze naturali,

egli non è in grado di sviluppare adeguatamente l’istinto della fraternità, e soprattutto l’impulso alla libertà,

a meno che non desti in se stesso dei pensieri derivati direttamente dall’impulso dato dal Cristo.

 

Questo impulso è quindi lo stimolatore diretto alla fraternità;

se ad esso ci si rivolge si è permeati dell’impulso del Cristo nella misura in cui si sente la necessità della fraternità.

Quanto all’impulso alla libertà, l’uomo non potrebbe da solo giungere a svilupparne tutta la forza,

durante la parte restante della sua vita terrena (in avvenire le condizioni saranno diverse).

Subentra però nel nostro sviluppo umano sulla Terra

ciò che si è effuso dalla morte del Cristo Gesù e che si è congiunto con l’evoluzione terrestre dell’umanità.

Perciò Cristo è anche essenzialmente la guida dell’umanità attuale verso la libertà.

 

Noi diventiamo liberi in Cristo se comprendiamo il suo impulso in modo da penetrare a fondo nel fatto che il Cristo

non ha potuto vivere nel corpo fisico più a lungo del trentatreesimo anno.

Ipotizzando che egli fosse vissuto più a lungo, egli avrebbe raggiunto in un corpo umano l’età in cui,

nell’attuale periodo evolutivo della Terra, il corpo è destinato a perire.

In quel caso Egli, proprio in quanto Cristo, avrebbe accolto quelle forze di morte.

 

Se avesse raggiunto i quaranta anni, egli avrebbe fatto nel corpo l’esperienza delle forze di morte,

ma egli non poteva voler fare quell’esperienza, bensì soltanto quella delle forze capaci di mantenere giovane l’uomo,

cioè fino al trentatreesimo anno.

Fino a quel punto, fin verso il mezzo della vita umana egli agisce stimolando la fraternità;

affida poi quello che deve essere alla portata della forza umana allo spirito,

allo Spirito Santo che egli fa fluire entro l’evoluzione dell’umanità.

 

Grazie allo Spirito Santo, allo Spirito risanatore,

l’uomo si sviluppa verso la libertà nella seconda metà della sua vita.

Ecco il modo in cui l’impulso del Cristo si inserisce concretamente nella vita dell’uomo.

È questa intima compenetrazione dell’uomo col principio-Cristo

il nuovo pensiero natalizio che dovrebbe essere accolto dalla conoscenza umana.

 

Bisogna sapere che l’uomo proviene dal mondo spirituale, dotato di eguaglianza:

essa gli è data al momento della sua nascita, ed è in certo modo proveniente da Dio-Padre.

In seguito poi possono penetrare nel giusto modo entro l’evoluzione dell’umanità

la fraternità, con l’aiuto del Figlio, e l’impulso verso la libertà grazie al Cristo congiunto con lo Spirito.

 

D’ora in avanti deve penetrare nella coscienza delle anime questa collaborazione dell’impulso-Cristo al concreto sviluppo dell’umanità. Soltanto quella presa di coscienza riuscirà veramente salutare, quando le esigenze umane di organizzare in modo veramente adeguato la struttura sociale si faranno sempre più urgenti. Nella società vivono però bambini, giovani, adulti e vecchi, e non si potrà trovare una struttura sociale che comprenda tutti, se non si conosceranno a fondo le caratteristiche di quei diversi gruppi.

È un essere umano il bambino, lo è il giovane ventenne, lo è l’uomo di quarant’anni, lo è il vecchio: tutti sono uomini. Ma una caotica confusione non porta certo a una conoscenza dell’essere umano, qual è necessaria per venire incontro alle esigenze dell’avvenire, anzi anche del presente.

 

Una confusione caotica può al massimo portare all’opinione che, poiché si tratta pur sempre di uomini, un pressappoco ventenne deve essere eletto deputato al Parlamento! Questa condizione è deleteria per la vera struttura della società, perché la gente oggi non accetta di adottare né una giusta osservazione dell’essere umano, né la coscienza che ne scaturisce, la quale prende l’uomo come esso è in concreto.

Infatti l’astrazione « uomo » non esiste affatto; esistono invece persone concrete, di una determinata età, dotate di impulsi diversi. Occorre acquistare una vera conoscenza dell’uomo, tenendo però conto dello sviluppo che il nucleo dell’essere umano compie dalla nascita alla morte. Questo dovrà verificarsi; ma probabilmente si sarà inclini ad accogliere queste cose nella coscienza dell’umanità, solo se si sarà imparato a fare certe osservazioni retrospettive sull’evoluzione umana.

 

Nella conferenza precedente ho mostrato certi aspetti delle origini del cristianesimo, facendo rilevare come esso sia in certo qual modo nato dall’anima ebraica, dallo spirito greco e dal corpo romano. Questi sono diventati per così dire gli involucri del cristianesimo.

Nel cristianesimo però si trova il suo io vivente, e anche questo può venire considerato per conto suo, quando si guarda indietro alla nascita del cristianesimo. Per la storiografia ufficiale l’origine del cristianesimo è diventata qualcosa di piuttosto confuso. Ciò che oggi si scrive sui primi secoli cristiani (tanto da parte cattolica, quanto da parte protestante) è piuttosto caotico.

 

Molte cose avvenute nei primi secoli del cristianesimo proprio per i teologi moderni o sono andate del tutto dimenticate nella loro essenza, o sono diventate una specie di spauracchio. Si provi soltanto a leggere le contorsioni intellettuali, quasi una epilessia intellettuale, in cui cadono certi autori quando cercano di descrivere la gnosi che fiorì nei primi secoli cristiani. È una specie di diavolo, è qualcosa di demoniaco che a nessun prezzo bisogna lasciar entrare nella vita umana! E quando un teologo di questo tipo (o comunque un rappresentante ufficiale di questa o quella confessione) può accusare l’antroposofia di avere qualcosa in comune con la gnosi, è convinto di avere mosso l’accusa più atroce.

Alla base di tutto questo sta il fatto che nei primi secoli cristiani la gnosi influì sulla vita spirituale europea in modo assai più significativo di quanto oggi si creda. Da un lato si ignora del tutto ciò che la gnosi era in verità, e dall’altro se ne ha una misteriosa paura. Per la maggior parte degli attuali rappresentanti ufficiali delle diverse confessioni religiose la gnosi è qualcosa di orribile.

 

Si può però prenderla in considerazione semplicemente come un dato di fatto, senza alcuna simpatia o antipatia particolare; in questo caso bisognerà studiarla dal punto di vista della scienza dello spirito, dato che la storiografia ci offre ben poco in proposito. Lo sviluppo ecclesiastico dell’occidente ha provveduto a che tutti i monumenti storici della gnosi fossero quasi completamente distrutti. Sono giunti fino a noi solo pochi testi (come ad esempio la Pìstìs sophià) che della gnosi ci presentano solo un’immagine molto confusa.

Oltre a quelli, disponiamo solo di alcune affermazioni gnostiche, riportate nei testi dei Padri della Chiesa che li confutano. Dunque in sostanza la gnosi è conosciuta oggi solo dagli scritti dei suoi avversari; mentre è stato quasi del tutto estirpato ciò che avrebbe potuto trasmetterne una conoscenza storica.

 

Uno studio più ragionevole dello sviluppo teologico dell’occidente, studio che però non esiste, dovrebbe indurre la gente a riflettere più a fondo. Se per esempio si considerasse ragionevolmente lo sviluppo della dogmatica cristiana, si finirebbe per scoprire che essa non può certo aver avuto le sue radici solo in opinioni o decisioni arbitrarie. In fondo, tutti i dogmi hanno radice nella gnosi, solo che la parte viva della gnosi è stata eliminata, mentre sono rimasti solo i pensieri astratti e i gusci concettuali: per ciò non si riesce più a scorgere nella gnosi quella origine vivente che pur vi si trova in effetti.

Seguendo veramente la gnosi, studiandola per quanto possibile secondo la scienza dello spirito, cade una certa luce anche sui pochi testi che sono sopravvissuti alla distruzione operata dagli avversari della gnosi. Si può allora scoprire che la gnosi si richiama alla diffusissima concezione dei tempi più antichi, fondata sulla ben precisa chiaroveggenza atavica, i cui resti erano ancora abbastanza vivi nel primo periodo postatlantico, e un po’ meno nel secondo.

 

Nel terzo periodo postatlantico gli ultimi resti dell’antica chiaroveggenza furono poi elaborati in tutto il mondo, per riemergere più tardi nella gnosi, in un mirabile sistema di concetti che però era straordinariamente immaginoso. Chi considera la gnosi da questo punto di vista, essendo però in condizione di poter risalire anche solo storicamente ai pochi testi residui (e sono più abbondanti quelli della gnosi pagana di quelli della letteratura cristiana), scoprirà dei veri tesori di saggezza, di una saggezza che si riferiva a un mondo del quale gli uomini d’oggi non vogliono sapere niente.

 

Non è quindi da stupirsi se anche certi studiosi seri, come ad esempio il professor Jeremias di Lipsia, che avrebbe certo la volontà di andare a fondo a questi problemi, non riesce ad orientarsi veramente nella gnosi. È perché non riesce in alcun modo a farsi un’idea di che cosa significassero quegli antichi concetti, e a che cosa si riferissero: così per esempio quando in certi scritti gnostici si trova menzionato un essere spirituale di nome Jaldabaoth, che si sarebbe orgogliosamente proclamato signore del mondo e sarebbe poi stato severamente rimproverato da sua madre, e così via. Da quegli scritti conservati fino ai nostri giorni si sprigionano appunto immagini possenti, come questa di Jaldabaoth che proclama: io sono Dio padre e nessuno è superiore a me! E la madre gli replica: non mentire! Sopra di te sta il Padre di tutto, sta il primo uomo e il figlio dell’uomo. E il racconto continua così: allora Jaldabaoth chiamò i suoi sei collaboratori, e questi dissero: « Facciamo l’uomo a nostra immagine! ».

 

Ecco dunque uno strano dialogo fra Jaldabaoth e sua madre, seguito dalla chiamata di quei sei collaboratori che decidono di « far l’uomo a loro immagine ». Questo genere di immagini, anzi di immaginazioni, sono molto frequenti nei testi gnostici.

Nell’Antico Testamento abbiamo solo qualche residuo di un’abbondante saggezza immaginativa gnostica, conservata nella tradizione giudaica. Si tratta di una corrente fiorita soprattutto in oriente, ma che si irradiò anche in occidente, dove si estinse più o meno verso il terzo, quarto secolo, salvo qualche sua eco tardiva presso i Valdesi e i Càtari.

 

Gli uomini d’oggi hanno ben scarse idee sui pensieri e i sentimenti delle anime nei primi secoli cristiani, in cui non vivevano certo solo le rappresentazioni che vivono oggi nei cattolici, ma anche un’eco di quel poderoso mondo d’immagini della gnosi.

Vi è un’enorme differenza fra quello che si scorge, guardando indietro a quanto viveva nelle anime dei primi secoli, nei paesi civili d’Europa, e quello che su quei secoli scrissero, teologi e storici in genere. Negli scritti di questi autori vien meno del tutto ciò che viveva in quelle possenti immagini che si riferivano a un mondo del quale gli uomini d’oggi non hanno idea alcuna.

Sulla base della cultura odierna non si sa proprio quale valore attribuire a quel genere di concetti, come un Jaldabaoth, con sua madre e i suoi sei collaboratori. Sono parole, gusci verbali, dei quali l’uomo d’oggi non sa proprio a che cosa si riferiscano. Ancora meno si sa in che modo gli uomini di un tempo passato siano arrivati a formarsi tali rappresentazioni. Perciò se ne conclude che quegli antichi uomini d’oriente devono avere avuto una gran fantasia, per inventare tutte quelle figure!

 

C’è solo da rimanere stupiti che quegli eruditi non si rendano conto di quanto sia invece scarsa la fantasia dell’uomo che vive in condizioni elementari, per esempio quella dei contadini. In questo ambito bisogna riconoscere che gli studiosi dei miti antichi hanno compiuto davvero imprese eccezionali! Essi infatti hanno escogitato che la gente semplice abbia nell’antichità trasformato ad esempio le nuvole vaganti nel cielo, spinte dai venti, in ogni sorta di esseri fantastici; e così pure molti altri fenomeni. Ma quei dotti non hanno alcuna idea di come fosse conformata l’anima degli uomini ai quali attribuiscono tanta fantasia: in realtà erano quanto mai lontani dall’elaborare tante immagini poetiche. La fantasia regna solo nelle cerchie dei mitologi, degli eruditi che escogitano tali teorie. Questa sì è fantasia!

Le cose che queste persone hanno escogitato per spiegare l’origine dei miti sono semplicemente errori. Gli uomini d’oggi ignorano a che cosa in realtà si riferissero le parole, i concetti usati negli antichi scritti, nei miti. Perciò non si è neppure più in grado di tener conto giustamente di alcune chiare allusioni che pure si trovano.

 

Platone ad esempio ha fatto osservare con precisione che l’uomo che vive qui nel corpo fisico può ricordarsi di qualcosa che ha sperimentato nel mondo spirituale, prima della nascita. Ma i filosofi d’oggi non sanno che farsene di questo sapere-ricordo platonico: anche questa di Platone sarebbe una di quelle tali fantasie… Platone invece sapeva ancora che l’anima greca aveva la disposizione a sviluppare qualcosa che era stato sperimentato prima della nascita nel mondo spirituale, ma sapeva trattarsi ormai solo degli ultimi resti di quella disposizione.

Chi percepisce solo nel corpo fisico, fra nascita e morte, elaborando poi le percezioni con l’intelletto attuale, non può attribuire alcun senso a osservazioni fatte non nel corpo fisico tra nascita e morte, bensì prima di nascere, fra la morte e una nuova nascita. In queste condizioni gli uomini si trovavano in un mondo dove si poteva parlare di Jaldabaoth, e del suo orgoglio, di come sua madre lo avesse ammonito, e di come egli avesse chiamato i sei collaboratori. Fra la morte e una nuova nascita queste cose sono altrettanto vere per l’uomo, quanto per chi si trovi qui nel corpo fisico lo sono le piante, gli animali, i minerali e gli altri uomini. E la gnosi racchiudeva appunto ciò che si portava con sé nascendo nel mondo fisico.

 

Fino a un certo grado, e fino a tutto il periodo egizio-caldaico (cioè fino all’ottavo secolo prima di Cristo) agli uomini era possibile recare con sé molte cose dalla sfera in cui erano vissuti fra la morte e una nuova nascita. La gnosi consiste appunto di questi contenuti portati con sé ed elaborati in concetti, in idee. Tutto questo continuò poi a sussistere nel periodo greco-latino, quando però non poteva più essere percepito direttamente; ne esisteva ancora un’eredità in certe idee di cui solo alcuni spiriti eletti conoscevano l’origine, come Platone, e in misura minore anche Aristotele. La conosceva anche Socrate che in realtà pagò questo sapere con la morte. È qui che bisogna ricercare l’origine della gnosi.

 

Ma come stavano veramente le cose nel quarto periodo postatlantico, nel periodo greco-latino?

In quel tempo il ricordo delle esperienze prenatali era ormai molto limitato

e tuttavia, soprattutto nella civiltà greca,

si portavano con sé alcune tracce delle esperienze fatte prima della nascita.

Oggi si è in genere straordinariamente fieri della forza del pensiero moderno,

e tuttavia con questo pensiero moltissime cose non si possono comprendere affatto.

 

In realtà l’odierna forza del pensiero non è cosa di cui si possa essere troppo fieri,

poiché sono ben poche le cose che con essa si possono comprendere.

Di natura diversa era invece la forza di pensiero sviluppata dai Greci.

Allora andavano certo già perdute le immagini delle esperienze precedenti la nascita;

persisteva però quel tipo di forza del pensiero

che prima della nascita serviva a dare un senso ragionevole a quelle immagini.

 

È proprio una caratteristica del pensiero greco

quella di essere di qualità del tutto diversa dal nostro cosiddetto pensiero normale.

Il pensiero greco era quello che si era appreso elaborando le immaginazioni avute prima della nascita.

Il ricordo di tali immaginazioni era andato quasi del tutto perduto, ma rimaneva l’essenziale, cioè l’acutezza di pensiero

che prima di nascere si doveva usare per orientarsi nel mondo che suscitava quelle immaginazioni.

 

Ora, quella particolare forza di pensiero doveva andare sempre diminuendo,

proprio nel corso di quel quarto periodo postatlantico che, come è noto, durerà fino al quindicesimo secolo dopo Cristo.

Adesso poi, nel quinto periodo, ci tocca ricostruirla, partendo dalla civiltà attuale:

dobbiamo svilupparla a poco a poco, gradualmente, partendo dalla concezione scientifico-naturalistica del mondo.

Noi oggi ci troviamo all’inizio di questo processo.

 

Durante il quarto periodo post-atlantico

(che si estende dal 747 a.C. al 1413 d.C., comprendendo il tempo del mistero del Golgota)

si è verificata una continua diminuzione della forza del pensiero;

dalla fine di quel periodo la forza di pensiero ricomincia lentamente a crescere,

e nel terzo millennio avrà raggiunto un livello discreto.

 

Dell’acutezza della forza di pensiero attuale l’umanità non ha dunque ragione di essere troppo fiera.

Quando era ancora relativamente sviluppata l’eredità della forza di pensiero antica,

essa disponeva ancora di pensieri atti a ordinare e a penetrare le immagini gnostiche.

Non si percepivano più le immagini con la nitidezza con cui le avevano percepite gli Egizi o i Babilonesi,

ma si disponeva ancora della forza di pensiero occorrente.

Questa però andò sempre diminuendo.

 

Ecco dunque una caratteristica singolare dei primi secoli cristiani.

A un certo momento si compie il mistero del Golgota e nasce il cristianesimo.

La forza di pensiero in via di diminuzione (che in oriente è ancora assai viva, e sfiora anche la Grecia)

cerca di comprendere questo evento. I Romani lo comprendono scarsamente.

Quella forza di pensiero cerca in un certo senso di comprendere il mistero del Golgota

dal punto di vista del pensare qual è prima della nascita, dal punto di vista del pensiero nel mondo spirituale.

Ora però si verifica qualcosa di singolare: anche il pensiero gnostico si trova di fronte al mistero del Golgota.

 

Proviamo ad osservare le dottrine gnostiche relative al mistero del Golgota, le dottrine che appaiono tanto ripugnanti al teologo cristiano moderno: vi troviamo espresse sul Cristo molte cose grandi e possenti che sono derivate dagli antichi insegnamenti imbevuti della chiaroveggenza atavica, ovvero da dottrine compenetrate da quella forza del pensiero di cui si è detto: vi troviamo molte cose grandiose che oggi appaiono orribilmente eretiche.

In seguito, la forza del pensiero gnostico diminuisce; la ritroviamo ancora in Manes , nel terzo secolo, e più tardi riaffiora presso i Càtari (tutta gente estremamente eretica per i cattolici), ed è una concezione veramente grandiosa del mistero del Golgota.

Stranamente, queste concezioni vanno dissolvendosi nei primi secoli cristiani, e per lo più ci si contenta di applicare al mistero del Golgota e alla sua comprensione un minimo di forza di pensiero.

 

Si trovano così di fronte,

• da un lato la dottrina gnostica che vuol comprendere il mistero del Golgota con un possente pensare spirituale,

• e dall’altro tutto il resto, che fa i conti con ciò che sta sopravvenendo,

cioè con la scomparsa della forza del pensiero, col pensare confuso, il più astratto possibile,

un pensare che offre ben poco per comprendere il mistero del Golgota.

 

In quanto mistero cosmico, si può dire che il mistero del Golgota

si riduce ai pochi periodi che formano l’inizio del vangelo di Giovanni:

il Logos, la sua venuta nel mondo e il suo destino in questo mondo.

Il minor numero possibile di concetti, poiché ormai

si doveva far i conti con la forza del pensiero che andava perdendosi.

 

Vediamo così spegnersi la concezione gnostica del cristianesimo, mentre ne emerge un’altra che vorrebbe far valere il minor numero possibile di concetti. Naturalmente si tratta di un processo di transizione graduale. Concetti quali il dogma della Trinità, o altri dogmi, derivano da concezioni gnostiche, ma sono diventati astratti, trasformati in gusci concettuali.

Il fatto vivo è però che una geniale concezione gnostica del mistero del Golgota lotta con un’altra concezione che lavora col minimo di concetti. Quest’ultima conta sulla condizione in cui gli uomini si troveranno fino al quindicesimo secolo, conta sul fatto che l’antica acuta forza ereditata del pensiero andrà sempre più affievolendosi, e dovrà più tardi venire riconquistata in modo elementare dalla scienza, mediante l’osservazione degli oggetti della natura.

Quel processo si può studiare di tappa in tappa, anche nella lotta interiore vissuta da Agostino, che in gioventù era venuto in contatto col manicheismo gnostico, ma non riuscì per così dire a digerirlo, e si rivolse alla cosiddetta semplicità, accontentandosi di concetti relativamente rozzi. I concetti si vanno facendo sempre più rozzi.

 

In Agostino si annuncia però già il primo raggio di ciò che dovrà in seguito venire riconquistato:

la conoscenza che prende le mosse dall’uomo, dal singolo individuo umano.

Negli antichi tempi gnostici si cercava di partire dal mondo per giungere all’uomo.

Ora invece bisognerà prendere le mosse dall’uomo

e riconquistare una conoscenza del mondo attraverso la conoscenza dell’uomo.

In avvenire si dovrà procedere dall’uomo al cosmo; nei tempi antichi si era andati dal cosmo verso l’uomo.

 

Ne ho parlato qui, tempo fa, cercando di mettere in evidenza quel primo raggio di luce nell’essere umano: se ne trova la traccia nelle Confessioni di Agostino, dove però tutto si presenta ancora in modo caotico.

 

La cosa principale è riconoscere che l’umanità si mostrò

sempre meno capace di accogliere ciò che si irradia dai mondi spirituali,

ciò che nella remota antichità era presente come saggezza immaginativa,

operante nella gnosi, dalla quale sopravvisse poi una certa forza acuta del pensiero, presente ancora presso i Greci.

Anche se già irrigidita in concetti astratti, nella saggezza greca

si esplicano ancora idee capaci di comprendere qualcosa del mondo spirituale.

Più tardi invece tutto questo finisce, e con le idee che vanno spegnendosi

non si riesce più a comprendere nulla del mondo spirituale.

 

Un aspetto singolare del pensiero greco è che l’uomo moderno ricava facilmente l’impressione che le idee greche si potrebbero in fondo applicare a qualcosa di diverso da ciò a cui vengono di fatto applicate, è che i Greci avevano ancora le idee, ma non avevano più le immaginazioni. La cosa salta agli occhi in modo particolarmente evidente nel caso di Aristotele.

È proprio strano: come si sa, su Aristotele furono scritte intere biblioteche. Ogni sua affermazione viene interpretata nei modi più contrastanti; si disputa perfino se egli abbia ammesso o no la preesistenza dell’anima umana, o le vite ripetute.

 

Questo dipende dal fatto che le sue parole possono essere interpretate in modi diversi,

perché Aristotele lavorava con un sistema di concetti

applicabile a un mondo soprasensibile, pur avendone perduta la percezione.

Platone ne possedeva ancora una comprensione molto maggiore,

e potè quindi elaborare in tal senso il suo sistema di concetti.

Aristotele invece è già impigliato in concetti astratti,

e per tale ragione non è più in grado di percepire ciò a cui si riferiscono le forme di pensiero da lui usate.

 

Il fatto singolare è che nei primi secoli è impegnata nella lotta una concezione del mistero del Golgota che lo illumina con la luce del mondo soprasensibile: d’altra parte va sorgendo la necessità di opporsi a quella concezione, e tale necessità si trasforma poi in fanatismo. In quei tempi non tutti si rendevano conto di questa situazione, alcuni però sì, e questi ultimi non la affrontarono con onestà. Fu una concezione rozza del mistero del Golgota a portare al fanatismo, una concezione che si proponeva strenuamente di usare solo pochi concetti.

Vediamo così come dalla concezione cristiana del mondo venga sempre più eliminato il pensare soprasensibile che va spegnendosi e poi finisce del tutto.

 

Di secolo in secolo possiamo seguire questo processo: il mistero del Golgota si presenta agli uomini

come un evento infinitamente significativo, che incide sull’evoluzione terrestre,

ma nello stesso tempo viene meno la possibilità di comprenderlo con qualsiasi sistema concettuale,

anzi di comprendere in generale il mondo su scala cosmica.

 

Si guardi a un libro scritto nel nono secolo: La divisione della natura, di Scoto Eriugena: anche se già astrattizzate, vi si trovano ancora molte immagini relative al divenire dell’universo.

Scoto Eriugena delinea accuratamente quattro tappe del divenire del mondo, però sempre con concetti inadeguati. Si constata come egli non sia capace di svolgere la rete dei suoi concetti e di rendere plausibile e comprensibile ciò che si propone di esporre. È come se i fili dei concetti si spezzassero di continuo.

È interessante osservare come ciò si renda di secolo in secolo sempre più evidente, finché nel secolo quindicesimo si raggiunge un minimo della capacità di condurre i fili dei concetti. Poi ha inizio una risalita la quale però si muove ai livelli più elementari.

Ecco:

• da un lato gli uomini si trovavano di fronte al mistero del Golgota

al quale si rivolgevano col sentimento, dichiarando però di non saperlo comprendere.

Si diffonde veramente la sensazione che non sia possibile comprenderlo.

• Dall’altro lato, va spuntando l’osservazione della natura:

essa comincia proprio nel momento in cui i concetti vanno svanendo.

 

L’osservazione della natura penetra nella vita degli uomini,

ma non vi sono concetti adatti ad afferrare veramente i fenomeni naturali che vanno presentandosi all’osservazione.

• Ecco un tratto caratteristico del trapasso dal quarto al quinto periodo postatlantico:

non vi si dispone di concetti adeguati né per la nascente osservazione della natura,

né per l’elaborazione delle verità della rivelazione religiosa.

 

Vediamo che la scolastica operante in quel tempo affronta sì la rivelazione religiosa, ma non riesce a far scaturire dalla cultura dell’epoca i concetti atti ad elaborarla.

Ecco che allora ricorre all’aristotelismo, cercando di rinnovarlo. Si ricorre al pensiero greco, ad Aristotele, per ricavare concetti con cui compenetrare la rivelazione religiosa. Si elaborano dunque le rivelazioni della religione ricorrendo all’intelletto greco, perché la cultura propria di quel tempo (per dirlo in modo paradossale) non dispone di intelletto.

E sono proprio i più onesti fra i pensatori di quel tempo, gli scolastici, a non servirsi dell’intelletto di quel tempo… perché non c’è, perché non fa parte della cultura contemporanea! L’essenziale è che proprio i più onesti fra gli scolastici dei secoli dal decimo al quindicesimo ricorrono ai vecchi concetti aristotelici, sia per cercare di comprendere la natura, sia per elaborare i dati della rivelazione.

 

Solo dal quindicesimo secolo emerge un pensiero autonomo, quasi come da lontane profondità dello spirito:

un pensiero che ancor oggi non è del tutto sviluppato,

che ebbe inizio col pensare copernicano, col pensare di un Galileo,

e che dovrà svilupparsi ulteriormente per potersi poi innalzare di nuovo fino alle regioni soprasensibili.

 

Possiamo dunque in certo qual modo guardare all’essenza del cristianesimo, per così dire all’io del cristianesimo, il quale si era solamente rivestito (come abbiamo mostrato) dell’anima ebraica, dello spirito greco e del corpo romano. Ma quanto al suo nucleo, al suo io, il cristianesimo dovette tener conto dell’estinguersi della comprensione soprasensibile: dovette consentire che la profonda saggezza gnostica si concentrasse, si coagulasse per così dire in quel poco (si può proprio dirlo!) che forma l’inizio del vangelo di Giovanni. Sostanzialmente infatti lo sviluppo del cristianesimo consiste nella vittoria delle parole del vangelo di Giovanni sulla gnosi. Poi, certo, tutto quanto è degenerato nel fanatismo e la gnosi è stata radicalmente estirpata.

Anche questi fatti che abbiamo menzionato fanno parte della nascita del cristianesimo; occorre tenerne conto, se si vuole veramente accogliere in sé l’impulso verso la nuova coscienza che l’umanità dovrà sviluppare, l’impulso verso una rinnovata idea del Natale.

 

Dobbiamo ritornare a un tipo di conoscenza che si riferisca al soprasensibile;

a questo fine occorre riconoscere il soprasensibile che agisce entro l’essere umano,

per poterlo poi ampliare fino a comprendere le realtà cosmiche.

Dobbiamo cioè conquistare una « antroposofia », cioè una sapienza dell’uomo,

la quale a sua volta può generare una sensibilità per ciò che è cosmico. Questa è la via.

 

Nei tempi antichi l’uomo poteva conoscere il mondo,

in quanto affrontava la vita recando con sé i ricordi delle esperienze fatte prima di nascere.

Questo mondo, che riproduce il mondo spirituale, costituiva allora per lui

una risposta ai problemi che egli portava con sé nascendo.

Adesso invece l’uomo non porta con sé nulla nascendo, e trovandosi di fronte a questo mondo

è costretto a lavorare con concetti tanto primitivi quanto sono quelli della concezione naturalistica odierna.

Dovrà però ritrovare la via verso l’alto, partendo ora dall’uomo verso il cosmo.

Nell’uomo deve nascere la conoscenza del cosmo.

 

Anche questo fa parte dei pensieri natalizi che debbono svilupparsi ai nostri giorni

per poter portare i loro frutti nell’avvenire.